
Table of Contents
Le dieci cose che pensavo sul vino prima di questo libro
Con i vini ci mangio quel che mi pare
A ognuno il suo Champagne (Metodo Classico)
Come diventare sommelier in cento mosse
Fascino, opulenza, crepuscolo (Amarone)
Il grande sottovalutato (Lambrusco)
Mi piace, non mi piace: il vino <<buono»
Il vino Kiarostami (Pinot Nero)
Guida galattica per enostoppisti
Terra di liberi pensatori (Verdicchio)
Come bere un vulcano (Aglianico)
Il vino fa bene, il vino fa male (la sbornia)
Dell’arte di invecchiare (Brunello)
Le dieci cose che penso sul vino dopo questo libro
Andrea Scanzi
Viaggio alla scoperta dei dieci migliori vini italiani
(e di tutti i trucchi dei veri sommelier)
Indice
Le dieci cose che pensavo sul vino prima di questo libro
Con i vini ci mangio quel che mi pare
A ognuno il suo Champagne (Metodo Classico)
Come diventare sommelier in cento mosse
Fascino, opulenza, crepuscolo (Amarone)
Il grande sottovalutato (Lambrusco)
Mi piace, non mi piace: il vino «buono»
Il vino Kiarostami (Pinot Nero)
Guida galattica per enostoppisti
Terra di liberi pensatori (Verdicchio)
Come bere un vulcano (Aglianico)
Il vino fa bene, il vino fa male (la sbornia)
Dell’arte di invecchiare (Brunello)
Le dieci cose che penso sul vino dopo questo libro
A Gil Grissom, Jason Gideon, Gregory House
Il vino e la musica sono sempre stati per me un magnifico cavatappi.
ANTON ČECHOV
Stelle cadenti, stelle cadute
Non so se avete visto Sideways, il film di Alexander Payne. Un buon film, credo, ma non è questo il punto.
Di Sideways mi ha colpito una scena, più o meno a metà, in cui lei dice esattamente ciò che lui ha sempre sognato di sentirsi dire. Ed è tutto così perfetto, impeccabile. E lui lo sa.
Per questo, lui, sbaglia.
Chiariamo: non è importante avere effettivamente visto Sideways, né star qui a discutere se meritasse l’Oscar per la sceneggiatura o se piuttosto avesse ragione chi l’ha trattato alla stregua di una favoletta eno-romantico americana, verosimilmente confondendolo con una pellicola di là a venire, A good year, questa sì degna di essere ricordata giusto per la bellezza-erremoscia di Marion Cotillaud.
Tutto ciò, ora, è irrilevante: questo è un libro sul vino, non sul cinema. Ed è per questo che occorre soffermarsi, se avete la pazienza di seguirmi, sul momento in cui lei, Virginia Madsen, fa quel discorso.
Che poi lei, la Madsen, neanche è particolarmente bella. Il fatto è che a un certo punto, in Sideways, le mettono in bocca parole incantate. E lui, Paul Giamatti, scrittore impigliato nella propria depressione, ascolta estasiato il suo monologo della vita; lo lascia decantare, ma sbaglia tutto, non meno di un sommelier che fraintende l’erbaceo di un Sauvignon Blanc per il vanigliato del più industriale Chardonnay.
Poco prima, lui aveva finito di pronunciare la propria arringa, il classico pistolotto di chi ama il vino d’essai: un po’ come chi va al cinema e dice di amare anzitutto Abbas Kiarostami (non è vero, chiunque è sano e di onesti sentimenti non può guardare più di cinque minuti di Kiarostami, però deve dire che lo ama: così gli altri penseranno che «lui di cinema ci capisce»).
Il Kiarostami del vino, spiegherò poi perché, è il Pinot Nero. Va detto che, rispetto al regista iraniano, il Pinot Nero offre molti più spunti di riflessione, e soprattutto dà più soddisfazione.
Giamatti è uno che capisce di vino e vuole farlo sapere. Lei, che come tutte le donne sa recitare al meglio – quando vuole – la parte della cassa di risonanza per le elucubrazioni maschili, gli concede amorevolmente l’assist.
Chiede, dunque: «Perché ami così tanto il Pinot Nero?».
Lui non aspettava altro. Finge imbarazzo, ma in realtà gode selvaggiamente. Ed è allora che sciorina l’arringa tipica degli enologi radical-chic.
Sentenzia Giamatti: «È un’uva ardua da coltivare. Buccia sottile, è sensibile, matura presto. Non è una forza come il Cabernet, che riesce a crescere ovunque e fiorisce anche quando è trascurato. Al Pinot Nero servono cure e attenzioni. Infatti cresce soltanto in certi piccolissimi angoli del mondo». E qui lei lo guarda ammirata, indossando quell’espressione che fin dalla formulazione della domanda sapeva di dovere indossare, e che andava esibita al momento giusto.
Lui, titillato dalla di lei partecipazione, si infervora: «Solo il più paziente e amorevole dei coltivatori può farcela. Solo chi prende realmente il tempo di comprendere il potenziale del Pinot sa farlo rendere al massimo della sua espressione. E inoltre… i suoi aromi sono i più ammalianti, brillanti, eccitanti e antichi del nostro pianeta. Il Cabernet, sì, sa essere potente ed esaltante, ma è troppo prosaico per me» (avvertenza: ho capito con il tempo che nell’ambiente enologico fa molto cool associare ai vini aggettivazioni umane. Si chiama antropomorfizzazione del vino. Antropomorfizzazione è, per esempio, definire un vitigno «prosaico», che vuol poi dire banale, troppo di massa e poco di nicchia. Didascalico, di facile comprensione. Non abbastanza stimolante. Non abbastanza d’essai. Non abbastanza Kiarostami).
Ed è qui, dopo il prosaico, che lei cala il poker d’assi. Lui si è scoperto, si è rivelato, si è celebrato. In questo momento Paul Giamatti è come George Foreman a Kinshasa: si è fatalmente scoperto, in attesa del knock-out di Muhammad Ali, la farfalla che fluttuava. Adesso è lei, Virginia, a fluttuare. A colpire, a portare l’uppercut, che stavolta non è un irripetibile movimento di braccia e bacino ma un ardito accostamento tra vita e vino.
E d’un tratto Virginia Madsen appare bellissima, con i suoi riccioli biondi da Verdicchio Villa Bucci Riserva, col suo sguardo mai più così armonico.
Li chiamo con il nome vero, Giamatti e Madsen, non con quello dei personaggi interpretati, perché mi piace stupidamente l’idea che in quel momento entrambi non recitassero.
Dice Virginia Madsen: «Il mio ex marito aveva una splendida cantina, la usava per impressionare gli amici». E subito serve a Giamatti la detronizzazione del proprio ex, una cosa che – da che mondo è mondo – al nuovo partner procura sempre un piacere ottuso, stimolandogli l’illusione che adesso non è suo soltanto il presente e – si spera – il futuro, ma anche il passato.
Sta bluffando? È troppo perfetta? Non importa. Non vogliamo pensarlo, non adesso, quando afferma: «Ho scoperto di avere un palato molto fine. E più bevevo, più amavo quello che il vino mi faceva capire. La verità è che amo pensare alla vita di un vino. Il vino è un essere vivente. E amo immaginare l’anno in cui sono cresciute le uve di un vino: se c’era un bel sole, se pioveva. E amo immaginare le persone che hanno curato e vendemmiato quelle uve. E se un vino è di annata, penso a quante di loro sono morte».
Qui Giamatti è già colpito e affondato, non ha più difese. Non c’è più gara: se solo ne avesse il coraggio, la interromperebbe e la amerebbe, lì, subito, hic et nunc, sulla veranda di quella casa in California (già, perché lo spunto del film è che loro vanno avanti e indietro per la California a bere vini, con la scusa dell’addio al celibato dell’amico di Giamatti: un’ideuccia, ne converrete). Ma lui, che è scrittore e per giunta fallito, il coraggio non ce l’ha.
Lei intanto prosegue, senza sbagliare un accordo: «Mi piace che il vino continui a evolversi, che se apro una bottiglia oggi avrà un gusto diverso da quello che avrebbe se la aprissi un altro giorno. Perché una bottiglia di vino è un qualcosa che ha vita: è in costante evoluzione, acquista complessità. Finché non raggiunge l’apice. E poi comincia il suo lento, inesorabile declino».
A quel punto, solo a quel punto, forse temendo di essere stata troppo perfetta, la Madsen si sporca deliberatamente di prosaico – sì, come il Cabernet – e chiude così: «E poi il sapore… cazzo quanto è buono».
Lei tocca la mano di lui, mentre la musica ruffiana frega anche te, spettatore più o meno alcolico, più o meno ampelografico, e per forza di cose sei lì che pensi: Dai Giamatti, dai, baciala. Toccala, fa’ qualcosa o almeno di’ qualcosa, non di sinistra e neanche di destra, ma non startene lì come un demente.
E invece lui non fa niente. Sta zitto, abbassa lo sguardo, per poi farfugliare qualcosa di veramente pietoso. Bisbiglia un pleonastico «sai, amo anche molti altri vini oltre al Pinot Nero, ultimamente per esempio sono fissato con i Riesling…».
E lì finisce tutto, perché non puoi replicare al dialogo della vita citando il Riesling (fosse anche della Mosella).
Certo, poi si ameranno, forse avranno figli, al pubblico sarà concesso il lieto fine. Tutto questo accadrà però quando il loro vino, dopo aver raggiunto l’apice sotto quella veranda in California, avrà già raggiunto il lento e inesorabile declino.
Ora: se dicessi che una volta ascoltato il monologo di Virginia Madsen ho istantaneamente deciso di scrivere questo libro, non sarei meno bugiardo di Keith Jarrett quando racconta di salire sul palco e affidarsi unicamente alla prima nota, dopo la quale tutto viene da sé.
Non è vero niente, nulla viene da sé. Anche la scrittura, come il vino, è fatica. Soggetta al tempo, al clima, al caso. Non si scrive quasi mai: più verosimilmente, si è scritti (questa non è mia, è di Carmelo Bene).
Ascoltando quelle parole, non ho minimamente pensato che sarei diventato un sommelier o che avrei dedicato un libro al vino. Ho solo pensato che un’idea del genere, utopica e pretenziosa, infantile e sciagurata, da qualche parte la custodivo anch’io: la pretesa, fatalmente intellettuale, che dietro ogni bicchiere di vino bevuto, con gli amici e con la propria compagna, da solo o con chi volete voi, si nascondesse il tributo a un lavoro antico.
L’incrocio di due vite, di due storie. La condivisione di due unicità, di due percorsi: quello di chi beve e di chi è bevuto.
L’universo del vino è tanto esplorato quanto sconosciuto. Da una parte c’è un’invasione di trasmissioni, pubblicazioni, discussioni. Dall’altra il consumatore comune, che guarda al vino come a un mondo inestricabile, in cui il sommelier è un bizzarro demiurgo dotato di olfazione supersonica e mosso da una misteriosa facoltà ipersenziente, che lo induce a usare il bicchiere come il rabdomante usa il bastone (il primo cerca vino, il secondo acqua: la differenza sta nell’alcol, e non solo).
Questo libro non è una guida per esperti e neanche un Bignami per fingersi sommelier. Non è un libro per iniziati, casomai per iniziali.
È un viaggio e un dietro le quinte. Viaggio verso dieci vini (e/o vitigni) che fanno il vanto dell’Italia, anzitutto. Perché dieci? Perché un numero andava scelto. Così come non c’è spiegazione razionale al fatto che Nick Hornby abbia eletto trentuno canzoni piuttosto che trenta o ventinove, qui non c’è una motivazione indiscutibile per il numero dieci. Ho scelto così e basta, ben sapendo di doverne escludere tanti, troppi (tranquilli però: i capitoli di viaggio sono dieci, ma i vini citati al loro interno molti di più).
Perché il Sassicaia è così famoso? Qual è la natura del Barolo? Quale il segreto del Brunello? Perché l’Aglianico è il vino dei vulcani? Perché ci ostiniamo a sopravvalutare lo Champagne e sottovalutare il Metodo Classico? (no, non sono italianista e neanche autoctono spinto: la questione è più complessa).
Poi (anzi prima) ci sono i dietro le quinte, dieci anche in questo caso. L’ordine dei capitoli non è a caso, ma se volete leggere random, sbocconcellando di qua e di là, creandovi il vostro indice personalizzato, io non mi offendo (e neanche il libro, che io sappia).
Mi sono sciroppato i tre livelli Ais, sono diventato sommelier. Già che c’ero, ho conseguito la qualifica ulteriore di degustatore ufficiale. Ho viaggiato, visitato molte cantine, frequentato il Vinitaly (e manifestazioni «alternative»), fatto centinaia di degustazioni. L’idea era quella di sviscerare, senza prendersi troppo sul serio, segreti, finzioni e mitologie che caratterizzano l’universo del vino.
Accanto a ogni viaggio, troverete così un dietro le quinte, qualche consiglio per gli acquisti e non poche dritte per smascherare i troppi Veronelli mediatici.
Si volerà – anche – basso. Per dire: da che mondo è mondo, la sbornia è qualcosa di altamente divertente. Meno lo è l’hangover, il mal di testa del giorno dopo. Qualche consiglio per evitarlo non farà male. Al tempo stesso, forse vi farà comodo scoprire se siete Alfabetizzati o Acculturati. Sarà bene smaliziarvi sulla barrique e sui voti delle guide. Chissà poi che un giorno non vi venga comodo conoscere l’Anatema delle Terga di Bono Vox, il Decalogo del Bevitore Informato, la Legge Glacette, la Guida Galattica per enostoppisti (sì, sono un orfano di Douglas Adams), i vini Muccino o le variegate stirpi di Viniveristi e Giornalosti.
Spesso leggerete di forti contrapposizioni tra tradizionalisti e modernisti, di gusto contadino e gusto american(izzat)o. È così che va. Il fatto che questo libro si intitoli Elogio dell’invecchiamento dovrebbe dare una discreta indicazione su quale sia la fazione a cui mi sento maggiormente vicino.
Ognuno ha le bussole che si merita. Per i capitoli più leggeri ho fatto ricorso alla mia spiccata propensione alla demenza pre-senile, che non mi ha mai tradito. Per le parti più dotte, mi sono principalmente affidato al trimestrale «Porthos», che adoro, e agli ottimi volumi Ais, che ho studiato e ristudiato come neanche all’università.
Sono, volutamente, due pubblicazioni agli antipodi. «Porthos» è la rivista, fondata da Sandro Sangiorgi, in qualche modo vicina alle teorie «proletarie» espresse nel film Mondovino. L’Ais è la potente Associazione Italiana Sommelier, che ha formato tutti i massimi esperti di vino («Porthos» compresa) ma che è da molti accusata di immobilismo e troppa vicinanza con i produttori: da qui le accuse di poca attendibilità delle guide e lo «scandalo Report» del 24 settembre 2004.
Ho fatto di tutto per evitare quegli insopportabili giochi di parole sul vino (tipo: di-vino o per-bacco). Spero di esserci riuscito. Il mio approccio non è stato dissimile da quello di Jonathan Nossiter: un giornalista (e sommelier) non enoico che, un giorno, decide di applicare il proprio metodo lavorativo a un ambito fino a quel momento unicamente hobbystico. Lui ha girato Mondovino, io ho scritto questo libro: si fa quel che si può.
Alla fine del percorso, che sfortunatamente non mostrerà un vino italiano in grandissima salute, mi sono convinto di una cosa, che è poi forse il «senso» ultimo del libro: analizzare oggi il mondo del vino diventa un modo per capire cosa proviamo per il nostro passato e cosa stiamo preparando per il futuro.
Non so se, dopo queste pagine, saprete distinguere un Merlot da un Sangiovese. Di sicuro saprete a che temperatura va bevuto un Amarone, perché il bianco «buca» più lo stomaco del rosso, e – so che la prima domanda è sempre quella – come si fa a sentire il profumo di goudron in un vino.
Avrei poi la pretesa di convincervi che Virginia Madsen non diceva il falso. Che Paul Giamatti andrebbe arrestato per non averla baciata dopo quelle parole. Che, davvero, ogni bottiglia di vino racconta una storia. Una vita.
Sarebbe, però, troppo. Mi limito a pensarlo io, sperando che un giorno mi facciate compagnia. E non è detto che accada: c’è chi pensa che l’unica cosa memorabile dei film sul vino siano le gambe di Marion Cotillaud quando, a bordo vasca, è osservata da un Russell Crowe sprofondato in una piscina vuota, con lo sguardo all’insù come se avesse appena scorto una stella cadente.
Ecco: a volte il vino è stella cadente, più spesso stella caduta.
Le dieci cose che pensavo sul vino
prima di questo libro
1. Sui sommelier mi sa che ha ragione Antonio Albanese quando li imita.
2. I vini costano troppo.
3. I sommelier che vanno in tv mi stanno quasi sempre antipatici.
4. Il sommelier è un alieno caduto per caso sulla Terra (nel suo pianeta originario, Nasorion, appartenente alla Costellazione dell’Anice Stellato, non ci si esprimeva a gesti ma a olfazioni).
5. Un vino non può sapere di idrocarburi, cherosene o merde de poule (e se sa davvero di tutte queste cose, be’, che se lo bevano quei bamboccioni incravattati di «Tg5 Gusto»).
6. Quando dalla bocca di un sommelier sento uscire parole come «opulento», «etereo» e «boisé», mi viene una gran voglia di Nanni Moretti in Palombella rossa, non per mere motivazioni ideologiche ma perché le parole sono – sarebbero – importanti.
7. Quando un ristoratore mi chiede se voglio bere un vino biodinamico, penso che in una vita precedente devo avergli fatto qualcosa di male ed è per questo che sta per avvelenarmi.
8. Le guide dei vini le compro tutte, ma quella puntata di «Report» del 24 settembre 2004 me la ricordo bene (e anche in Mondovino tifavo per gli indiani della Borgogna, mica per John Wayne/Robert Parker).
9. Sul vino aveva ragione Charles Baudelaire (ma anche se non aveva ragione, nove volte su dieci parlare di vino è un ottimo modo di atteggiarsi a intellettuale).
10. Gli astemi mi fanno paura.
Il sommelier è un fingitore
Sono soltanto un astemio di birra,
non un astemio di Champagne.
GEORGE BERNARD SHAW
Ebbene sì, l’ho sperato anch’io. Ho davvero creduto che al termine del corso di sommelier avrei ricevuto in dono il superolfatto.
E invece no.
Non so se è dipeso dalle troppe trasmissioni sul vino, dal lessico surreale che usano i degustatori in tv (sentori di anice stellato, sigaro dell’Arkansas, gladiolo grattugiato, rododendro macerato nel ginseng…), ma quando si parla di sommelier la prima cosa a cui si pensa è la sua (presunta) abilità nel riconoscere i profumi del vino. Di fronte allo sciorinare di sentori che Lui – il Sommelier – è in grado di scorgere nel vino, anche solo tramite una impercettibile olfazione, il comune mortale si sente smarrito. Minuscolo. Sconfitto.
Come può quell’uomo, che apparentemente somiglia a me, sentire tutte quelle cose, tutti quei profumi dentro lo stesso vino che bevo anch’io? Perché lui li percepisce e io no? Ha ricevuto un’iniziazione? È un essere geneticamente modificato, morso in giovane età da un lagotto e per questo in grado, come un Peter Parker alcolico, di percepire qualsiasi aroma? È forse il sommelier un uomo-lagotto?
Anni e anni di degustazioni teatrali, quasi sempre eccessive, non hanno soltanto portato alla geniale imitazione di Antonio Albanese (quella in cui, dopo minuti e minuti di gestualità infinita per aerare il bicchiere, il comico-sommelier sentenzia: «È rosso»). I danni sono stati maggiori. Per i novizi, per i neofiti, ancor più per gli astemi (che sono, sia chiaro, una macrofamiglia di malati inconsapevoli), il sommelier è una sorta di rabdomante etilico, che cerca non l’acqua ma il vino. Più ancora, il degustatore somiglia sempre più a uno scienziato pazzo, un Archimede che ha perso la bussola, un eccentrico figuro con un cucchiaione attaccato al collo e un lessico astruso.
Io stesso, quando mi sono iscritto al corso, speravo in cuor mio che da un momento all’altro, nel bel mezzo di una lezione, mi avrebbero rapito e portato clandestinamente in una vecchia villa abbandonata. Anelavo, probabilmente per vicinanza (solo geografica) con Licio Gelli, al terzo occhio (pardon, secondo naso) massonico. Costretto alla cecità da una stretta benda, come in Eyes Wide Shut, avrei ricevuto l’iniziazione. Un gruppo azzimato (e avvinazzato) di Gran Maestri, incappucciati con il sughero e recanti i sacri vessilli del Chianti Classico Gallo Nero, al ritmo tribale di un remix di Pupo (sono pur sempre aretino) mi avrebbe immerso a forza le narici in un fonte battesimale colmo di Sassicaia, e di colpo avrei ricevuto i superpoteri. Il supernaso. La chiave di volta per essere intervistato da Cesara Buonamici al Tg5 (o da Adriana Volpe a Rai Due).
Da quel momento, pensavo, la mia vita non sarebbe più stata la stessa. Nulla mi sarebbe più stato precluso. Avrei rivaleggiato con il mio labrador, Tavira, riconoscendo prima di lei il sentore di timo nel Pigato ligure o – è sempre stato il mio sogno – gli idrocarburi nei Riesling renani.
Nulla di tutto questo. Sono ancora qui, con il mio esame superato, la mia qualifica professionale di sommelier Ais, la mia specializzazione in degustatore ufficiale.
E il mio comunissimo naso.
Il corso per diventare sommelier Ais è una cosa molto seria. Tre livelli, quarantacinque lezioni di due ore e mezzo l’una, frequenza obbligatoria (massimo due assenze a corso), duemila euro di costo complessivo e quasi tremila pagine da studiare. La percentuale di bocciati all’esame finale è del 30% (e per l’esame da degustatori supera il 50%). Mi ha impegnato più il corso Ais rispetto alla metà degli esami universitari sostenuti (e non so se con questo faccio un complimento all’Ais o una critica alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Siena, con sede in Arezzo: nel dubbio, eviterò di rispondermi).
Ogni livello è costituito da quindici lezioni, spalmate in tre mesi. I relatori sono sommelier Ais che hanno superato gli ulteriori esami di degustatore ufficiale e relatore ufficiale.
Il primo livello riguarda enologia e degustazione: cos’è il vino, da cosa è composto, come si degusta. E poi: spumanti, vini speciali, distillati. Un’infarinatura generale, la base – irrinunciabile – della preparazione. Al termine del corso non c’è un esame, solo un’autoverifica.
Il secondo livello, croce e non delizia di quasi tutti i corsisti, è incentrato sullo studio di tutte le Docg (trentacinque) e Doc (più di trecento) italiane, più una – fin troppo – rapida panoramica sulle altre realtà vitivinicole mondiali: Francia, resto d’Europa, Stati Uniti, Cile, Argentina, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda. È un corso che ho trovato avvincente, ma sono in assoluta minoranza. La seconda parte è soprattutto mnemonica, per questo terrorizza gli esaminandi, convinti fino all’ultimo che non supereranno l’esame finale se non sapranno dire se la Doc Gabiano è a base sangiovese o nebbiolo (nessuna delle due: barbera, provincia di Alessandria). Anche in questo caso, al termine delle quindici lezioni, c’è solo un’autoverifica.
Il terzo livello è incentrato sulle regole di abbinamento cibo/vino. Per essere sommelier non basta conoscere il vino: devi sapere le caratteristiche del cibo, il significato della locuzione court bouillon, il contenuto della salsa bernese e la percentuale di amido nel riso Carnaroli.
Alla fine di tutto questo percorso, che può anche essere ultimato in un anno solare, sempre che la Delegazione della vostra città abbia sufficiente richiesta (cioè iscritti), c’è il famigerato esame finale. Nel quinto capitolo mi sono divertito a svelare – oppure inventare con cognizione di causa – le cento domande a cui saper rispondere per essere veri sommelier. Qui mi limito a dire che l’esame finale, nel quale ti chiedono tutti e tre i livelli (e quindi circa tremila pagine), è fatto da una prova pratica, una prova di servizio e una orale.
Nella prova pratica, per prima cosa degusti (alla cieca) un vino e riempi la scheda usando la terminologia Ais. Prevede un massimo di dieci punti, ma è grassa se te ne danno sei o sette, perché il commissario d’esame non solo ha più conoscenza di te, ma sa che vino hai degustato, e quindi se scriverai che quel vino per te era «abbastanza caldo», cioè alcolico ma non troppo, e quel vino si rivelerà essere un Amarone della Valpolicella, non ci farai una bella figura (l’esempio, va detto, non è calzante: in sede d’esame, e anche prima, raramente si «tira il collo» a bottiglie particolarmente costose).
Poi ti portano un alimento, di solito formaggio o affettato, e tu riempi la scheda dell’abbinamento cibo/vino. Anche questa prova porta dieci punti. Moltissimo dipende dalla soggettività del commissario: ciò che a te è sembrato abbastanza armonico a lui può sembrare armonicissimo (e viceversa).
Poi, il supertest. Cinquantadue domande (mai capito perché proprio cinquantadue) così divise: venti domande vero/ falso, venti domande a risposta multipla (quattro opzioni), dodici a risposta libera. Per le risposte vero/falso sono assegnati 0,1 punti l’una, per le risposte multiple 0,2, per quelle libere due punti l’una.
Considerando che hai un’ora di tempo, tutti si buttano sulle dodici domande «libere», che da sole portano ventiquattro punti. Ho visto corsisti perdere mezz’ora nelle vero/falso. Per quanto ti avvertano, prima e durante l’esame, che quelle domande al massimo – se proprio le indovini tutte – ti daranno due punti, ovvero quanto una sola domanda a risposta libera, molti non si fidano e perdono minuti interi nel disperato tentativo di ricordare se è vero che il Marsala Vergine deve avere un affinamento minimo di sei anni (è falso: sono cinque). Tutto questo mi ha spinto a pensare che l’uomo è naturalmente portato alla stupidità, considerazione che però in questa sede mi pare non solo filosoficamente forte, ma pure così estrema da necessitare un supporto ideologico più rilevante che un esame da sommelier (quindi fate finta di non avere letto).
La cernita vera la fa proprio il supertest. Gli esaminatori sono i primi a rendersi conto che la degustazione è soggettiva, la conoscenza no.
Di solito due settimane dopo, senza che tu sappia quanto «hai fatto» allo scritto, c’è la prova orale. Cominci con una prova di servizio, che è in realtà una prova finta: a esaminarti non è il commissario, ma dei semplici sommelier della tua stessa Delegazione, che hanno tutto l’interesse ad aiutarti. Non ti chiederanno mai di aprire una bottiglia (le bottiglie hanno un prezzo, se per ogni esaminando se ne aprisse una i costi diventerebbero rilevanti), al massimo ti domanderanno i nomi delle bottiglie (albeisa, bordolese, borgognona, renana ecc.), che bicchieri useresti per degustare uno Chardonnay e a cosa serve il tastevin (a niente ormai: è solo uno strumento simbolico). La prova di servizio porta cinque punti, che quasi tutti ottengono.
C’è quindi la prova orale. Ti viene versato un bicchiere di vino. Tu lo porti al tavolo e, prima di rispondere alle domande, lo degusti di fronte all’esaminatore (dieci punti). Non importa, stavolta, cosa dirai: importa come lo dirai. Devi dare una sensazione di sicurezza, devi sembrare certo del tuo giudizio e mostrare una perfetta padronanza del lessico Ais. La cosa peggiore da fare è non dare giudizi netti. Non sai se quel vino è morbido o abbastanza morbido? Fregatene: buttati e di’ «morbido», con convinzione. Se cominci a dire – e c’è chi lo fa – «questo vino sembrerebbe abbastanza morbido ma potrebbe anche essere morbido», l’esaminatore penserà che per ogni degustazione vi occorreranno tre ore, e verosimilmente non vi reputerà degni di entrare nella setta.
Alla fine c’è la prova orale vera e propria, che porta trentacinque punti. Meglio avrete fatto il test, meno domande vi verranno fatte. Più sarete in un «range-limbo» (venticinque-cinquanta punti dopo lo scritto), più vi tempesteranno di domande, non per torturarvi ma per salvarvi. Si passa con almeno sessanta centesimi. Il diploma è lo stesso, quindi non c’è nessuna differenza tra passare con sessanta o novanta.
Se non si ha studiato, non si passa. No way.
Fin qui ho parlato di Ais, l’Associazione Italiana Sommelier. Ne esistono altre, per esempio la Onav e la Fisar. La prima, Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino, è incentrata quasi esclusivamente sul primo livello Ais. È più tecnica, insiste molto su come si fa il vino e su quali sono le sue malattie. La seconda, Federazione Italiana Sommelier Albergatori Ristoratori, è una Ais in diesis minore, meno costosa, meno lunga, meno impegnativa ma anche meno qualificante.
L’unico motivo per non fare l’Ais è economico. Non un motivo da poco, me ne rendo conto. Ed ha ragione chi rinfaccia all’Ais due difetti: le bottiglie aperte durante i corsi non sono pregiate (non abbastanza da giustificare i seicento euro abbondanti a corso) e la parte riguardante le realtà estere, anzitutto la Francia, è un po’ tirata via.
Detto questo, il corso Ais è di assoluto livello, un’esperienza formativa gratificante, e il materiale didattico, di prima scelta. Rappresenta, in Italia, l’opzione migliore. Tutti i più importanti sommelier, o i più stimati giornalisti «enoici», hanno mosso i primi passi da lì. Qualcuno è rimasto dentro l’associazione, altri l’hanno lasciata in cerca di nuove esperienze e maggiore libertà.
L’associazione è nata il 7 luglio 1965 e ha ottenuto il riconoscimento giuridico nel 1973. Oggi conta più di trentamila associati. La sua guida, Duemilavini, è stampata in sessantamila copie e rappresenta un punto di riferimento con la guida Veronelli e quella del Gambero Rosso (Duemilavini dà i voti in grappoli, il massimo è cinque; il Gambero valuta in bicchieri, il massimo è tre; la rivista americana «Wine Spectator» dà i voti in centesimi).
Sento già la vostra domanda: coloro che passano l’esame, coloro che diventano sommelier, coloro che poi nei ristoranti lussuosi e nei banchetti nuziali indossano la divisa con aria marziale e – a volte – vi scrutano diffidenti, facendovi sentire degli incolti perché non saprete apprezzare appieno il nettare che vi hanno appena versato con classe innata, sanno veramente tutto di vino? Hanno il diritto di insegnare, di gestire lo scibile enologico?
Vi rispondo non rispondendovi. Come in tutte le associazioni, come in tutti i microcosmi, come in tutte le comunità giocoforza corporative, dentro il mondo dei sommelier ci sono persone competenti e no, simpatiche e antipatiche, modeste e immodeste. Posso dire che sono molte di più le note positive di quelle negative, ma non voglio neanche nascondere la realtà delle cose. Ovvero che, com’è del resto ovvio, il corso ti dà (solo) una base di partenza.
Chi si ferma lì non soltanto perde presto la «bocca», cioè la capacità di assaggiare, ma anche tutto quello che aveva (forse) appreso. Se a non coltivare la propria preparazione è uno che ha fatto il corso esclusivamente per piacere personale, senza ambizioni lavorative, nulla di male. Se a adagiarsi è un pezzo grosso, la cosa è più inquietante.
Quando ho dato l’esame io, mi è toccato un vino bianco che mi sono guardato bene dal voler riconoscere. Mi sono limitato a degustarlo decentemente, che è già tanto. Ho poi saputo che il commissario, con aria risoluta, dopo averlo degustato alla cieca ha sentenziato: «Questo è senz’altro Sauvignon». Accanto a lui c’era un relatore della Delegazione di Arezzo, Cristiano Cini, arrivato secondo al Campionato Nazionale di Degustatori Italiani. Si è permesso di dire: «Secondo me è Fiano di Avellino». Il commissario lo ha preso in giro: «Suvvia, Cini, proprio lei che è arrivato secondo mi fa questi errori? Questo è palesemente Sauvignon, come si fa a non riconoscerlo?».
Hanno poi tolto l’involucro che oscurava l’etichetta.
Era Fiano di Avellino.
Poiché l’immaginario collettivo è colpito da istantanee televisive, mesi e mesi di uomini in blu scuro che – camminando per vigne incantate – vi dicono in tv che in quel bianco ci sono echi di anice stellato, il pubblico è stato indotto a pensare che il sommelier sia anzitutto, per non dire soltanto, «quello che annusa il vino».
Ebbene, se fosse questo, e solo questo, il sommelier non esisterebbe. Nessuno, tranne pochi illuminati, è in grado di riconoscere senza ombra di dubbio il nome e l’assemblaggio del vino che sta degustando. E ben pochi sono in grado di riconoscere veramente quei sentori olfattivi alla cieca.
Per questo dico, non senza affetto, che il sommelier è (anche) un fingitore. Anzitutto quelli che vanno in tv. Datemi una bottiglia, fatemi vedere l’etichetta e l’annata, ditemi come lavora l’azienda che la produce (o fatemi leggere la scheda di Duemilavini). Anch’io, neosommelier, a quel punto, sarò in grado di andare in tv e fingermi il Peter (o Robert) Parker del vino.
Credetemi, farei un figurone.
Tra amici – quelli intimi, ché altrimenti è una vergogna – mi diverto spesso a sciorinare i più improbabili sentori del vino che stiamo bevendo. Un po’ li avverto e soprattutto so che quei profumi ci devono essere. Il Cabernet Franc avrà sempre una nota di peperone, il Merlot svetterà in morbidezza, lo Chardonnay avrà sentori vanillici (anche senza aver fatto troppa barrique) e così via. Potrò perfino esagerare, citando sostanze apparentemente psicotrope come norisoprenoidi e metossipirazine, responsabili – per esempio – della «nota verde» del Sauvignon. Gli altri, chi mi circonda, non potranno mai mettere in discussione ciò che garantisco di sentire (non fino ad aver letto questo libro, almeno), perché io ho fatto l’esame e loro no. Io ho studiato e loro no. Vincerò sempre io.
In tv, nei giornali, nelle riviste specializzate, funziona allo stesso modo. Il sommelier non è un mago olfattivo, non può riconoscere vino e annata (se non per scherzo o nei concorsi). Quando i sommelier, al ristorante, vi sciorineranno le caratteristiche del vino dopo averlo degustato, immaginatevi la stessa persona alle prese con lo stesso vino, ma senza aver letto l’etichetta: verosimilmente, fatalmente, comprensibilmente, franerebbe.
Voi mi direte: sì, ma allora a cosa servono tutte quelle lezioni? A questo credo di poter rispondere: a conoscere il vino, a studiarlo, a capirlo. A sapere cosa si beve. A saper bere.
L’esame olfattivo è solo il più esotico degli elementi che compongono l’universo enologico. Trattandosi di una prova pratica, arrivi a un certo punto in cui lo studio non basta più per imparare a degustare. Dovrai improvvisare, dovrai camminare da solo con le tue narici (okay, questa è un’immagine un po’ ardita, forse ho esagerato). E a quel punto ti scontrerai con i limiti del corpo umano.
Punto primo: dei nostri sensi, l’olfatto è notoriamente quello meno usato e per questo il più arrugginito (peccato: se allenati potremmo riconoscere diecimila odori diversi e, potenzialmente, l’olfatto è diecimila volte più sensibile del gusto).
Punto secondo: di quali cifre stiamo parlando? Il vino è composto anzitutto da acqua, in percentuale tra il 75% e l’85%. Poi c’è l’alcol, dal 4,5% al 20%. La glicerina, responsabile della morbidezza del vino (ciò che in tv chiamano «rotondità»), è in percentuale di 5-18 grammi/litro. L’acidità fissa, responsabile della freschezza del vino, non supera i 4-8 grammi/litro. E la cosiddetta sapidità o mineralità di un vino dipende dalla presenza di sali di acidi organici e inorganici: la miseria di 1,5-2,5 grammi/litro. Parliamo, di fatto, di microsensazioni. Di caratteristiche difficilissime da scorgere, che necessitano di un allenamento continuo (con buona pace del fegato).
Ebbene, sapete qual è la percentuale delle sostanze aromatiche, quelle cioè responsabili dei profumi di un vino? Ve lo dico io: 0,2-0,3 milligrammi/litro. Milligrammi, non grammi. E voi volete farmi credere che uomini e donne che magari non si sono mai mossi da Milano, che non hanno mai vissuto in campagna, sappiano davvero riconoscere i profumi di ginestra, gelsomino, viola mammola, mela golden e cardamomo?
In un vino, è stato calcolato, si possono riconoscere fino a duecentoventi aromi. Saranno aromi primari se deriveranno direttamente dalla buccia degli acini (terpeni, anzitutto), secondari se dipenderanno dai processi di vinificazione (alcoli superiori, esteri, eteri), terziari se deriveranno dall’invecchiamento (aldeidi, chetoni, acetali, lattoni). Questo significa che, conoscendo l’etichetta, e quindi l’annata e i vitigni usati, io potrò degustare a prescindere dal vino. Sia chiaro, è una prassi che toglie tutto il fascino a un vino, è un po’ come leggere i Promessi sposi col Bignami o rovinarsi l’ottava serie di Csi leggendo in Internet gli spoiler con le trame delle puntate inedite. Ed è poi una scorciatoia tanto eticamente discutibile quanto concretamente fallace: uno dei fascini del vino è che non è mai uguale a se stesso, o a come te lo aspetti.
Però è così che si fa, anzitutto nella grande comunicazione. Si imparano i trucchi del mestiere, si tengono a memoria le coordinate base. E si diventa icone – o zimbelli – mediatiche.
Quando facevamo il terzo corso, prima della lezione ci dicevano di annusare tre boccette con altrettante essenze. Poi le dovevamo riconoscere. Posso garantirvi che era un miracolo quando ne beccavamo una (una: non due). Scrivevamo «pesca» ed era «albicocca», scrivevamo «peperone» ed era «bosso», scrivevamo «vaniglia» ed era «cacao».
Poche settimane dopo, quelle stesse persone sono diventate sommelier. Per questo, quando ve le troverete davanti, al ristorante o a un ricevimento, non prendetele troppo sul serio.
Proviamo a farla, dunque, una degustazione. Prendiamo come traccia proprio quella Ais, la migliore.
Oltre al problema del riconoscimento delle microsensazioni, c’è quello della comunicazione. Come fai a raccontare un vino? Come fai a comunicare una sensazione soggettiva? È come quando recensisci un disco: che parole usi per descrivere quel suono? Come la definisci la chitarra di Jimi Hendrix? Incendiaria? Esplosiva? È un muoversi a tentoni, al buio. Così per il vino. Si tratta di esprimere l’ineffabile: mica facile.
Gli haustores, i sommelier dell’antica Roma, si limitavano a descrivere. I sommelier medioevali erano interessati agli aspetti salutistici. Un primo vocabolario enologico è del Cinquecento, lo usa Sante Lancerio, bottigliere di Paolo III. Dal Settecento in poi, con l’arrivo di chimici ed enologi, il lessico si amplia. Ai giorni nostri si è ampliato troppo, divenendo inutilmente immaginifico e autoreferenziale, una sorta di linguaggio cifrato per iniziati che amano trastullarsi straparlando di «odore di pipì di gatto», «sella di cuoio di cavallo sudato» e, come ironizzò perfidamente il grande Luigi Veronelli, «sentori di sperma fresco».
Il mensile «Il mio vino» ha inventato una rubrica che adoro, Il più bel fior ne colse. Ogni mese assegnano il «carciofino», ovvero un premio simbolico, alla recensione più stralunata di un vino. Quella più ricca di strafalcioni ed esagerazioni. In uno dei primi numeri del 2007, i premiati avevano colpito la giuria grazie a immagini come «sfarfalla tra note burrose e selce calda», «la bocca dispiega un palato legnoso», «carezzevole nella carbonica» e – la vincitrice – «confluenza non occlusa da scurente sovratannino». Chi scrive seriamente cose simili è il maggior nemico del vino, e non fa che dare ogni volta ragione alla caratterizzazione di Albanese (che peraltro ama il vino).
La degustazione può essere orizzontale o verticale. È orizzontale se si assaggiano bottiglie dello stesso vino e della stessa annata, ma di produttori diversi; è verticale se si degustano bottiglie dello stesso vino e della stessa azienda, partendo dall’annata più recente per poi andare a ritroso. Nel primo caso si valorizzeranno le differenze del terroir e l’abilità dei vinificatori, nel secondo ci si soffermerà sugli effetti climatici che rendono il vino diverso ogni anno.
Una degustazione può servire a molte cose. Per capire il potenziale commerciale di quel vino, per appurare se merita la Doc o Docg, per individuare pregi e difetti. Per paragonarlo ad altri, per stabilire l’abbinamento con un cibo, per riconoscere la tipologia. Per assegnargli un punteggio.
A noi interessa la degustazione amatoriale, quella che effettua colui che il mercato chiama «consumatore finale»: vale a dire, ciascuno di noi. Regola vorrebbe che per degustare un vino si usasse il cosiddetto bicchiere iso-normalizzato, ma non è un postulato. Basta avere un bicchiere di vetro cristallino, trasparente, a forma di tulipano, che si restringe verso la sommità (così i profumi non si disperdono ma «investono» il naso), e con uno stelo sufficientemente alto (affinché la mano, con la sua temperatura e i suoi odori, non falsi il vino).
Ognuno degusta dove può, di solito in casa o nel ristorante. La molto teorica «sala di degustazione», usata dai critici che danno il voto ai vini nelle guide, dovrebbe essere confortevole, spaziosa, arieggiata, ben illuminata e lontana da fonti odorose (non la cucina, quindi). Le pareti devono essere bianche, per non condizionare l’esame visivo. Per lo stesso motivo, sul tavolo deve essere messo un foglio bianco.
Altre regole base: non usare profumi intensi, non ingerire sostanze dal sapore persistente, non fumare, non degustare più di dieci-dodici campioni di vino (i sensi si assuefanno presto), scegliere un orario opportuno (meglio la mattina), non essere raffreddati. Seguire una sequenza logica di assaggio dei vini (prima i più giovani e meno alcolici, poi i più impegnativi: degustare uno Sfursat e poi un Grignolino è da arresto).
Quindi una cosa che non fa nessuno, anzitutto il «consumatore finale»: non lasciarsi condizionare dalla fama del vino o del produttore. La «degustazione prezzolata» è la più facile: questo vino è molto famoso, l’ho pagato tanti soldi, quindi è buono e mi piace per forza. Sì, buonanotte.
Altro aspetto fondamentale: la temperatura del vino. Alle basse temperature si esaltano le durezze, a quelle alte le morbidezze. Tradotto: più un vino è freddo, più io esalterò acidità, sapidità e tannini. Il tannino è astringente, quindi se si sentisse troppo renderebbe un vino simile a una spremuta di carciofi crudi. Perché bere il vino freddo, allora? Semplice: perché il vino bianco non ha tannini (meglio: solitamente ne ha pochissimi, quasi impercettibili). In compenso ha quasi sempre la sua ragion d’essere nella componente acida, nella freschezza, nella capacità di far salivare e dissetare. Per questo gli spumanti vanno serviti a sei-otto gradi e i bianchi a otto-quattordici gradi (più sono giovani, più si abbassa la temperatura). Un vino bianco servito «caldo», e senza cestello del ghiaccio, è un vino servito malissimo. Non esitate a dirlo al cameriere: è lui che sbaglia, non voi.
Il vino fresco, di solito, piace a tutti, ma attenti a due cose. Più un vino sarà freddo, meno profumi percepirete (quindi la famosa frase, che prima o poi tutti noi abbiamo detto almeno una volta d’estate, «vorrei un bel vino bianco profumato e ghiacciato», è un ossimoro). Non solo: l’alcol è una componente morbida del vino, quindi alle basse temperature non la sentirete. Ecco perché la vodka ghiacciata va giù così bene: perché l’alcol non si sente (ma c’è, e la mattina dopo la vostra testa stordita ve lo ricorderà).
Per lo stesso motivo, un vino rosso andrà servito a quattordici-diciotto gradi, fino addirittura a venti gradi se in presenza di un rosso importante e molto invecchiato. Le alte temperature esaltano i profumi (di cui verosimilmente un rosso pregiato sarà ricco) e le componenti morbide: dolcezza (ma tanto a noi interessano i vini secchi), morbidezza e componente alcolica.
Sembra una cosa da nulla, ma bastano due gradi di differenza a cambiare radicalmente un vino. E sbagliare la temperatura di servizio è uno degli errori più gravi.
(Parentesi: perché fare una degustazione umana, organolettica, immensamente difficile nonché soggettiva, invece di affidarsi all’infallibile analisi chimica di un vino? Per tre motivi. Perché l’analisi chimica è quantitativa, non qualitativa: non ti dice se un vino è buono, ti dice solo cosa c’è dentro. Perché la gascromatografia, l’analisi strumentale che rivela i profumi, dà risultati che solo uno scienziato sa leggere. E perché fa molto più cool dire che «il vino è fruttato con sentori di ciliegia», invece che «il vino sa di benzaldeide cianidrica», ovvero la principale sostanza chimica responsabile del profumo di ciliegia.)
Ci siamo, possiamo degustare. Già: ma cosa significa degustare? Assaggiare, assaporare, gustare. Come si fa? È un movimento in tre fasi: esame visivo, olfattivo, gusto-olfattivo.
L’esame visivo, il primo da fare, valuta limpidezza, colore e consistenza di un vino. Se il vino è frizzante o spumante, al posto della consistenza si valuterà l’effervescenza: grana, numero e persistenza delle bollicine.
È la parte più «facile» delle tre, ma non per questo la meno importante. È una parte presuppositiva, nel senso che ci si augura che le riposte date dall’esame visivo verranno corroborate dall’esame gusto-olfattivo.
Per ogni passaggio della degustazione, vanno usati determinati termini e va seguito l’ordine cronologico della scheda Ais. Se, per dire, valuti prima il colore e poi la limpidezza, in sede di esame è un errore (e neanche lieve). La limpidezza di un vino è l’assenza di particelle in sospensione: un limite minimo di particelle è tollerato, per esempio nei vini invecchiati o non filtrati. La scala è: velato (sempre una situazione inaccettabile), abbastanza limpido, limpido (quasi tutti i rossi in commercio), cristallino (i bianchi di pregio), brillante (gli spumanti Metodo Classico e gli Champagne).
Il colore ci dà molte risposte, perché dipende da diversi aspetti: dall’ambiente pedoclimatico, dal vitigno, dalle tecniche di lavorazione e dall’evoluzione. Oltre al colore, si valuta la sua intensità, la tonalità, le sfumature (i cosiddetti «riflessi») e la vivacità. Il bianco potrà essere giallo verdolino, paglierino, dorato, ambrato; il rosato tenue, cerasuolo, chiaretto; il rosso porpora, rubino, granato e aranciato.
Più si sale nella scala, più anziano di solito sarà il vino: un giallo verdolino sarà indicatore di un vino bianco giovanissimo, magari a vendemmia anticipata, e il verde dipenderà dalla fotosintesi clorofilliana; verosimilmente all’assaggio percepiremo una spiccata acidità e uno sbilanciamento verso le durezze (per esempio il Vinho Verde portoghese). Al contrario, un vino dorato sarà stato sottoposto a invecchiamento e, probabilmente, a un passaggio in legno.
Così per il rosso: porpora è il colore dei novelli, dei vini giovani; aranciato è il colore dei vini evoluti, molto invecchiati. La sua trasparenza, il suo essere intenso o scarico, ci darà indicazioni sul vitigno (se è scarico sarà un vitigno poco ricco di antociani, come il nebbiolo, se intenso verrà da vitigni con grandi estratti, come l’aglianico).
La vivacità del colore, la sua capacità di rifrangere la luce, darà altre risposte, in particolare ci farà pensare a un vino con una bella nota di freschezza (pensate alla grande vivacità dello Champagne).
La consistenza è legata alla presenza di alcol etilico nel vino, oltre che di tutte le altre sostanze che ne arricchiscono la struttura. Si valuta con i termini fluido (sempre un difetto), poco consistente, abbastanza consistente, consistente, viscoso (accettabile solo per tipologie particolari di vini, per esempio i vini passiti o liquorosi). È la parte dell’esame più divertente, quella degli archetti: si rotea velocemente il bicchiere (che deve essere riempito al massimo per un terzo, altrimenti «spaglia») e si valuta l’ampiezza degli archetti che si formano sulle pareti del bicchiere. L’alcol è un componente volatile. Per l’aumento della tensione superficiale, scendendo verso il fondo il vino forma delle gocce chiamate lacrime. Gli spazi tra le lacrime si chiamano archetti. Più le lacrime scenderanno lentamente, più il vino avrà estratti e quindi struttura. Più gli archetti saranno fitti, più il vino sarà consistente e quindi alcolico.
A volte capita che tu abbia dato «consistente» a un vino, per via degli archetti fitti e densi. Poi – fidatevi, succede sempre – vai ad assaggiare il vino e non lo trovi caldo, cioè con un’alcolicità pronunciata, ma abbastanza caldo. Significa che hai sbagliato l’esame visivo? Non necessariamente. Può anche essere che quel vino abbia effettivamente tredici gradi o più, ma che freschezza e sapidità (componenti dure) mascherino la pseudocaloricità.
Capite bene che, se siete a conoscenza dell’etichetta del vino che state bevendo, difficilmente potete sbagliare. Un Taurasi del ’97 non potrete certo definirlo rosso porpora e poco consistente, ma – a occhi chiusi – rosso granato con riflessi aranciati (segnali chiari dell’età del vino) e consistente.
La seconda parte della degustazione è il «mitico» esame olfattivo. Si valutano intensità, complessità e qualità. Messa così è facile. L’intensità è l’insieme delle sfumature odorose percepite contemporaneamente. Attenti: non è un’analisi qualitativa. Si tratta solo di valutare il «cazzotto» che ti dà il vino quando, la prima volta, lo avvicini al naso. È un mero discorso di impatto, di forza. Potrà essere carente (sempre un difetto), poco intenso, abbastanza intenso, intenso, molto intenso. La storia del «poco» e dell’«abbastanza» frega sempre, perché porta a pensare che se valuti «abbastanza intenso» un vino lo danneggi. No, l’intensità, come la complessità, dipende dalla tipologia del vino. Un Gewürztraminer avrà sempre un’intensità maggiore di un Trebbiano toscano: è la loro natura. Il fatto che poi a te piaccia più il Gewürztraminer del Trebbiano toscano non deve influenzare minimamente la degustazione, ed è proprio questa rinuncia alla soggettività uno degli aspetti più difficili.
Ogni volta che ho partecipato a una degustazione, le parole più gettonate – ed ero con sommelier quantomeno aspiranti – sono state «buono», «mi piace», «non mi piace». È uno sbaglio: una Freisa deve essere abbastanza complessa, o addirittura poco complessa: lei nasce così, non ha ambizioni alte, nasce come vino di pronta beva, da pasto di tutti i giorni. Ed è un vino di grande dignità. Quando la si valuta, va rapportata alle caratteristiche proprie, non a quelle di un Barbaresco.
La complessità olfattiva è la varietà dei profumi di un vino, percepiti in successione dopo ripetute ispirazioni (non troppe, ché poi subentra l’assuefazione). È un’altra valutazione quantitativa: più famiglie di profumi riconoscerò, più il vino sarà complesso. La scala è analoga a quella dell’intensità: carente (sempre un difetto), poco complesso, abbastanza complesso, molto complesso, ampio. Non è chiaro a nessuno quando si debba passare da «abbastanza complesso» a «complesso». Ci sono sommelier per i quali il complesso scatta solo dal quarto riconoscimento in poi, e altri che si accontentano di tre. Anche per questo, quando si fanno le guide, si fa degustare lo stesso vino a più persone, scartando il voto più alto e quello più basso: perché, per quanto si persegua l’uniformità di giudizio, ognuno è affezionato alla sua personalissima interpretazione delle regole.
La qualità olfattiva è la sintesi del giudizio relativo all’intensità e alla complessità dei profumi, oltre alle loro doti di piacevolezza, finezza, tipicità ed eleganza. Si valuta in: comune (sempre un difetto), poco fine (quasi sempre un difetto), abbastanza fine, fine, eccellente. In un certo senso è il voto più facile da dare, perché segue i precedenti: se hai dato «abbastanza intenso» e «abbastanza complesso», darai «abbastanza fine». E così via. È una valutazione non più quantitativa, ma qualitativa. Solo che, anche qui, non dovresti valutare se piace o no a te, ma se è un profumo «fine» o «tipico» in relazione al vino degustato (quindi, altro problema, se fai una degustazione alla cieca sei in grossa difficoltà nel valutare la sua tipicità).
Una volta dati questi giudizi, si entra nel dorato mondo del riconoscimento dei profumi. Sono tutti racchiusi in macrofamiglie: floreale, fruttato, vinoso, aromatico (solo per i vitigni aromatici: gewürztraminer, malvasia, moscato, brachetto), franco (sottolinea la chiarezza di un determinato profumo percepito), fragrante (nel senso di vino giovane dai profumi tipicamente freschi, ma anche con riferimento al tipico profumo «di lievito» degli spumanti ottenuti con la rifermentazione in bottiglia), erbaceo, minerale, speziato, etereo.
Qualcuno, anche all’esame, pensava che se il vino sapeva di vaniglia, era perché dentro c’era la vaniglia. Purtroppo potrebbe anche essere, nel senso che all’estero (e non solo) la legislazione è aleatoria e per velocizzare le cose si mescola il vino direttamente con i trucioli di legno, che cederanno più in fretta i loro (falsati e falsanti) aromi.
Di norma il vino ha certi profumi perché contiene sostanze chimiche responsabili di aromi precisi. Queste sostanze possono esistere fin dalla buccia dell’acino d’uva (terpeni, metossipirazine, norisoprenoidi) o, molto più spesso, formarsi durante i processi di vinificazione (profumi secondari) e di invecchiamento (terziari). Il profumo di pesca dipenderà dal g-undecalattone, la menta dall’1-carvone, la liquirizia dalla glicirizzina, la cannella dall’aldeide cinnamica e così via.
Volete il segreto per sentire i profumi? A parte farsi mordere dal lagotto di cui sopra, non ce ne sono. Ma esistono degli aiuti, dei trucchi. Un vino giovane avrà sempre sentori di fiori freschi (bianchi o rossi, a seconda della tipologia), di frutta a polpa bianca o a bacca rossa e nera, erbe aromatiche, sentori minerali e fragranze vegetali.
I vini bianchi giovani sono la mia passione, perché a degustarli non sbagli mai. Dite sempre floreale (e buttate là un biancospino, anche se non l’avete mai visto), fruttato (una mela poco matura, se è molto giovane, una pesca o frutta esotica tipo ananas, se è uno Chardonnay, oppure sparate uno strepitoso litchi se avete tra le mani un Traminer Aromatico), al limite fragrante. Nessuno vi dirà che state sbagliando, perché «fruttato» e «floreale» ci sono sempre, in tutti i vini. A quel punto potete andare oltre, ma non troppo: state bevendo un vino giovane, non un Trebbiano d’Abruzzo del ’97 di Valentini. Dite con sguardo perso, simulando impegno e una qual aria illuminata, profferendo le parole come se foste prossimi a svelare all’umanità un segreto indicibile, «sentori minerali e vegetali con note di erba aromatica». Rileggete: non vuol dire assolutamente niente, ma negli astanti provocherà un corto circuito emozionale che li farà sentire a voi palesemente inferiori. Se qualcuno vi chiederà – inopportunamente – di essere più preciso, fate mente locale e pensate a un’erba che usate per cucinare (sì, la maggiorana può andare bene). Esalate un bosso, che nessuno sa esattamente cosa sia (l’erba bagnata, credo) ma che misteriosamente è in tutti i vini. Azzardate un muschio, che fa fichissimo.
Sarete i Re della serata.
Allo stesso modo, se il vino sarà più importante, diciamo un rosso invecchiato, i profumi dovranno salire di tono. Okay fruttato e floreale, con loro non sbagliate mai, ma infiocchettate la caramellina per gli amici (o per la tv): alludete a frutta macerata e fiori appassiti, ciliegie sotto spirito (se è forte la componente alcolica), confettura di more, cose così. E poi andate oltre: bene i minerali e i vegetali, ma non basta. Qui ci vuole uno speziato, perché il vino avrà sicuramente fatto legno o comunque avrà sviluppato negli anni profumi terziari dati dall’evoluzione.
Se dite vaniglia intendete dire che sentite troppo la barrique, e se il vino lo giustifica andate oltre: azzardate un pepe (se è Syrah andate sul sicuro), una cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero o i mitici anice stellato e cardamomo.
State bevendo un Brunello dell’82? (wow, siete fortunati). Sparate tutte le cartucce che avete: giù col tostato (caffè, tabacco), con l’animale (cuoio), esagerate a più non posso con la famiglia dei minerali: ardesia, benzina, ghiaia, grafite, pietra focaia, polvere da sparo, idrocarburi e – il mio preferito – il goudron. Cioè il catrame.
Mi direte: esistono veramente questi profumi? Sì, nel senso che la mineralità di un vino, gustativa e olfattiva, c’è sempre, dipende soprattutto dal territorio. No, nel senso che riconoscerli è difficilissimo. Sono profumi impercettibili, amari e – se li individui – penetranti. Non sempre garbati.
Accade anche per i profumi animali. I più grandi Pinot Nero della Borgogna annoverano nel loro bouquet il merde de poule, che mi farete la cortesia pudica di tradurre da soli.
Dopo tutta questa cerimonia, neanche hai più voglia di passare all’esame finale. Ma devi: è quello gusto-olfattivo. Finalmente si beve. Ma poco. Due piccoli sorsi, il primo per «avvinare» la bocca, senza gargarismi (c’è chi lo fa). Basta far passare appena un po’ d’aria tra le labbra e ossigenare il vino. Si porta il vino in ogni zona della bocca, del palato. La punta della lingua percepirà la dolcezza, gli angoli l’acidità e la sapidità, la parte finale l’amaro (o, meglio, l’amaricante).
La rugosità percepita ci darà indicazioni sul tannino. Se percepiremo una sensazione paragonabile – ai massimi livelli – a quella del burro sciolto in bocca avremo un alto grado di morbidezza. Una volta deglutito, percepiremo intensità, forza pseudocalorica in grado di riscaldarci (l’alcolicità) e per via retronasale gli aromi di bocca (non il retrogusto, che allude a un difetto del vino).
Si valutano prima le componenti morbide. La dolcezza: secco (0-10 grammi di zucchero per litro), abboccato (10-30 g/l), amabile (30-50 g/l), dolce (50-180 g/l), stucchevole (un difetto). Gli alcoli: leggero (va bene per un Moscato d’Asti, non va bene in un vino da pasto), poco caldo, abbastanza caldo, caldo, alcolico (va bene per un Porto, non per un vino sotto i quindici gradi). La morbidezza, cioè la rotondità o la sensazione «vellutata» data dalla glicerina: spigoloso (sempre un difetto), poco morbido, abbastanza morbido, pastoso (va bene solo per i grandissimi vini da dessert).
Quindi le componenti dure. Acidità: piatto (sempre un difetto), poco fresco, abbastanza fresco, fresco, acidulo (va bene solo per un Asprinio d’Aversa o tipologie molto particolari). Tannini: molle (sempre un difetto), poco tannico, abbastanza tannico, astringente (sempre un difetto). Sapidità o mineralità: scipito (sempre un difetto), poco sapido, abbastanza sapido, salato (va bene solo per vini ottenuti da zone particolarmente salmastre).
Abbiamo quasi finito. Manca la struttura, la «densità» del vino quando attraversa la bocca: magro (difetto), debole, di corpo, robusto, pesante (difetto). L’equilibrio, ovvero il rapporto tra componenti morbide e dure: poco equilibrato (difetto), abbastanza equilibrato, equilibrato. L’intensità e la qualità gusto-olfattiva (lessico e regole sono le stesse dei profumi).
Nel mezzo, elemento essenziale, la persistenza aromatica intensa, in altre parole la Pai. Quanto rimane il vino in bocca dopo averlo bevuto, quanto è persistente? Non c’è altro modo che contare, possibilmente a mente (è sempre un po’ ridicolo uno che beve vino e nel frattempo recita le tabelline). Corto (sotto i due secondi: state bevendo un vino orribile), poco persistente (due-quattro secondi), abbastanza persistente (quattro-sette secondi), persistente (sette-dieci secondi), molto persistente (superiore ai dieci secondi: state bevendo un vino della vita).
Poi viene un’autentica iattura. Lo stato evolutivo. Ovvero: la qualità di un vino in relazione alla sua evoluzione. Questo vino può migliorare se lo bevo tra un po’ oppure ho già aspettato troppo e il meglio lo ha già dato? Se è immaturo, l’ho bevuto troppo presto e ho commesso una sciocchezza. Se è vecchio, l’ho assaggiato troppo tardi e posso buttarlo. Nel mezzo, i tre valori che non rivelano alterazioni: giovane (ovvero «meglio aspettare, ma se lo bevo ora non è che svengo»), pronto (ovvero «va già bene così, eppure se aspetto credo che migliori ancora»), maturo («carpe diem», trinca adesso).
Il concetto di «pronto» e «maturo» mette in difficoltà perché, d’istinto, si fa fatica a definire «maturo» un Brachetto. Eppure, se è al suo meglio, tale va definito. Se lo valutassimo pronto, significherebbe che secondo noi tra un anno sarà ancora migliore, quando invece quel Brachetto tra un anno potrebbe essere da buttare. Lo stato evolutivo, come l’intensità e la complessità, va commisurato alla tipologia del vino in esame. È un fattore indipendente dall’età. Un Amarone del ’94 potrebbe essere pronto, un Lacrima di Morro d’Alba del ’94 sarà quasi sicuramente vecchio.
L’ultima valutazione è la più facile. L’armonia. Rappresenta la sintesi di tutte le caratteristiche del vino, valutate durante le tre fasi della degustazione. Qui la scelta è molto semplice: poco armonico (sempre un difetto), abbastanza armonico (il novantanove per cento dei vini), armonico (soltanto quelli che hanno preso il massimo dei voti nei tre passaggi della degustazione).
Come per gli esami visivo e olfattivo, anche nel gusto-olfattivo non è difficile bluffare, conoscendo l’identità del vino. La scelta, nella stragrande maggioranza dei casi, è tra «abbastanza» e «fresco» (o «sapido», o «morbido»). Il «poco», per i vini messi in commercio, non si usa quasi mai. Per un’altra regola, è difficile che un vino valutato abbastanza fresco sia anche abbastanza sapido: di solito uno dei due «abbastanza» salta. La reiterazione di «abbastanza», inoltre, dà l’idea di un degustatore incerto, che non rischia mai e si muove sempre a metà strada.
Più un vino sarà evoluto, più acquisterà in morbidezza e perderà in durezza. Definire «morbido» un Prosecco Extrabrut è una sciagura, così come lo è battezzare «abbastanza caldo» un Amarone.
L’equilibrio non va inteso come la sintesi perfetta di durezze e morbidezze. Può averlo un Bordolese, non un Tocai Friulano giovane, che sarà naturalmente – e giustamente – sbilanciato verso le durezze. Anche l’equilibrio va quindi soppesato in base alla tipologia.
Non tutti i passaggi della degustazione hanno la stessa importanza. Quando si sente parlare di voti, espressi in centesimi, esistono dei coefficienti correttivi variabili. Questi coefficienti ci dicono cosa, in un vino, è particolarmente importante (e, brutalizzando, porta su il voto).
L’aspetto visivo, l’intensità olfattiva, la struttura, l’equilibrio e l’intensità gusto-olfattiva sono, tra le caratteristiche, quelle che portano meno punti (coefficiente «×1»). Colore del vino, complessità olfattiva e Pai hanno molta importanza (coefficiente «×2»).
I valori maggiormente significativi riguardano i giudizi di sintesi: qualità olfattiva, qualità gusto-olfattiva e armonia (coefficiente «×3»).
L’esame visivo vale quindici punti, l’olfattivo trenta, il gusto-olfattivo quaranta, l’armonia quindici. Il voto massimo è cento.
Uno dei giudizi estemporanei più frequenti, quando si assaggia un vino, nasce dal rimanere colpiti o meno dal suo effetto astringente. Di solito si dice che un vino «allappa». Vuol dire che quel vino, secondo voi, è troppo tannico. Se si facesse un sondaggio su cento donne relativamente inesperte, la stragrande maggioranza definirebbe tutti i vini tannici.
C’è un motivo: il tannino è il più aggressivo dei componenti del vino. Non può non esserci nei rossi, perché è contenuto nelle bucce, che lo «cedono» durante la fermentazione mediante macerazione. Il tannino è presente anche nei vinaccioli e nei raspi, questi ultimi scartati prima della fermentazione perché troppo grezzi (le cantine sociali, e spesso anche i contadini, badano alla quantità e vinificano tutto: ecco perché i vini fatti in casa spesso sono imbevibili).
Il tannino, in giovane età, è troppo ruspante. Per questo si può bere una Barbera giovane, ricca in acidi e povera in tannini, e non un Barolo: i tannini, non ancora evoluti, sarebbero intollerabili. Con gli anni il tannino migliora, grazie all’affinamento e all’invecchiamento. Diventerà così tannino nobile, e a quel punto valutare un vino «tannico» non sarà un’offesa, ma anzi un’esaltazione di un vino che è invecchiato tanto da diventare pregiato anche in quelli che un tempo erano i suoi difetti.
Con questo non voglio negare ai novizi, o ai diffidenti-da-vino, il loro diritto a schifarsi di fronte alla eccessiva propensione allappante di qualsiasi vino. È però più probabile che abbiate bevuto un vino sbagliato. O che siate prevenuti voi.
Si sarà capito: il vino non è una scienza, la degustazione è un andare nobilmente a tentoni. E il sommelier è un fingitore.
Il modo migliore per degustare un vino è non recitare una parte. Goderselo, senza indispettirsi se non si saranno percepiti quegli aromi e quelle caratteristiche che avrete trovato scritte nelle guide o sentito in tv. Il vino è un piacere, non un compito. E non sopravvalutate la figura dell’esperto.
Ricordo bene il figurone che fece un mio compagno di corso, pochi giorni prima dell’esame finale. Chiamato a degustare un vino bianco, lo definì con enfasi «decisamente abbastanza tannico». Quarantacinque lezioni non erano state sufficienti a fargli capire che il vino bianco è bidimensionale, cioè privo di tannini. Ha due durezze, non tre. E il motivo per cui non ha tannini è molto semplice: la vinificazione tradizionale in bianco non contempla la macerazione, vale a dire il contatto del mosto con le bucce. Essendo i tannini solo nelle bucce e non nella polpa, è impossibile che in un vino bianco sia percepibile il tannino.
Certo, ci sono delle eccezioni, come la Ribolla Gialla di Josko Gravner, che applica ereticamente una macerazione di sette mesi in anfore interrate, fatte costruire apposta in Persia. E non è il solo: molti stanno provando la macerazione anche nei vini bianchi, o quantomeno una prolungata criomacerazione (la macerazione a freddo).
È vero, in questi casi anche i vini bianchi avranno tannini percettibili. Ma, credetemi, è scarsamente probabile che a un corso Ais vi facciano sentire un vino da cinquanta euro.
Aspettare non stanca (Barolo)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Dolcetto d’Alba Superiore 2004 – Flavio Roddolo
Musica di degustazione:
Keith Jarrett, Sun Bear Concerts
Un giorno, forse, crescerà anche in Afghanistan. Dalla punta estrema del Punjab, porta d’accesso della penisola indiana, fino alle terre di confine tra Afghanistan e Pakistan. Creste, valli, terreni bianchi. Una lunga falda incontaminata, un terroir su cui ancora nessun viticoltore ha potuto o voluto mettere mano.
Oggi, però, cresce solo qui. Nelle Langhe. Sabaudo, diffidente, difficile. Pienamente piemontese. Il nebbiolo vive qui e non altrove, se non nei confini limitrofi. Nella Valle d’Aosta occidentale lo chiameranno picoutener e darà il robusto Donnas. In Lombardia sarà chiavennasca e regalerà due Docg, Valtellina Superiore e Sfursat.
Nel Romanzo del vino Roberto Cipresso ha definito il terroir langarolo una «piastrella miracolosa», zolla che è marna grigio-bluastra, sabbia bruna alternata ad arenaria grigiorossastra. Condizioni uniche, che permettono al nebbiolo di declinare in Barolo.
È uno dei vitigni più difficili al mondo. Acini piccoli e fitti, ciclo molto lungo. Precoce nel germogliamento e nella fioritura, tardivo nella maturazione (e nella vendemmia: metà ottobre). Si espone a tutti i rischi climatici possibili. Se un’annata è sbagliata, come nel 2002, le aziende storiche rinunciano ai loro costosi cru.
Non si sa neanche perché è chiamato così. Verosimilmente il nome deriva da «nebbia», anche se il riferimento può essere tanto alla pruina, che copre gli acini al punto da farli quasi sembrare circondati da nebbia, quanto alla tardiva maturazione dell’uva, che obbliga i vignaioli a vendemmiare in tempi (di nebbia) autunnali. C’è anche chi dice che nebbiolo derivi da «nobile», spiegazione plausibile – senz’altro i vini da nebbiolo sono nobili – che però cozza contro l’essenza dei vini piemontesi. Che sono vini di lavoro, contadini, faticosi. Da cascina, non da castelli.
Nelle colline novaresi e vercellesi, dove il nebbiolo è chiamato spanna, il substrato è particolarmente acido. L’alta concentrazione di ferro rende la spanna ancor più spigolosa del nebbiolo langarolo. Per questo Ghemme e Gattinara, le sottovalutate Docg della zona, vengono «addomesticate» con piccoli tagli di vespolina e bonarda.
Ma è un’eccezione (o tale dovrebbe essere): il Piemonte è terra di monovitigni, non di assemblaggi. Il culto del monovitigno non è qui una moda, bensì un’esigenza. Una libertàobbligatoria. Nessuna regione ha la ricchezza ampelografica del Piemonte. I piemontesi possono permettersi di tutto. Hanno i mosaici bizantini, le colline ben esposte, il Tanaro che drena con discrezione. Ecco spiegata la messe prodigiosa di barbera, dolcetto, freisa, grignolino.
O di pelaverga, da cui viene il Verduno. Lo fanno nel cuore delle Langhe, nei comuni di Verduno, La Morra e Roddi. Lo trovi solo lì, la produzione è piccola e i langaroli lo nascondono al mondo. Un po’ perché non credono che possa piacere agli altri (nel Canavese accade anche con l’erbaluce, un vitigno bianco di rara potenzialità), un po’ perché ne sono gelosi. Il Verduno Pelaverga è il vino delle merende: per certi aspetti racconta il carattere dei contadini più del Barolo, troppo pregiato perché ogni giorno i contadini ci si possano specchiare.
Il Barolo, una volta, era dolce. Fu Camillo Benso conte di Cavour, nel castello di Grinzane, a vinificare per la prima volta un Nebbiolo più secco. Era il gusto dell’epoca. Lo aiutò l’enologo Louis Oudart, a conferma che i francesi non necessariamente sono i più bravi, ma quasi sempre sono arrivati prima.
Oudart, da buon francese, non credeva nel Nebbiolo in purezza, che anzi – a dirla tutta – riteneva peggiore del Gamay. Per lui il Nebbiolo si poteva vinificare secco solo se aiutato da quelle uve che oggi chiamiamo migliorative: cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot. La trilogia del Bordeaux. Oggi non sono pochi i produttori che, più o meno di nascosto, operano come avrebbe voluto Oudart.
Si chiama così, semplicemente Barolo, dalla seconda metà del secolo scorso. Lì, in quel paese al centro delle Langhe, si trovavano i possedimenti della contessa Giulia Colbert Falletti. Barolo non è il paese più bello delle Langhe, ma di sicuro è il più evocativo. Ospita anche il Museo del Barolo. Vale una visita, anche se le Langhe che parlano sono quelle che meno leggi nei dépliant turistici.
Il nebbiolo cresce fiero dei suoi difetti. A tavola non vuole essere semplice accompagnatore, non è educato come il merlot e neppure disposto al dialogo – o in qualche modo compromissorio – come il sangiovese. È forse, con il pinot nero, il vitigno che più restituisce nitidi gli aspetti del territorio. Non gli interessa essere di facile lettura. Berlo è una sfida: è lui che decide se piacerti o no. Berlo è subirlo. Esserne assoggettati.
I vini a base nebbiolo deludono neofiti e modaioli a partire dal colore. La buccia del nebbiolo è povera di malvidina, l’antociano che dà il colore rosso più intenso, ed è ricco di cianidina, che precipita nelle prime fasi della vinificazione. Per questo il Barolo ha un colore scarico, a prima vista – si direbbe – non invogliante.
È uno degli aspetti della «guerra del Barolo». La povertà di colore impone una macerazione lunga, affinché le bucce a contatto con il mosto cedano tutta la (poca) malvidina che hanno. Solo che c’è una controindicazione: più è lunga la macerazione, più tannino avrà il vino. Nei primi giorni avviene la massima estrazione di antociani, dopodiché il mosto perde in colore a tutto vantaggio di struttura, gusto e tannini. Trovare l’equilibrio tra i due aspetti è difficile. Più aspetterai a vendemmiare, più avrai zuccheri (quindi gradazione alcolica) e componenti fenoliche (quindi colore e tannino), ma il vino perderà in acidità e complessità aromatica.
In cantina accade lo stesso, ancor più con il Nebbiolo. Per dare più colore al vino devi prolungare la macerazione, ma più la prolunghi e più il tannino aumenterà; il tannino del Nebbiolo è ovviamente scontroso, più ce ne sarà e più il vino necessiterà di un lungo affinamento.
Sono tutti disposti ad aspettare? No.
Da una parte ci sono i tradizionalisti, con i loro credo: vinificazione con macerazione che arriva anche a venti giorni, responsabilità della macerazione lasciata alla microflora indigena, uso di strumenti rudimentali per muovere le vinacce, maturazione in botti grandi di almeno venti quintali, condotta del vigneto attenta alle rese ma senza una feroce riduzione della produttività. Il Barolo «tradizionale» nasce così, rigorosamente in purezza (al massimo si userà in minima parte la barbera per aiutare la componente acida), con un colore più scarico e un’obbligatorietà intrinseca: quella di dover invecchiare, di essere nato per farsi aspettare ed evolversi nel tempo. Anche i profumi saranno diversi, meno facilmente fruttati ma più aerei, più complessi, più indecifrabili (e non sempre gradevoli).
L’innovazione mira ad altro. Di sicuro ha portato qualche beneficio a un vino la cui storia è relativamente giovane e i produttori un po’ inclini a adagiarsi sugli allori. La novità più rilevante è stato l’acquedotto nelle Langhe, che ha contribuito a un innalzamento dell’igiene. Le terre sono drenanti e la mancanza d’acqua stimola la vite a impegnarsi di più (e quindi a produrre uva migliore), ma fino a pochi decenni fa in cantina mancava anche l’acqua per lavarsi le mani.
Per i modernisti il Nebbiolo necessita di una cosmesi, di una serie di scorciatoie che aiutino quelle che per alcuni sono caratteristiche e per altri difetti (colore scarico, tannini eccessivi, profumi non facili). Le scorciatoie sono varie. Rese molto basse per cercare concentrazioni potenti: meno uva produrrà la vite, più gli acini saranno piccoli e maggiore il contatto tra bucce e polpa; quindi più polifenoli, più colore, più tannini (e meno finezza). Vinificazioni agili con macerazioni brevi per condensare il più rapidamente possibile le sostanze coloranti e i tannini. Uso dei rotomaceratori, che danno intensità al movimento tra bucce e liquido. Infine, impiego massiccio delle barriques, più nuove possibili e quindi più aromatizzanti.
Il Barolo innovativo sarà più colorato, più denso, con profumi dolci di frutta e rovere. I tannini saranno meno spigolosi. Sarà un vino più attraente, ma anche più ruffiano. Sarà così «perfettino» da somigliare a qualsiasi altro vino di buon livello.
La «guerra del Barolo» ha portato in primo piano anche il dibattito sui concentratori e sulla osmosi inversa. Sono entrambe pratiche per «migliorare» il mosto (o il vino, se effettuate dopo la fermentazione). L’osmosi inversa funziona così: un contenitore è diviso in due parti da una membrana semipermeabile: da un lato c’è l’acqua, dall’altro il mosto (o il vino). Grazie all’applicazione di una particolare pressione dalla parte del mosto, molecole d’acqua in esso contenute passano attraverso la membrana semipermeabile dalla parte dell’acqua. Il mosto e il vino, alla fine, risulteranno più concentrati.
In qualche modo analogo è il funzionamento dei concentratori con evaporatori a freddo sotto vuoto spinto, facili da usare, benedetti dal mercato americano. Il mosto viene privato della parte solida e inviato in un piccolo serbatoio all’interno del quale si crea una depressione spinta, con conseguente evaporazione di acqua pura. I concentratori a caldo sottraggono acqua per evaporazione, quelli a freddo per congelamento. Si usano per ottenere mosti concentrati, ma anche sui vini, per aumentare la gradazione alcolica di un vino debole e per elaborare tipologie particolari come il Marsala.
La speranza dei fautori del Barolo «nuovo», detti Barolo Boys, è quella di produrre vini «pronti subito», che non chiedano di essere attesi per anni (o decenni). Poco importa se l’innalzamento della temperatura nella fase di fermentazione (di solito si lavora a ventiquattro gradi per i vini da bersi giovani e a trenta per quelli da invecchiamento) spazzolerà i profumi, ottenendo così un vino che nascerà con un bouquet stereotipato.
La stessa barrique è un’arma a doppio taglio. Non è detto che un vino che ha fatto la maturazione in botte piccola sia pronto subito, anzi, la longevità del più famoso dei Barbaresco (Gaja) dice il contrario. La barrique funziona se la materia prima è di livello assoluto e il rovere non proviene da zone improbabili; se la stagionatura del legno è di trentasei mesi; se la tostatura è stata adeguata e non invasiva; se si è usata una barrique di secondo o terzo passaggio; e se il tempo di maturazione in cui il vino vi ha soggiornato non è stato inferiore a un anno.
La «guerra del Barolo» non è guerra di tecnologie, bensì scontro di identità.
I baluardi esistono ancora. Piemontesi che hanno lasciato un’eredità pesante, come Bartolo Mascarello, noto anche per aver commercializzato – nel 1996 – un Barolo politicizzato che sull’etichetta recava la scritta «No Berlusconi no barrique», quasi a identificare la barrique con un mezzo fascista o comunque di destra: non appena i militanti di Forza Italia videro la bottiglia esposta nell’Enoteca Marchisio di Alba, ne chiesero seduta stante l’arresto (della bottiglia, non di Mascarello). Cosa che effettivamente avvenne, tra l’ironia degli astanti.
I Barolo di Bartolo Mascarello, oggi scomparso (l’azienda è gestita dalla figlia Maria Teresa), possiedono una meravigliosa indolenza, stupendamente pigri nel loro ciclo vitale.
C’è poi Giuseppe Rinaldi, altro storico produttore, che odia le parole «fruttato» e «pronto», perché «vorrei che il mio vino non fosse pronto mai».
Ed è questo il Barolo: un vino che non è mai pronto, che ti invita a riflettere. A pensare. Ad aspettarlo.
Il vino è come la musica. Esistono vini radiofonici e vini da concept album. Vini da hit estivi, vini Pausini, e vini da meditazione, da suite, vini Glenn Gould. Il Nebbiolo non può essere un hit estivo. Il Barolo non può ballare il merengue. Il Nebbiolo è suono e succo da meditazione, pianoforte che in classifica non entrerà mai. Nel cuore, sì.
Certo, cambia anche la Langa. L’estate è sempre più calda, più calore significa più alcol nel vino e profumi fruttati surmaturi (cioè ultramaturi). Ma non è solo questo. La Langa sta commettendo un errore: la monocoltura. Le hanno chiesto vino, lei ha intensificato i vigneti. Nulla di male, se parallelamente non si fosse abbandonato tutto il patrimonio tipico di quella terra. Meleti, noccioleti, boschi.
Monocoltura, de facto, è monocultura.
Il nebbiolo non ama stare solo. Più gli chiederanno di crescere, di moltiplicarsi, più sentirà la mancanza delle altre specie. Un giorno, forse, non gli basteranno più questi pendii collinari perfettamente esposti, questi centocinquanta-quattrocento metri d’altezza, questo terreno magro composto prevalentemente di marne calcaree.
È un vitigno sufficientemente pazzo da aver deciso di nascere perfino in versione bianca, lo hanno chiamato arneis perché era appunto un «arnese», una cosa strana: e perfino in quella veste ha dato vita a un bianco a denominazione di origine controllata e garantita, il Roero Arneis.
Più forte delle malattie, anzi in grado di sfruttare la malattia per ricrearsi. Esistono tre cloni di nebbiolo: lampia, michet, rosé. Il terzo dà vini particolarmente scarichi e non si usa quasi più (ma c’è chi lo rimpiange, perché in grado di dare preziose sfumature odorose). Quello più usato, perché più sicuro (si fa per dire), è il lampia. Il michet dà basse rese ma qualità altissima. È il biotipo più stravagante: nato da un’infezione virale non risanata, di fatto è un lampia malato, solo che la malattia l’ha reso qualitativamente migliore.
La Docg del 1981 è servita per limitare il territorio in cui era consentito produrre Barolo, ma è stata fatta in un momento in cui certi vigneti, altamente vocati, non erano lavorati da nessun produttore: per questo sono rimasti fuori dal disciplinare, a vantaggio di zone lavorate ma meno nobili.
Per la produzione di Barbaresco è vietata l’esposizione a nord, ma è un divieto aggirabile esponendo i vigneti a est: in questo modo si avranno viti legalmente autorizzate a dare Barbaresco, ma con un’esposizione che certo non permetterà al nebbiolo di sviluppare il suo potenziale. Molto meglio sarebbe obbligare tutti i vigneti ad avere almeno una parte esposta a sud, l’orientamento migliore per tutte le vigne del Nord Italia (c’è meno sole, quindi l’esposizione, per aiutare fotosintesi clorofilliana e tasso zuccherino, deve essere massima: a sud).
Una volta identificata la zona di competenza del Barolo, si è assistito alla razzia dei vigneti, all’impianto di vitigni su ogni fazzoletto di Langa, anche dove i nonni non avrebbero piantato nemmeno un nocciolo. Si è abbattuto tutto, si è snaturato il paesaggio, si sono viste ruspe distruggere colline e «rimontarle» per avere un’esposizione a sud.
I vitigni si sono espansi mostruosamente, per pura avidità. La monocoltura ha vinto, la natura ha perso.
I paradisi non possono sopravvivere all’uomo.
Dici nebbiolo e pensi a Barolo o Barbaresco. Entrambi nascono nella Langa e qui è tutto migliore. Il Roero, rinomata Docg a base nebbiolo, nasce invece a sinistra del Tanaro e questo significa due cose: che il vino sarà meno incline all’invecchiamento e che i langaroli «di destra» lo guarderanno storto, con aria di superiorità.
Accade anche tra Alba e Santo Stefano Belbo: la prima è luogo di «fenogliani», nati in qualche modo postumi, e mai facili. La seconda è patria di «pavesiani», riconosciuti dalla critica e maggiormente istituzionalizzati, ma pure loro alle prese con un mito anzitempo evaporato.
È una lotta post mortem, crepuscolare. Città assediate e lune senza falò.
C’è anche il Nebbiolo d’Alba, ma è una denominazione a scalare. Brutalizzando, si dice che lo facciano con gli scarti del Barolo, ma non è così. La Doc Nebbiolo d’Alba produce vini nobili, fatti di solito da vigneti meno famosi e, più spesso, con uva prodotta in vigne più giovani e quindi in grado di dare meno complessità e struttura (ma non è detto: proprio perché il disciplinare ha tagliato fuori vigneti vocati, alcuni Nebbiolo saranno più stupefacenti di blasonati Barolo).
Il Barolo si produce in tredici comuni, in piena Langa. Gli ettari coltivati, complessivamente, sono 1250, con una resa di circa sette milioni e seicentomila bottiglie l’anno (il dato è del 1998). Il comune di La Morra, da solo, supera il 30% della produzione.
La composizione del terreno varia da zona a zona. Il terreno elveziano (Serralunga d’Alba, Monforte d’Alba, Castiglione Falletto) darà vini più robusti, ricchi in tannino, molto longevi: è il caso del Vigna Rionda, cru di Serralunga. Il terreno tortoriano, quello di La Morra, darà vini più ricchi in alcol e profumi, eleganti e vellutati, con maturazione più veloce e meno longevità. Il comune di Barolo sta a metà strada, sia geograficamente sia per le caratteristiche del terreno.
Il Barbaresco (la terra di Gaja) è un Barolo meno famoso ma con fama meritata di sublime eleganza: una sorta di felpata, e fatale, femminilità. Più fragile, quindi ancora più soggetto allo stravolgimento della concentrazione.
Sul trimestrale «Porthos» ho trovato una massima espressa da un produttore langarolo – anonimo – che vinifica Barolo e Barbaresco, quindi imparziale. La trovo straordinaria. «Il Barbaresco è il vino delle migliori serate della tua vita, non ti tradirà mai; ma per l’ultima notte della tua esistenza, ci vuole un Barolo.»
Ho conosciuto Flavio Roddolo in uno dei miei molti viaggi verso le Langhe. Credo capiti anche a voi di rinunciare, deliberatamente, alla razionalità. Di dire, anzitutto a se stessi: ecco, di questo momento mi piace tutto. A me accade di rado (o forse no, ma quel «di rado» fa molto scrittore esistenziale).
Le Langhe mi piacciono tutte, come il Portogallo, l’antipasto della Tana degli Orsi di Pratovecchio e il rovescio di Richard Gasquet (dubito che tra le cose ci sia un legame, ma può anche essere).
Non ignoro che le Langhe vadano forse attraversate ascoltando musica, quantomeno, piemontese. Che so, Gian Maria Testa, Paolo Conte. A me viene meglio con Keith Jarrett: fa strano, lo ammetto, guidare e guardare i vigneti mentre ti arriva quella cascata di note da Colonia o Vienna o Tokyo, ma nutro la convinzione – ben poco spiegabile – che se ogni paesaggio ha una sinfonia, e ogni vino un suono, quello delle Langhe siano i meditati di Keith Jarrett.
Non tanto gli assoli barocchi e allucinati, i rantoli al microfono e quello stato ostentato di trance. Penso piuttosto a Keith Jarrett quando, dopo la grandine, rifiata e indugia anche mezz’ora sulla stessa nota. E lui a quel punto – ne sono certo – non si ricorda neanche più che davanti ha un pubblico, e che forse quel pubblico si sta annoiando e vorrebbe un minimo di variazione, ma è allora che Keith se ne disinteressa e prosegue nel meditato. Non per maleducazione: perché lui, in quel momento, ha raggiunto una stasi totale, in cui tutto è fermo. È quiete. Il qui diventa altrove.
Uno dei miei altrove sono le Langhe. Dipende dal partigiano Johnny, dal Milton fenogliano che si fa resistente non per la patria ma per Fulvia. Dipende dal paesaggio, dal vino. Dal castello di Sinio. Dal Caffè Calissano di Alba. Dalla vista di Mombarcaro. Dai poster di Renato Pozzetto, esibiti come un buffo trofeo a Briaglia da Marsupino. Dalla carne cruda battuta al coltello di Maurizio a Cravanzana, dall’oasi nel deserto che è ’l Bunet a Bergolo. Dalla panna cotta del Boccondivino a Bra. Dai Dolcetto, tutti. Dalle Barbera, quasi tutte. Dal Verduno, che è giusto bere solo lì.
Dipende da questo. E da Flavio Roddolo. È lui che mi ha raccontato tutto ciò che ho scritto finora (oddio, quasi tutto) e se non l’ho messo tra virgolette è perché lui parla poco e poco vuole apparire.
Tra gli amanti del vino è conosciuto. Non un mito, ma un personaggio. Di nicchia, per intenditori, come un film di David Lynch o un disco dei Wilco. Così, nel dicembre 2000, «Porthos» ha recensito il suo Barolo del 1996: «Esemplare, propedeutico, non solo per chi voglia godere del Barolo, ma anche per chi vuole imparare a produrlo. Roddolo non è un vignaiolo da copertina. Il suo Bricco Appiani, che si trova sulla strada che da Monforte va a Roddino, esalta le annate come la ’96 in cui l’altitudine ha permesso alle uve una maturazione senza strappi e con un pieno rispetto dei profumi».
Non lo vedrete mai in televisione, spesso diserterà il Vinitaly. I premi, tanti, ha cominciato a ritirarli da poco. Prima glieli spedivano. «Non è che non andassi per snobismo. È che avevo altro da fare, preferivo guardare le mie vigne o, se c’era neve, andare a sciare. E poi, i premi, spesso li dà gente che di vino non sa nulla.» Tipo? «Paolo Massobrio. Adesso lo stimo, prima no. Sembrava parlare di cose di cui non sapeva molto. Non abbastanza, quantomeno, per dare premi. Litigava con Veronelli, scriveva senza conoscere la terra. Ora la conosce. E allora, a ritirare i suoi premi, ci vado. Mi sembra un gesto educato.»
Per arrivare da lui devi conoscere la strada, conoscerla bene. Nessuna insegna te ne indicherà la presenza. Niente lusso, niente pubblicità, piuttosto un’aspirazione all’assenza. Un guscio esistenziale.
Il suo eremitaggio alcolico ha sede in una frazione, Bricco Appiani, che oggi è il nome del suo vino più pregiato. Un’eresia: cabernet sauvignon in purezza. Eresia perché questa è terra di nebbiolo e perché lui non è uomo da mode. «E infatti non è una moda. Quando ho piantato i filari di cabernet, l’ho fatto per sfidarmi. Sentivo che potevano venire bene. Li ho visti crescere, ci ho provato.»
Il Bricco Appiani 2003 entrerà nella Doc Langhe Rosso. Prima era un vino da tavola. Nero, carnoso, caldissimo. Quattordici gradi e mezzo. «Anche se poi la gradazione è sempre relativa. Abbiamo un margine di mezzo grado in più o in meno, e non ne conosco nessuno che in bottiglia approssimi per eccesso.»
Di lui dicono che è burbero. Nelle Langhe lo conoscono, e riveriscono, tutti. Ma senza smancerie, ché qui non è il caso.
Rappresenta il viticoltore di una volta, l’uomo che conosce la terra e la rispetta, come la rispettavano i padri e i padri dei padri. «Faccio quello che facevano mio padre e mio zio. Ricordo quando, da bambino, vedevo piantare le vigne. Molte sono ancora vive, hanno più di cinquant’anni.» Una cifra invidiabile per viti, purtroppo, non a piede franco ma con portainnesto americano. «Il portainnesto ci ha permesso di ovviare alla fillossera, ma è un po’ come se a un uomo avessero cambiato i piedi: certo, si può sopravvivere, ma stare bene è un’altra cosa.»
Prima della fillossera le viti del nebbiolo potevano vivere fino a cento anni, ora hanno il rigetto dopo i trenta, come gran parte delle viti post-fillossera. Meno anni ha la vite, meno ricco e complesso sarà il suo frutto.
Quando sono andato da lui, non sapevo cosa aspettarmi. Se un orco o un misantropo. Nessuna delle due. Un uomo dalla comunicazione essenziale, piuttosto. Se c’è qualcosa da dire, la dice. Se non c’è niente da dire, sta zitto. Per motivi – immagino – empatici, è una tipologia con cui lego molto. Ancor più se l’altro ha più anni di me.
Siamo stati insieme quattro ore, dalle 11 alle 15. Ci siamo dimenticati di pranzare. C’era anche mia moglie, Linda, bevitrice di talento che del Bricco Appiani ha subito percepito la matrice maliarda e femminile.
Quando vai in una cantina, più è griffata e meno ti fanno bere. Di Montevertine, affermata azienda di Radda in Chianti, si può solo parlare bene, ma al momento della degustazione ho ricevuto non più di due piccoli sorsi di Pergole Torte e Pian del Ciampolo, spillati direttamente dalle vasche in cemento vetrificato e versati in un bicchiere che ho dovuto dividere con un amico. Non un trattamento regale.
Roddolo, quella volta, ha aperto tutto quello che aveva, dal Dolcetto 2005, gioiosamente beverino, a un Barolo 2000 che ancora chiedeva di essere atteso. Sul vecchio tavolo di legno, alla fine, c’erano più di dieci bottiglie aperte. Il vino bevuto era stato accompagnato spartanamente. Niente abbinamenti calcolati, niente regole, solo qualche grissino e un’adorabile incapacità di essere fintamente cordiale.
Il regno di Roddolo non è un regno: è una casa. La cantina è piccola come la produzione, ventimila bottiglie l’anno. Ci sono anche le barriques. «Le ho sempre usate, è un falso problema. I vini che sanno di vaniglia non vengono così per colpa della barrique, ma di chi la usa. Basta usare quelle giuste, quelle tostate bene, quelle non nuove e col legno buono.»
Capelli bianchi, barba bianca, fisico «a scomparsa». Voce pacata, misurata come le parole. La casa è a quattrocento metri, appena usciti da Monforte d’Alba. O, meglio, poco prima di entrare. Preferisco arrivarci da Roddino, un piccolo avamposto noto per una trattoria, Da Gemma, che punta prima sulla quantità e poi sulla qualità, finendo con lo svettare su entrambi i fronti. Me ne ha parlato una volta Gigi Garanzini, che vive pure lui a Monforte d’Alba, ultimamente alle prese con un vino – Eresia – di cui conservo gelosamente qualche esemplare per le occasioni importanti.
Bricco Appiani va presa proprio da Roddino, quasi a tradimento. Una provinciale piccola, tortuosa, che taglia vitigni infiniti. Keith Jarrett batte incessante la sua nota eterna, il tempo è immobile. Tu vai avanti, guidi o ti lasci guidare (nel senso letterale che mia moglie è più brava di me, il volante è suo). Poi, quando devi, giri a sinistra, poco prima di entrare a Monforte d’Alba. E sbagli, perché non c’è scritto nulla. Insisto, insistete: prima o poi Roddolo si lascerà trovare.
Andare da lui è un po’ come varcare il bar sotto il mare di Stefano Benni. Sapete, quei luoghi fuori dal tempo in cui si può parlare e soprattutto ascoltare. Dovevamo incontrare un orco lunatico, ma le leggende per forza di cose tutto rispettano fuorché la verità. Roddolo è solo timido, molto timido, e come tale aspetta a lungo prima di svelarsi.
Il vino somiglia spesso a chi lo fa (e viceversa). Se Roddolo fosse un vino, sarebbe Nebbiolo. Sfuggente, imperscrutabile, scorbutico. Strepitoso, se lo sai leggere.
Quando ci ha fatto vedere le sue vigne, ricordo che a un certo punto le ha indicate e ha detto: «Ecco, quello è dolcetto». Fine. Per tre minuti. Un altro winemaker – parola che, immagino, lo farebbe inorridire – ti avrebbe magnificato le sue terre. Ti avrebbe cullato con parole da volantino pubblicitario. Lui, no: silenzio. Perché non c’era più niente da dire, perché parlava la terra. Se eri in grado di ascoltarla, bene. Altrimenti, arrivederci.
Una volta seduto, una volta aperte le bottiglie e preparati i bicchieri, Roddolo non ha mai smesso di parlare. Gli ho detto che amo il Piemonte perché è una regione senza paracadute, niente tagli, solo o quasi monovitigni. «Penso anch’io che sia quello, veramente, il vino. Lo puoi migliorare, ma senza trucchi.» E per trucchi intende anche i vitigni migliorativi.
Flavio Roddolo, l’uomo-nebbiolo, l’iconografia del viticoltore langarolo, deve il suo talento all’essere libero. Sta in quel dorato mezzo che non è né moda né nicchia. Guardandolo mi ha ricordato Gianni Mura, e non perché Gianni ha un debole per i suoi vini. Entrambi solitari, poco ciarlieri, difficili, diffidenti delle tecnologie ma ancor più del passatismo sterile.
Un uomo che fa quel Dolcetto d’Alba Superiore 2004, uno dei vini più personali che abbia mai sentito, è uomo che ha ben chiaro il proprio orizzonte. Che non accetta etichette.
Non nomino il Dolcetto a caso: vino nato fruttato e «leggero», da tutti i giorni, con una naturale morbidezza che ne gestisce i tannini un po’ irruenti, negli ultimi anni – grazie soprattutto ad alcuni produttori di Dogliani come Beppe Caviola – è stato oggetto di un ripensamento qualitativo, volto a renderlo un «rosso importante», quasi alla stregua di Barolo, Barbaresco e Roero. È una buona cosa, perché il Dolcetto ha potenzialità uniche. È una cattiva cosa, da un lato perché si rischia di falsarne la natura, dall’altro perché forse la cucina piemontese non ha bisogno di un altro rosso importante (e una Freisa e un Grignolino non hanno la stessa classe misurata del Dolcetto).
Accanto a questa riscoperta, al tempo stesso, i produttori senza storia né tradizione espiantano brutalmente vigneti di dolcetto, per piantarci il più redditizio nebbiolo: il dubbio che, forse, c’era un motivo se fino ad allora nessuno aveva mai piantato lì nebbiolo, non gli viene.
Roddolo è fedele alla terra e al carattere dei vitigni piemontesi. Il dolcetto non lo tradirà mai. Guai a espiantarlo, guai a snaturarlo. Valorizzarlo, casomai. Senza cedere al tentativo della cosmesi globalizzante.
Lo potresti definire biodinamico. Non lo è: appartenere a un movimento lo renderebbe, ai suoi occhi contadini, pretenzioso. È solo uno che, senza aver mandato giù a memoria le teorie di Rudolf Steiner, rispetta i meccanismi della terra. «Per anni non ho prodotto alcuni tipi di vino. Le vigne si ammalavano sempre, il raccolto andava perso. Potevo curarle con i trattamenti, con la chimica, ma io sapevo che prima o poi avrebbero sviluppato da sole gli anticorpi. E così è successo.»
Non fa uso di lieviti selezionati, solo indigeni. «L’uva ha già i suoi lieviti, non capisco perché debba usarne altri.» Forse perché è più facile. «Sì, ma nessuno ti ordina di fare vino. Se non sei capace, puoi sempre cambiare lavoro.»
Non usa prodotti di sintesi né enzimi, la chimica è estranea al suo mondo, limita al massimo i trattamenti fitosanitari. Niente sofisticazioni, i concentratori lo fanno ridere. «Se vuoi un vino pronto subito, vinifica la freisa. Non il nebbiolo.»
È riuscito a fare un Barolo ispirato anche nel 2002, annata che in ginocchio ne ha messi tanti. «Ci ho pensato molto, se farlo o no. Sapevo che, mettendo quell’anno nell’etichetta, mi sarei esposto a tutti i rischi del mondo. I compratori non lo volevano neanche sentir nominare. Poi lo hanno assaggiato e si sono stupiti. Io no: sapevo che era buono. Bastava solo capire che, in quel caso, avrei dovuto scartare molta più uva.»
Lavora da solo, lo aiuta giusto un polacco. «Gli ho insegnato a potare, per la cantina è ancora presto.» È l’enologo di se stesso.
Con la Barbera d’Alba 2003 si è guadagnato (per quel che valgono) i «cinque grappoli» di Duemilavini: «La grande sorpresa di quest’anno. Un vino che alla cieca mette tutti in scacco e d’accordo. Questo è il bello del vino». Un «bello» da quindici euro, molto meno se lo acquisti da lui. In pochi, a questi livelli, hanno la dignità di contenere i prezzi come lui.
I suoi sono vini senza maschera. Potenti, vigorosi, espliciti. Il profumo è quello che deve essere: terra bagnata, sottobosco, sentori di tartufo. Il bouquet – altra parola scolastica che non userebbe mai – ricorda i vini schietti, «come una volta», senza maquillage e con la carta d’identità chiara: io sono questo, o ti piaccio o non ti piaccio.
Mi piaci.
Fosse per lui, i vini li aspetterebbe in eterno. «Io posso anche darvi subito questa Barbera 2003, lo so, è quella che ha vinto il premio, ma secondo me non è pronta. Piuttosto aprite la 2001 e seguite il mio piccolo consiglio. Ogni bottiglia importante acquistata dovrebbe avere la fortuna di vivere almeno un anno in cantina. Dovrebbe avere il tempo di crescere, stabilizzarsi, ambientarsi. È una questione di rispetto.»
Argomentava come avrebbe fatto Bartolo Mascarello e ancora fa Giuseppe Rinaldi. «Ogni vino ha la sua vita, la sua storia. È il frutto di anni, decenni, di lavoro, clima, fatica, radici. Qualcosa di unico, di prezioso. Non puoi aprirlo quando vuoi, perlomeno non dovresti. Mi piacciono i vini che crescono nel tempo, severi, che si lasciano studiare, in qualche modo sbilanciati, che chiedono di essere capiti e di venirgli incontro. Il Barolo non deve essere facile, e pazienza se quelli tradizionali al momento del voto delle guide saranno meno pronti dei Barolo innovatori. Non m’importa, il mio Barolo deve avere il tempo di vivere e cambiare, di invecchiare. Ogni bottiglia chiede di essere riconosciuta, rispettata. Il vino non lo si dovrebbe bere e basta: lo si dovrebbe capire.»
Devo avere indossato la faccia di chi è troppo colpito, deve averla indossata anche Linda. Deve aver temuto, specchiandosi in noi, di essere stato troppo filosofo. Di essersi sovrapposto a un altro. Troppo schivo per concederselo. E allora, per una volta, ha aggiustato il suo pensiero, lo ha mediato, con l’eccesso di zelo di chi taglia un Barolo già perfetto con le uve più giovani. «O almeno questo è quello che mi piace pensare, non so poi se ho ragione», ha aggiunto.
Il resto non lo ricordo, e non per il molto vino, bevuto peraltro a digiuno. Mi piace pensare che in quel preciso istante Roddolo è rimasto nel suo bar sotto il mare, col suo poster di Paolo Conte (Elegia Live, se amate i dettagli). E noi ne siamo usciti, dallo stesso varco spazio-temporale da cui eravamo entrati.
Ha scritto Beppe Fenoglio in quella saga bella e tremenda che è Il partigiano Johnny: «Col bicchiere in mano, Johnny andò a un’alta e stretta finestra intagliata nel nudo muro: vide le ombre delle mura della città nei danzanti vapori bassi e le sue torri e campanili sfumavano nel cielo cinereo».
Ebbene, a quel punto non restava che prendere un altro bicchiere in mano e inseguire il cinereo del cielo di Langa, come se Johnny fosse ancora vivo.
Come se bastasse la didascalica reiterazione di un gesto per comprendere un mondo.
Con i vini ci mangio quel che mi pare
L’uomo mangia. Solo l’uomo intelligente
sa mangiare.
JEAN ANTHELME BRILLAT-SAVARIN
Non ci faccio un figurone, e un po’ me ne vorranno gli amici sommelier, ma dopo quindici lezioni intere dedicate all’abbinamento tra cibo e vino, sono giunto alla (inaccettabile) conclusione che in materia hanno ragione gli inglesi.
Gran popolo, gli inglesi. Così estranei al reale da credere ancora che il calcio vero è quello che fanno loro. Che il tennis vero è il loro. Che basti inventare una cosa, uno sport o una bibita, per essere saecula saeculorum i migliori.
Per quanto riguarda il vino, poveretti, non hanno nessuna invenzione da rivendicare. E non è colpa loro. Nel Duecento la nazione che produceva più vino al mondo era la Scozia, quindi Gran Bretagna. Quindi loro. Poi, come i dinosauri, sono stati fregati dal freddo. Il pianeta Terra ha cominciato a raffreddarsi attorno al 1300, raggiungendo l’apice con la gelata del 1709, quando la temperatura scese una notte sotto i quaranta gradi sotto zero e la geografia vitivinicola venne radicalmente stravolta.
Da allora la Gran Bretagna è rimasta dinosauro. La vite ha le sue esigenze, nell’emisfero nord cresce solo tra la trentesima e la cinquantesima latitudine e nell’emisfero sud tra la trentesima e la quarantacinquesima. L’Inghilterra, cioè il dinosauro, non rientra da secoli nelle preferenze della Vitis vinifera.
Resasi conto che la colpa non era sua ma del clima, della geografia, di una contraria contingenza astrale, l’Inghilterra ha scelto la disinvolta ignoranza. Gli inglesi amano il vino, ma non gli importa di intendersene. Hanno abbastanza soldi da ordinare all’estero le bottiglie più costose e sono sufficientemente immorali da rifilarti le peggiori etichette cilene, quelle imbibite nella vaniglia come si inzuppa un Oro Saiwa nel tè, a prezzi da ergastolo.
Nella loro sofisticata ignoranza, col loro retaggio di amanti dei vini fortificati e bevitori di ciò che è più «in», gli inglesi hanno applicato il più schietto laissez-faire alle dotte teorie italo-francesi sull’abbinamento.
I miei idoli, in materia, sono Elizabeth e Cyril Ray, soloni dell’enogastronomia inglese (quindi del nulla), che hanno dedicato un intero libro alla teorica unione tra vino e cibo. Si intitola Wine with food ed è un volumetto incantevole. Pagine e pagine intere per sostenere la più semplice delle teorie: quando si mangia, ognuno deve fare quello che gli pare.
Al diavolo le regole, le concordanze, le contrapposizioni. Chi se ne frega di micro e macrosensazioni: l’unica strada è fare come a ciascuno pare. La birra con la bistecca, il vino a colazione, lo Champagne a fine pasto.
Scrivono i Ray nel loro libro-manifesto: «Ciascuno di noi deve lasciarsi guidare dal proprio gusto personale e dalle proprie preferenze … Ogni scelta è qualcosa di puramente soggettivo … Nessuno di noi ha ragione o torto, perché non esistono regole».
Parole leggendarie, di una ingenuità – ammantata di sapienza british – così palese da avere quasi ragione.
Mi direte: così è troppo facile. Così sono capaci tutti. L’anarchia, del resto, l’aveva già scoperta Bakunin molto prima dei gourmet di Sua Maestà.
Vero. Eppure, mi sia concesso, preferisco il qualunquismo inglese al pressappochismo dei francesi, che teoricamente a qualcosa di intelligente in materia potevano arrivare, vista la conoscenza enologica, ma che non sono andati oltre un decalogo dell’abbinamento pieno di castronerie.
Per quanto raffinato sia il gusto transalpino, anche loro in tema di abbinamento hanno sempre pensato che la regola migliore fosse la dittatura della soggettività. Però non potevano ammetterlo così, esplicitamente, come gli inglesi. In quanto francesi, dovevano celare il nulla dietro una pur minima teorizzazione. Ecco allora il decalogo del vino, che per Raymond Dumay – nel libro Guide du vin – apre le porte al rischio e all’avventura, poiché «l’accordo tra cibo e vino segna il passaggio dall’artigianato all’arte, dal mestiere all’ispirazione» (la grandeur c’è sempre, anche nella terminologia).
Peccato solo che il decalogo sia miseramente opinabile. La terza regola delle Sacre Tavole francesi dice, per esempio, che i vini bianchi devono essere serviti prima di quelli rossi. Vero, e non c’era bisogno che fossero loro a ricordarcelo, ma non è sempre vero. Un Sauternes, quando lo bevo? Durante l’antipasto? Lo spumante dolce per festeggiare, quando lo apro? La mattina? Un qualsiasi passito, a parte l’abbinamento con gli erborinati o il foie gras, dovrei berlo con le lasagne?
I francesi, che pure gli spumanti e i muffati li avrebbero inventati, nel Decalogo si sono sistematicamente dimenticati di queste tipologie di vini. «I vini freschi devono essere serviti prima di quelli a temperatura ambiente»: bene, okay, ma se io a fine pasto ho uno spumante cosa faccio, lo bevo a venti gradi perché poco prima ho sorseggiato un Amarone?
E ancora: «I vini devono essere serviti secondo una gradazione alcolica crescente». Pure qui, il trionfo dell’ovvio. Lo sapevamo, c’eravamo arrivati anche noi. E però, nuovamente, qualcuno ha detto ai «legislatori» che uno spumante ha molti meno gradi di un qualsiasi vino secco e fermo?
Se è vero che tutto è opinabile, anzitutto le regole, va detto che qui forse i francesi hanno esagerato.
L’unico paese che ha coerentemente perseguito un approccio scientifico riguardo al tema dell’abbinamento cibo/ vino è stato, senza dubbio, l’Italia. Uno dei primi è stato il grande Luigi Veronelli, che nel volume Il vino giusto cominciava a mettere a fuoco il tema, sottolineando, per esempio, come l’abbinamento fosse negato in presenza di cibi a forte tendenza acida data da aceto e limone.
Antonio Piccinardi prima e Pietro Mercadini poi hanno elaborato delle schede grafiche di abbinamento, in cui di fatto si mettono in relazione le caratteristiche di cibo e vino.
Un’elaborazione di queste schede è alla base del progetto didattico dell’Ais. Si tratta di un grosso cerchio, attraversato da più raggi, nel quale si appuntano le sensazioni gusto-olfattive. La scala va da uno a dieci: una sensazione (per esempio la tendenza acida di un cibo, oppure la morbidezza di un vino) potrà essere impercettibile (zerodue), poco percettibile (due-quattro), abbastanza percettibile (quattro-sei), percettibile (sei-otto), molto percettibile (otto-dieci). Ne nascono due poligoni, uno rappresenta il profilo del cibo, l’altro quello del vino. Se i due poligoni si somigliano e si «compensano», teoricamente l’abbinamento sarà armonico.
Facile, no? No. Se la degustazione di un vino è soggettiva, quella di un abbinamento è iperpersonale. La scheda, per questo, mette i numeri pari da uno a dieci come valutazioni-limbo e di confine (un sei vale tanto come sensazione «abbastanza percettibile più» che come «percettibile meno»). Il desiderio è quello di uniformare il giudizio, di limitare la soggettività del gusto, ma è impossibile.
Un po’ dipende dall’incapacità di capire qualche regola base. Quando si parla di aromaticità di un cibo, si intende la forza dei suoi profumi, l’impatto che danno al naso: in pratica è ciò che per il vino, durante la degustazione, abbiamo chiamato intensità. Il grado massimo di aromaticità non è dato dalla presenza di erbe aromatiche, ma dal profumo insito nel cibo. Un’aromaticità nove o dieci è un tartufo bianco, non certo una salsa di pomodoro con un po’ di basilico sopra.
Lo stesso vale per il concetto di untuosità del cibo. Si tratta di una sensazione tattile che si percepisce come un senso di scivolosità in bocca. È data solo dalla presenza di oli o di grassi fusi, comunque allo stato liquido. Quindi, per dire, il burro crudo dà grassezza, mentre il burro fuso dà untuosità. Un formaggio fresco avrà grassezza percettibile (sei-otto), mentre non avrà untuosità. Eppure, anche all’esame finale da sommelier, molti danno sette in untuosità a un pecorino fresco che, per sua fortuna, non era stato immerso nell’olio di oliva, e quindi non poteva avere untuosità.
Un altro errore frequente è confondere dolcezza e tendenza dolce. La dolcezza di un cibo è data solo dalla presenza di zucchero, mentre la tendenza dolce è data quasi sempre dalla presenza di amido. Per questo la zucca ha tendenza dolce percettibile. E invece, puntualmente, all’esame c’è qualcuno che dà otto in dolcezza ai piselli o al riso, come se stesse degustando una meringa.
Detto questo, ognuno di noi darà valutazioni (e quindi voti) diversi, a volte anche radicalmente, al cibo che sta assaggiando. Un prosciutto crudo di San Daniele, meno salato di un prosciutto casentinese, per me potrà avere sapidità quattro e per voi sette. Una pomarola piccante per me avrà una speziatura cinque (perché io amo il peperoncino) e per voi nove (perché lo detestate).
Vorreste delle coordinate infallibili? Non ci sono. Posso dirvi solo quali sono le sensazioni saporifere, tattili e gusto-olfattive del cibo. La sapidità, che dipende solo dalla presenza di sale (salumi, aringa, baccalà). La tendenza amarognola (non amara: sarebbe un difetto del cibo), per esempio gli spinaci crudi o il carciofo, la cicoria o il radicchio di Treviso, oppure i piatti alla griglia o alla piastra: in un certo senso, si tratta del «tannino» del cibo. La tendenza acida, che diventa insopportabile – e non abbinabile a nessun vino – in abbondanza di aceto o limone, ma che è piacevole nel cibo simbolo di questa tendenza: il pomodoro. La dolcezza e la tendenza dolce, di cui si è già detto.
L’untuosità l’abbiamo incontrata: sarà una sensazione percettibile in una bruschetta e più ancora in un’anguilla alla brace. La sua forza non dipende dalla quantità di grassi liquidi presenti, ma dalla loro percettibilità: l’olio in una bruschetta non è mascherabile, la sua untuosità è palese, mentre la stessa quantità di olio in un’insalata di mare sarà mascherata dalla struttura muscolare di pesci e crostacei.
La grassezza, che riporta al concetto di morbidezza del vino, è percepita con un senso di pastosità in bocca e patinosità sulla lingua. Esempi di grassezze molto percettibili: tuorlo d’uovo, lardo, cotechino, zampone (la sensazione «appiccicaticcia» dipende dalla cottura che trasforma il collagene del tessuto connettivo in gelatina).
La speziatura dipenderà esclusivamente dalla presenza di spezie (se esposte a cottura prolungata, le spezie daranno anche tendenza amarognola): penso allo speck, a una tagliata al pepe verde, a uno strüdel alla cannella. L’aromaticità, che tutti i cibi hanno, sarà impercettibile nel pane, percettibile in una trenetta al pesto e molto percettibile nel tartufo.
Quindi, domanda puntuale d’esame: la succulenza (che in un cibo c’è sempre mentre, per dire, dolcezza o sapidità possono benissimo non esserci). Si tratta di una sensazione tattile legata alla presenza di liquidi in bocca. Sarà succulenza «intrinseca» se i liquidi costituiscono parte integrante di quel cibo (una mozzarella di bufala, un filetto al sangue); sarà «per addizione» di liquidi se derivata dalla cottura (brasato al Barolo); la chiameremo «indotta» se quel cibo provoca abbondante salivazione dopo la deglutizione, per compensare la mancanza di liquidi nel cibo (per esempio, i formaggi molto stagionati come il bitto o il parmigiano reggiano).
L’organigramma del cibo è ultimato da altri due marker, identici a quelli del vino: struttura e persistenza gusto-olfattiva, anche chiamata Pgo.
Domanda: che me ne faccio di tutte queste nozioni? Niente, volendo. Si può benissimo sopravvivere lo stesso. Oppure si può provare a capire su cosa poggi la teoria più credibile riguardo all’abbinamento cibo/vino. È stata codificata dall’Ais, è a essa che tutti fanno riferimento (sì, anche Vissani) ed è basata sul doppio binario della concordanza e della contrapposizione.
In linea di massima, quasi tutto è per contrapposizione: a una sensazione del cibo devo opporre una sensazione del vino, e viceversa. Anche in questo caso, come per la degustazione del vino, si tratta di equilibrare durezze e morbidezze.
Le durezze del vino sono acidità, sapidità, tannicità. Le durezze del cibo sono, analogamente, tendenza acida, tendenza amarognola, sapidità.
Le morbidezze del vino sono dolcezza, alcolicità e morbidezza. Quelle del cibo sono dolcezza, tendenza dolce, grassezza.
Alla grassezza del cibo contrapporrò l’acidità del vino, per una regola molto semplice: un cibo grasso secca il palato, un vino fresco fa salivare e «sgrassa» la bocca. Alla tendenza dolce contrapporrò la sapidità del vino e, meglio ancora, l’effervescenza di vini frizzanti o spumanti.
Vale lo stesso quando avrò spiccate dosi di durezza nel cibo, a cui contrapporrò la morbidezza del vino. Ecco uno dei motivi, anche aritmetici, per cui spesso il cibo «duro» vince come persistenza sul vino: perché a tre caratteristiche di un alimento – tendenza acida, tendenza amarognola, sapidità – potrò contrapporre soltanto la morbidezza del vino, cioè la sua ricchezza in glicerina. E per quanto vellutato sia, un vino fa sempre fatica a coprire, per esempio, la sapidità di un’aringa, la tendenza amarognola di una bistecca «troppo» alla brace o la tendenza acida di una macedonia di agrumi.
Anche le due sensazioni tattili, succulenza e untuosità, vanno in contrapposizione. La prima si bilancia con l’alcolicità, la seconda con la tannicità. Ecco perché, con i vini bianchi, non posso (potrei) mangiare cibi untuosi: perché non riuscirei ad arginare l’untuosità (a meno che il bianco in questione non sia la solita Ribolla Gialla di Gravner).
È spesso un discorso di salivazione: la succulenza crea liquidità in bocca, e così l’untuosità. Ecco che allora avrò bisogno di un vino che mi «asciughi», che argini la salivazione. L’effetto che fa il tannino, astringente, e l’alcol, disidratante. Tannicità e alcolicità si aiutano a vicenda nel loro effetto, fanno squadra e gruppo, ma non sono interscambiabili (o così mi hanno sempre insegnato).
Come tutte le regole, anche quella della contrapposizione presuppone delle deroghe. Si chiamano concordanze, e sono quattro.
A cibo aromatico si fa corrispondere vino aromatico (che possiederà cioè una spiccata intensità gusto-olfattiva; non significa che dovrò sempre ricorrere a Moscato o Gewürztraminer). Anche la persistenza gusto-olfattiva dovrà andare di pari passo con la persistenza aromatica intensa del vino, altrimenti uno dei due elementi durerà di più e seppellirà l’altro.
Terzo: con un cibo dolce si beve vino dolce. Per questo, chiunque vi proponga uno Champagne secco a fine pasto, anche solo per brindare, compie forse un bel gesto ma certo uno scempio enogastronomico.
La quarta concordanza riguarda la struttura. Più un cibo è strutturato, più abbisognerà di vini strutturati. La struttura di un cibo è un altro concetto un po’ aleatorio, non riguarda tanto la quantità di ingredienti ma la complessità qualitativa (un parmigiano reggiano di trentasei mesi è più strutturato di una lasagna al forno, per quanto abbia molti meno ingredienti).
Si deve a questa regola di concordanza il fatto che, di solito, il pesce vuole il bianco. È un dogma fastidioso e un po’ ignorante, che amo smentire appena posso, ma è un fatto che con una sogliola faccio fatica a berci un Barolo (non è un gran problema: basta evitare di mangiare la sogliola).
Questa teorizzazione è senz’altro affascinante. E contiene molte verità. La storia della salivazione, del pulire la bocca o del disidratarla deliberatamente col vino, a seconda che si stia mangiando un cibo «duro» o «morbido», è un trucchetto che aiuta molto. Mi ha fatto capire, a titolo personale, che pasteggiare a bollicine è un piccolo nirvana. Nessun vino esalterà una frittura, o una fonduta di pesce, come un Metodo Classico Extrabrut. E sarebbe anche l’ora di finirla con la storia che gli affettati andrebbero mangiati soltanto con il rosso. È una scemenza, o, per meglio dire, un’abitudine radicata e appagante ma perfettibile: se volete corrompermi mi basta un Pelaverga, e convengo con voi che il salume è di per sé sapido e per questo abbisogna di un vino morbido (e di solito un rosso lo è più di un bianco), ma uno Chablis val bene un San Daniele. Così come una Doc Trento è il trionfo del lardo di Colonnata.
L’abbinamento per concordanza e contrapposizione dà coordinate utilissime. E spiega tante cose. Per esempio, perché il cioccolato mette così in difficoltà, al punto che tuttora i suoi esegeti si dividono in tre specie: quelli che lo mangiano con il vino dolce, quelli che gli preferiscono i superalcolici (rum, whisky) e quelli analcolici che rivendicano i poteri purificanti dell’acqua.
Il cioccolato, in effetti, è un gran casino. Ha dolcezza, quindi dovrei berci un vino dolce. Ma è anche grasso, quindi dovrei avere sapidità e acidità (e qui già un vino dolce lo mando in crisi). Non solo: il cioccolato, soprattutto se fondente, ha una spiccata tendenza amarognola, quindi dovrei avere un vino molto morbido (sì, qui il vino dolce andrebbe bene). La succulenza (indotta) della cioccolata è straripante, quindi cercherò un vino molto alcolico (l’acqua servirebbe solo a far ruggine). Non basta, perché il cioccolato avrà grande struttura, e aromaticità, e persistenza (e speziatura se è una Modicana alla vaniglia). Quindi vorrò un vino molto intenso, molto persistente e robusto.
Esiste un vino con simili spalle nobili e larghe? Il dibattito è aperto. Per me la strada migliore resta un Sauternes, uno Sciacchetrà, un Banyuls. Oppure il rum. Oppure un whisky, magari non delle «mie» Islay, perché il loro benedetto torbato mi falserebbe l’eleganza (spero reale) del cioccolato. C’è anche chi, con il cioccolato, beve vino rosso secco: è uno dei pochi momenti in cui non capisco chi beve rosso (con cosa lo «medio» quel tannino, con una untuosità che il cioccolato fortunatamente non ha?).
La contrapposizione svela anche molte usanze teoricamente di classe. Dice: lo Champagne va con l’ostrica. Sì, ma chi lo dice? I francesi. Appunto: si è visto come, in materia, abbiano idee non chiarissime. Lo Champagne spicca in acidità, effervescenza. Quindi va bene con cibi grassi e a tendenza dolce. È grassa un’ostrica? No. Ha tendenza dolce? No. Ha senso berci lo Champagne? No. A meno che non vi offrano entrambi: in quel caso, valutati i costi dell’uno e dell’altra, il sacrificio si può fare.
Ho accennato alla regola, che tutti voi avrete sentito, del vino bianco obbligatorio col pesce. Una frittura – più o meno di paranza – bevuta col rosso è un’assurdità. Si beve bianco per associazione cromatica (non è una battuta, di solito a carni bianche si associa il bianco e a carni rosse il rosso) e perché la struttura del pesce non è mai elevata. Inutile spenderci un Taurasi, ma, per dire, un Groppello della Doc Riviera del Garda andrebbe benissimo, come pure un Pongelli di Bucci.
E poi dipende dalla temperatura del cibo. Il cacciucco livornese, che peraltro ha sugo «rosso», si mangia ad alte temperature. Il bianco va bevuto freddo. In questo caso si creerebbe una sorta di shock termico. Per questo, col cacciucco i livornesi bevono il rosso. E anche con un baccalà mantecato alla vicentina, mi sia concesso, tra un Sauvignon e un Riesling prendo un Bardolino (se ben fatto).
Con alcuni cibi dovrete rinunciare per forza a bere vino, perché troppo astringenti o acidi, troppo freddi, troppo speziati o compromessi dallo chef: limone, aceto, carciofi crudi, sottaceti e pollo sepolto dal curry, sorbetti e gelati (le papille a quelle temperature siberiane non sentirebbero neanche un tir), tartufi al caffè e agrumi. In altri casi sarete indotti a bere il vino che «state mangiando»: di fronte a un brasato al Barolo, per esempio, la perfezione sarebbe berci un Barolo: magari, lo stesso usato per la preparazione del piatto.
Va tutto bene, è tutto bello. Le scoperte in fatto di degustazione ci vengono e verranno utili. Eppure da qualche parte resiste in me la tentazione di dare ragione allo schietto snobismo approssimativo dei britannici.
In soccorso di chi, in fondo a qualsiasi percorso, resta convinto delle proprie convinzioni, esistono altre strade. Altri abbinamenti: per tradizione, per valorizzazione, per stagionalità e per psicologia. Sono modi aulici di riconoscere il vecchio detto de gustibus non disputandum est, oppure sono un rispetto e un ricordo della nostra storia.
L’abbinamento per tradizione se ne frega delle regole, lui segue solo la strada dei nostri nonni. E i nostri nonni nulla lasciavano al caso. Se in Emilia, da che mondo è mondo, hanno abbinato il Lambrusco al cotechino, è perché intuitivamente sapevano che l’appiccicaticcio dell’uno si lasciava perfettamente rinfrescare dalla liquidità dell’altro. Ogni regione non beve e non cucina a caso: se siete lontani da casa lasciatevi tentare dal sapere del gusto indigeno. Falerio con olive all’ascolana, Aglianico del Vulture con pignata, Vernaccia di Oristano con spaghetti e bottarga. Cadrete sempre in piedi (come birilli, anche se brilli).
L’abbinamento per valorizzazione va bene quando avete comprato un vino strepitoso, e volete che durante la cena tutti lo notino. Cucinate piatti semplici, allora, perché non corrano il rischio di coprire in bellezza e persistenza il vostro protetto. Questo tipo di abbinamento è alla base di qualsiasi cena-degustazione pubblica. Se poteste entrare nella cucina di quel ristorante, vedreste lo chef in perenne lotta col sommelier, il ristoratore in battaglia con il vinificatore: i primi vorrebbero la valorizzazione del cibo, i secondi del vino. Tutti la glorificazione del loro ego.
L’abbinamento per stagionalità è quello per il quale d’inverno vi vanno i rossi e d’estate i bianchi (o i bistrattati rosati, i lebbrosi delle carte dei vini). Il rosso è solitamente troppo carico, strutturato, pesante – oserei profferire «opulento», se avessi una telecamera del Tg5 a inquadrarmi – e d’estate non va giù. Troppo caldo, troppa afa: un vino bianco fresco vi salverà.
C’è poi l’abbinamento per psicologia. È quello che preferisco. È quello che riconosce potere supremo all’ospite. È quello che accade quando hai cucinato tutto il giorno, e nel frattempo hai inevitabilmente pensato: «Qui ci starebbe bene un bianco con intensità percettibile ma profumi non blockbuster, che so, un Sauvignon bello erbaceo con adeguata spalla acida, buona alcolicità – così mi bilancia la succulenza – e una morbidezza encomiabile per un bianco che forse neppure ha fatto la malolattica» (lo so, è un pensiero troppo lungo e «prosaico», a dirla tutta anche «sborone», ma solo chi non ha mai cucinato ignora quanti compiacimenti ballino nella testa di un novizio che si finge chef).
Così, mentre sei lì che cucini, e il piatto cresce, ed è quasi finito, e tu hai raggiunto la certezza che – davvero – il vino perfetto per quel cibo è solo il Sauvignon erbaceo (ma sì, sborone per sborone, a dirla tutta pensavo a un Pouilly-Fumé della Loira, quello che nelle guide dicono avere sentori di pietra focaia), mentre sei lì che inevitabilmente godi, arrivano gli amici. Agli amici non hai detto cosa avresti cucinato, perché ami le sorprese. E gli amici, tutti, hanno comprato il loro vino.
Uno, l’esterofilo, sarà rimasto folgorato sulla via del Pinotage sudafricano. L’altro, il casalingo, avrà rubato il vino del contadino dagli scaffali del suocero (nooooo!). Il terzo, che ama la Toscana, ti avrà portato per la sesta volta in un mese il solito Chianti del supermercato. Il quarto, che la Toscana la odia, vi sparerà a sorpresa un Nero d’Avola che potrebbe essere lisergico come pure indigeribile.
La babele dei vini, la Waterloo delle regole. Si chiama abbinamento per psicologia, anche se io preferisco definirlo trionfo del caso. Dell’istinto. Della convivialità.
Serate che vanno giù come il migliore dei vini, così perfette da abbinarsi da sole.
A ognuno il suo Champagne
(Metodo Classico)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Pas Dosé – Azienda Agricola Haderburg
Musica di degustazione:
Ry Cooder, Get Rhythm
Quarantanovesimo parallelo, ultima frontiera a nord per la coltivazione della vite. Su una roccia di gesso, la craie, con uno spessore fino a trecento metri, un sottile strato di terra coltivabile fatto di sabbia, marna, argilla e breccia di gesso (curiosamente, è un terroir simile alla zona del Taburno). Qui nasce lo Champagne, il vino-vetrina per antonomasia.
Più di trecento anni di storia e un prezzo regolato da un accordo firmato nel 1919 (assai lenti ad aggiornare gli statuti, i francesi). Ogni anno i rappresentanti dei vignerons e quelli delle grandi case produttrici di spumante si accordano per fissare la cifra a cui i primi venderanno le uve ai secondi. Non il prezzo medio: quello massimo, che verrà pagato solo per le uve più pregiate.
I segreti dello Champagne sono molti. Tre in particolare: il rigido clima continentale dell’Île de France, il sottosuolo gessoso che riverbera il calore del sole e dosa alle radici l’acqua delle piogge (anche l’albariza di Jerez de la Frontera, terra dello sherry, funziona così), e la qualità dei vitigni da cui nasce lo Champagne.
Lo chardonnay, coltivato a sud di Epernay, darà eleganza e finezza. Il pinot nero, sulla montagna di Reims, conferirà potenza e corpo. E il pinot meunier, il pinot mugnaio – che cresce solo qui ed è chiamato così perché gli acini, in tempo di vendemmia, hanno una coltre biancastra di pruina che li fa sembrare spruzzati di farina – darà anzitutto freschezza. È un blend di vitigni – pardon, cuvée – insuperabile, che ha fatto scuola e vanta innumerevoli imitazioni.
Leggenda vuole che l’inventore dello Champagne sia stato Dom Pierre Pérignon, un monaco benedettino che fu cantiniere e amministratore dell’abbazia di Hautvillers per trentasette anni, dal 1678 al 1715. Al tempo si beveva un vin gris, secco e dalla tendenza acidula, fatto con vitigni neri vinificati in bianco. La fermentazione non poteva essere controllata. D’inverno la fermentazione si arrestava, in primavera (con l’aumento della temperatura) ricominciava. E quei vini diventavano leggermente frizzanti.
C’era anche un altro motivo, per quelle bollicine involontarie. In quanto acidulo, i vignerons aggiungevano zucchero al vino, provocando involontariamente una seconda fermentazione in bottiglia. Quasi sempre la pressione atmosferica le faceva esplodere. Le poche che sopravvivevano avevano un sapore piacevole.
Pérignon ebbe una doppia fortuna. L’Inghilterra cominciò a produrre bottiglie con vetro più spesso, in grado di resistere all’elevata pressione dei vini spumantizzati, e contemporaneamente alcuni pellegrini tornarono dalla Spagna con un nuovo modo di tappare le bottiglie: il sughero.
Pérignon sfruttò le due scoperte e non si fermo lì. Riuscì a produrre un vino completamente bianco da uve nere (prima veniva gris, rosato). E fu il primo a tagliare i vini di diverse annate, provenienze e varietà, inventando così la cuvée.
In maniera empirica, codificò il metodo champenois, caratterizzato proprio dalla seconda fermentazione in bottiglia. È questo che lo distingue dall’altro modo di fare spumanti, il metodo Martinotti-Charmat, che invece opera la seconda fermentazione in autoclave: una tecnica più rapida, che dà prodotti diversi, molto usata in Italia (ad esempio per il Prosecco).
Il doppio nome del secondo metodo è un’ulteriore dimostrazione di come i francesi in fatto di vino siano sempre stati più scaltri di noi: fu l’italiano Federico Martinotti a inventare la spumantizzazione in un grande recipiente a tenuta, simile a un’autoclave, ma fu l’ingegnere francese Eugène Charmat – nel 1910 – a brevettare l’attrezzatura e a prendersi i meriti (tanto che oggi il metodo è chiamato soltanto Charmat).
Gianni Legnani è l’autore dei capitoli sulla spumantistica italiana per i volumi didattici dell’Ais. «Per spumante naturale s’intende il prodotto ottenuto dalla prima o dalla seconda fermentazione alcolica di uve fresche, di mosto, di vino da tavola o di vino di qualità prodotto in regioni determinate, caratterizzato alla stappatura del recipiente da uno sviluppo di anidride carbonica, proveniente esclusivamente dalla fermentazione, e che, conservato alla temperatura di venti gradi in recipienti chiusi, presenta una sovrapressione non inferiore alle tre atmosfere e una gradazione alcolica minima effettiva al consumo di 9,5 gradi.»
I metodi maggiormente usati sono il champenois e il Martinotti-Charmat. «In entrambi i casi il punto di partenza è un vino-base. I vitigni ideali per ottenerlo sono chardonnay, pinot nero e pinot bianco. I grappoli non devono subire schiacciamenti durante la vendemmia e la pressatura deve essere soffice e progressiva, in maniera tale che venga estratta solo la parte migliore del succo.»
Il mosto è stabilizzato con una piccola dose di anidride solforosa e poi travasato in un secondo tino, «dove è stato preparato il cosiddetto pied de cuve, una base di lieviti che innescherà la prima fermentazione alcolica e trasformerà il mosto-base in vino-base. Questa prima fermentazione, lenta e regolare, si svolge a diciotto gradi in contenitori di acciaio e si conclude dopo una trentina di giorni, lasciando che l’anidride carbonica si liberi nell’atmosfera».
In questo momento il vino è fermo e conservato a bassa temperatura, per evitare processi ossidativi. «Nei mesi di marzo e aprile dell’anno successivo alla vendemmia, si arriva al momento dell’assemblaggio. Si lavora cioè per creare il vino-base più idoneo per la spumantizzazione. Al vino-base si uniscono parti di vino-base di annate precedenti, piccole partite lasciate riposare in botti di legno per sviluppare determinati profumi. La cuvée definitiva non è che l’unione sapiente di vini in proporzioni variabili di anno in anno. L’enologo, con la sua équipe di tecnici, degusta tutti i vini disponibili dell’ultima vendemmia e ne valuta la qualità in funzione delle caratteristiche del prodotto che desidera ottenere, adeguato allo stile della propria azienda. Questo è un altro aspetto importante: per quanto ogni annata dia caratteri differenti, le aziende più rinomate cercano di mantenere il loro stile e di riproporlo nel tempo.»
Una volta creata la cuvée, comincia l’effettivo processo di spumantizzazione, ovvero la formazione di bollicine durante la seconda fermentazione. «Dopo l’assemblaggio, sia per lo champenois che per lo Charmat, si aggiunge il cosiddetto liqueur de tirage, composto sostanzialmente da zucchero di canna, lieviti, un po’ di vino e sostanze minerali destinate a nutrire i lieviti e a facilitare la compattazione delle fecce in rifermentazione.»
Da quattro grammi di zucchero si forma un’atmosfera di sovrappressione; gli spumanti di qualità hanno sei atmosfere, quindi il liqueur de tirage conterrà ventiquattro grammi di zucchero. La sovrapressione minima a venti gradi deve essere di tre atmosfere per uno spumante tal quale e 3,5 per gli spumanti di qualità. Il Crémant, appellativo che in Italia non si può più usare per una guerra di copyright tra Francia e Spagna, ha una pressione atmosferica di 4,5, a fronte delle sei tipiche di Champagne e spumanti «classici». Un Crémant italiano è il Satèn Franciacorta.
«Dopo il liqueur de tirage, il vino è imbottigliato nelle bottiglie chiamate champagnotte. Il colore sarà verde scuro, quasi nero, per proteggere il vino dalla luce. Lo spessore del vetro permetterà di resistere alla sovrapressione. Le bottiglie vengono sigillate con un tappo a corona di acciaio inox, che assicura perfetta tenuta ed evita l’attacco della ruggine. Sotto il tappo viene inserita la bidule, dove si accumuleranno le fecce.»
È adesso, dentro le bottiglie (o, per lo Charmat, in autoclave), che grazie al liqueur de tirage avviene la presa di spuma. «Nell’arco di sei mesi i lieviti trasformano tutto lo zucchero disponibile, muoiono e vanno incontro ad autolisi, durante il quale restituiscono al vino (con gli interessi) tutto quello che gli avevano sottratto: sostanze, profumi, corpo.» Per questo l’affinamento sui lieviti è decisivo: è grazie all’autolisi, per esempio, che lo Champagne avrà sempre quel sentore di lieviti e di crosta di pane, ciò che per primo lo distingue dallo Charmat.
I produttori devono rispettare periodi minimi di affinamento sui lieviti di diciotto mesi per i non millesimati e ventiquattro per i millesimati, ma spesso si spingono fino a sette-otto anni. Lo Charmat ha disciplinari meno impegnativi: ottanta giorni sulle fecce (trenta se l’autoclave è dotata di agitatori), che diventano sei mesi (il cosiddetto Charmat lungo) per prodotti di qualità che avranno caratteristiche ibride.
Una parte romantica del metodo champenois è il remuage: le bottiglie vengono messe sulle pupitre (leggio, in francese) e scosse da mani esperte, affinché dalle bottiglie, portate in posizione capovolta, i residui dei lieviti si distacchino e si raccolgano nella bidule. Oggi il remuage non è più manuale ma meccanico: gli spagnoli, per il loro «Champagne spagnolo» (il Cava), hanno inventato le giropalette.
«L’eliminazione delle fecce consiste nella sboccatura à la glace o dégorgement. Il collo delle bottiglie è immerso in una soluzione satura di sali, a bassissima temperatura, per mezzo di un nastro trasportatore. La velocità di traslazione del nastro è calcolata in maniera tale che al termine del percorso (non più di un minuto) si sia formato un cilindretto di ghiaccio di due centimetri, che ingloba il vino e le fecce compattate nella bidule. La macchina asporta, a questo punto, il tappo a corona: la pressione interna espelle il ghiacciolo, lasciando il vino senza la minima particella in sospensione, limpido. Anche in questo caso, un tempo il procedimento era fatto a mano, dando vita alla difficilissima stappatura à la volée, pericolosa e dall’esito incerto. Oggi non si usa quasi più.»
Non è un obbligo legale, ma la retroetichetta delle bottiglie riporta spesso l’epoca della sboccatura: fateci caso. È un aspetto che certifica la freschezza del prodotto. Non confondete annata con sboccatura. Detto che l’annata negli spumanti non c’è, a meno che non si parli di millesimato (almeno l’85% delle uve deve provenire da un dato anno), la sboccatura è il momento in cui lo spumante è definitivamente imbottigliato e pronto per essere bevuto. A questo punto non sarà più in grado di invecchiare, va bevuto appena si può.
La prassi dell’aspettare ad aprire gli Champagne per occasioni importanti, facendolo marcire anni e anni in cantina, è un delitto. Uno spumante non è un Barolo, se aspettate troppo lo rovinerete (a meno che non sia una cuvée concepita per l’invecchiamento).
Il metodo champenois finisce qui? No, altrimenti tutti gli Champagne e gli spumanti così concepiti sarebbero simili. Manca un ultimo passaggio: l’aggiunta del dosaggio o, per meglio dire, del liqueur d’expédition.
«Al termine della fermentazione in bottiglia, lo spumante ha pochissimo zucchero, consumato dai lieviti. È qui che si aggiunge il dosaggio: un po’ di zucchero di canna, un po’ di vino invecchiato, magari qualche goccia di distillato, il tutto miscelato così come ha ritenuto giusto il produttore. Il liqueur d’expédition è il marchio di fabbrica, la firma finale di chi fa Champagne. È ciò che caratterizzerà il gusto.»
Spesso si sente dire dai neofiti: «Lo Champagne non mi piace perché puzza e ha un sapore strano». L’aspetto olfattivo sgradito sarà in realtà il sentore delle fecce e dei lieviti, il sapore strano dipenderà dalla miscela del dosaggio. In questi casi, non fermatevi: provate altri spumanti. Ognuno ha la sua identità.
Qualche volta lo spumante non ha dosaggio, è una cosa per uomini duri e nell’etichetta avrà scritto Pas Dosé, oppure Nature, Brut Sauvage, Dosage Zero. Il Pas Dosé, negli ultimi anni, ha goduto di una forte riscoperta, perché è lo spumante che sa «più» di spumante: scelta da intenditori, come il Pinot Nero per Giamatti. In base al residuo zuccherino, si parlerà – crescendo con la componente dolce – di Pas Dosé, Brut Nature, Extra Brut, Brut, Extra Dry, Dry, Demi-Sec (Abboccato) o Doux.
Ci sono altre diciture da decifrare sull’etichetta di uno Champagne. Il Blanc des Blancs è ottenuto esclusivamente da uve bianche, il Blanc des Noirs solo da uve nere (pinot nero e pinot meunier), il Rosé miscelando vino bianco e vino rosso (questa è una deroga alle norme dell’Unione Europea, che vietano il mescolamento ma che qui lo hanno concesso per una migliore e più accattivante colorazione). Cuvée Speciale è l’assemblaggio di vini di qualità eccezionale, mentre il rarissimo e costosissimo Monocru è preparato con le uve di un solo vigneto anziché con una cuvée.
Vin de cuvée sono gli Champagne più pregiati, fatti con la prima pressatura. La seconda pressatura si chiama première taille, la terza deuxième taille. Alcuni produttori non usano mai deuxième taille, ma ve ne sono altri che usano solo o soprattutto questa (ecco spiegati gli Champagne che costano poco: se un vino costa poco, quasi sempre c’è un motivo).
La tappatura finale, dopo l’aggiunta del liqueur d’expédition (o dosaggio), verrà effettuata con il tipico tappo a fungo. A volte si sente parlare di «stappatura con la sciabola». È un modo coreografico di aprire uno spumante. Basta lasciar scivolare una lama in coincidenza con il punto in cui le due parti di vetro della bottiglia sono saldate. Chi lo sa fare dice che è facilissimo. Chi non lo sa fare, la reputa una pratica sciamanica.
Io, per nulla sciamano nonostante la metodica lettura di Magico Vento, l’unica volta che ci ho provato ho rischiato l’asportazione delle falangi. Evitate.
Anche l’Italia ha il suo Champagne. Solo che non può chiamarlo così, ma Metodo Classico. Che è poi, pari pari, il metodo champenoise: per motivi di copyright, questa dicitura può essere usata solo in Francia.
E allora noi abbiamo il Metodo Classico.
Un vino tanto meritevole quanto sottovalutato. In Italia non abbiamo (ancora) la cultura per apprezzare le bollicine. Certo, negli ultimi anni stiamo assistendo a una ripresa, ma in pochi conoscono la differenza tra Metodo Classico e Metodo Martinotti.
L’America sta scoprendo i nostri Metodo Classico, che però restano nettamente minoritari come produzione. «Nel 2006 lo Champagne ha prodotto 310 milioni di bottiglie, un terzo delle quali destinate al mercato estero» racconta Legnani. «Il Cava spagnolo ha prodotto 250 milioni di bottiglie, il 40% delle quali è esportato. In Italia sono state prodotte, un anno fa, 18-20 milioni di bottiglie di Metodo Classico. Di queste, metà vengono da Berlucchi in Franciacorta e Ferrari della Doc Trento: 4 milioni e 700 mila del primo, 4 milioni e 500 mila del secondo. Poi ci sono 6 milioni di altre Franciacorta, come Ca’ del Bosco, due di Doc Trento e Alto Adige, una di Oltrepò Pavese e il resto arriva da Piemonte, Toscana e altre zone come Emilia Romagna e Basilicata. La produzione è troppo limitata per essere competitivi all’estero, a cui dedichiamo giusto il 5% del totale.
Circa 800 mila bottiglie, che nulla possono contro i cento milioni dello Champagne. Certo, negli ultimi anni siamo passati dal 5% al 7%, ma sono miglioramenti irrisori. L’unica produzione spumantistica italiana che ha mercato all’estero riguarda Asti Spumante, 60 milioni di bottiglie, e Prosecco, 40 milioni.»
C’è anche un altro problema. «Un buon Metodo Classico costa dieci-dodici euro. Se andassimo sul mercato estero con questo prodotto, ci scontreremmo con gli Champagne di fascia bassa, e un consumatore straniero tra i due sceglierebbe sempre lo Champagne. Se abbassassimo i prezzi, e con essi la qualità, ci scontreremmo con il Cava, che va sul mercato a quattro euro e in questo è imbattibile. Perderemmo sempre. Un fatto è certo: come rapporto qualità/ prezzo, un Franciacorta è migliore degli Champagne. Certo, uno Champagne da cento euro è insuperabile, ma tra un Franciacorta e uno Champagne da venti euro prendo il primo tutta la vita.»
I supermercati sono invasi da orridi spumanti artificiali, prodotti attraverso una saturazione del vino con anidride carbonica, mediante pompe che realizzano il vuoto e poi iniettano CO2. Saranno spumanti con bollicine grossolane e profumi inutili.
Da noi pasteggiare a bollicine è una follia. Non conosciamo le potenzialità dello spumante, che spesso confondiamo con i vini frizzanti, la cui sovrapressione è compresa tra 1 e 2,5 atmosfere (per i vini sotto l’atmosfera ma con bollicine si usa il termine pétillant). Siamo così diffidenti da relegare lo spumante al rito stanco del brindisi, spesso commettendo l’ulteriore «errore» di aprire uno Champagne secco a fine pasto, credendo di essere «in», quando invece i brut e i dry andrebbero sempre serviti come aperitivo o comunque durante il pasto, lasciando che con il dolce si beva – per concordanza – uno spumante dolce.
«Non esiste cibo che un vino con bollicine ben fatto non sia in grado di accompagnare ed esaltare. Purtroppo in Italia lo spumante è ancora un vino da fuori pasto: o prima, come aperitivo, o dopo, con i dolci. Vorremmo affrancare lo spumante dalla sua stagionalità natalizia o comunque festiva. Non si capisce perché siamo disposti a spendere cinquanta euro per un rosso e non per uno spumante.»
L’Italia ha Metodo Classico di pregio. Parlo soprattutto di loro, e non degli Charmat, perché in termini tecnici i primi saranno più pregiati. Per una serie di aspetti: lo splendido scintillio brillante, la maggiore nobiltà del perlage (le bollicine); un bouquet più complesso, che dalla «solita» crosta di pane offrirà un arcobaleno di profumi fruttati, floreali e di erbe aromatiche; e una maggiore propensione all’affinamento.
Le zone più vocate d’Italia sono Franciacorta, Oltrepò Pavese e Trentino-Alto Adige. Questi sono i polmoni delle bollicine italiane, che non a caso coincidono con i luoghi vocati per il pinot nero, un vitigno fondamentale per la spumantizzazione. Siamo stati costretti a copiare lo Champagne anche nella scelta dei vitigni, non solo nel metodo. Chardonnay per dare eleganza, pinot nero per la potenza e il corpo. In mancanza del pinot mugnaio, la finezza la chiediamo al pinot bianco.
L’Oltrepò Pavese è il polmone del pinot nero per eccellenza, un pinot nero adatto non alla vinificazione in purezza di rossi secchi ma ottimo per la spumantizzazione, in una terra peraltro incline anche solo per motivi di terroir (calcare, fossili) ai più svariati vini con bollicine, dalla Barbera pétillant al gioioso Sangue di Giuda.
La Doc Trento è interamente dedicata al Metodo Classico, resa celebre dal successo del Ferrari. Ho avuto la fortuna di assaggiare strepitosi Doc Alto Adige, forse i miei bollicinati italiani preferiti (penso al Pas Dosé di Haderburg, per dirne uno). Tra gli «isolati», segnalo il Metodo Classico Bellei, emiliano, in ascesa.
Alla fine ho però scelto la Docg Franciacorta. È stata la prima a nascere. In Italia per primi ci hanno creduto loro. E solo loro sono riusciti nell’identificazione tra tipologia di vino, territorio di origine e nome del prodotto.
Franciacorta è la terra che guarda il lago d’Iseo, in provincia di Brescia. Almeno una volta un Berlucchi lo abbiamo assaggiato tutti, ed è qui che mi hanno «diplomato» sommelier, con una cerimonia sobria e piacevole.
Legnani è consulente esterno anche di Berlucchi. Per decenni ha lavorato con Guido Berlucchi e Franco Ziliani, gli «inventori» del Metodo Classico italiano.
«Negli anni Cinquanta il vino fatto in Franciacorta era un bianco di scarso livello, che tendeva a intorbidirsi. Esisteva anche un rosso senza pregio, chiamato “bordò”. Berlucchi vinificava a Borgonato, in provincia di Brescia. Lo chiamava “Pinot del Castello”, anche se non era pinot. I vigneti erano piantati sui fianchi della piccola collina sulla quale sorge il castello di Borgonato, di sua proprietà. Il vino aveva un problema di stabilità una volta imbottigliato, per questo si rivolse a un enologo.» Il giovane Franco Ziliani, fresco di diploma in Enologia ad Alba.
«Ziliani si trovò di fronte a un terroir immacolato su cui poter sperimentare. Aveva il mito dello Champagne, amava la Francia e si impuntò sull’idea di fare un grandissimo spumante. All’inizio non ci credeva nessuno. Era il 1954 e sembrava un’idea folle. Mancavano i macchinari, le conoscenze, la cultura, i materiali. I primi tentativi furono un disastro.»
Il primo anno buono è il 1961. «Vennero elaborate tremila bottiglie di spumante, le prime che soddisfarono il gusto di Ziliani. Lo battezzò “Pinot di Franciacorta”, con un’intuizione vincente. Per la prima volta Franciacorta, il nome geografico della zona, appariva sull’etichetta di un vino.»
Un nome su cui si è ironizzato, sembra rimandare a una Francia minore. «La Francia non c’entra niente. Viene dal latino Francae Curtes, Corti Franche, gli antichi possedimenti religiosi esenti da imposta.» Di quell’annata 1961 esiste ancora una bottiglia, nelle gigantesche cantine di Berlucchi, sorta di catacombe al tempo stesso incantate e deliberatamente fatiscenti, come ricordo di ciò che è stato. «Oggi quella bottiglia sarebbe imbevibile, ma la teniamo come simbolo. Dai racconti dell’epoca, chi ebbe la fortuna di berla rimase molto stupito.»
In un certo senso la fortuna del Franciacorta è stata quella che oggi sfrutta il Nuovo Mondo del vino: non avere storia, non dover rispettare nessuna tradizione. Si poteva, del tutto liberamente, sperimentare. Senza doversi vergognare per aver tradito il vino dei nonni, che o non esisteva o era dimenticabile.
Le bottiglie aumentarono parallelamente alla richiesta, l’esempio di Berlucchi fu seguito da altri imprenditori. Ecco un’altra caratteristica della Franciacorta: la mentalità imprenditoriale, pienamente lombarda, più da industriali che da contadini.
Questo è un aspetto fondamentale: chi vinifica qui non lo fa per lavoro, ma per hobby. È una terra poco romantica, dove i proprietari non sono vignaioli, ma imprenditori facoltosi, che demandano ad altri la cura delle loro vigne. «Se qui fossimo stati contadini, non ci sarebbe stato nessun miracolo Franciacorta.»
È una terra pragmatica, poco incline ai voli pindarici. Se cercate la passione dell’agricoltore, il Franciacorta non vi piacerà mai. Non da un punto di vista ideologico.
Di questo vino, i detrattori dicono che è senza difetti, privo di fattori limitanti, che sarebbe anche un bene ma può pure voler dire vino robotizzato, sempre uguale. Senz’anima.
Può essere, ma trovatela da un’altra parte questa «irreprensibile progettualità», come l’ha chiamata «Porthos». Questa tecnologia milionaria che non ha pari in Italia, questa comunanza di ambizioni tra i produttori, questa voglia di emergere, questo liberismo competitivo.
Franciacorta sarà poco romantica, ma ha una chiarezza d’intenti e un potere economico che la rende quasi la California d’Italia. Anche per questo è stato possibile il «miracolo». «La Franciacorta ha diciottomila ettari, non raggiunge neanche Montalcino che ne ha ventiquattromila. Per questo, nel 1975, Berlucchi e Ziliani dovettero fare una scelta coraggiosa. Diversificare il prodotto. Da una parte, la Doc Franciacorta propriamente tale, che nel 1995 è diventata Docg. Dall’altra, le cuvée storiche e gli spumanti “liberi”, ma non certo di minore valore.»
È per questo che anche al supermercato troviamo Docg Franciacorta e, accanto, dei Berlucchi senza il simbolo della denominazione. «Non avevamo le uve sufficienti per fare tutto da soli. La Docg Franciacorta è fatta solo con uve della nostra zona, gli altri nostri spumanti usano anche il pinot nero dell’Oltrepò Pavese e del Trentino-Alto Adige.»
Permeabilità dei suoli, anfiteatri morenici, fiumi e laghi che immagazzinano e cedono calore. Anche questo è Franciacorta. «Non ci siamo mai preoccupati di proporre una sola tipologia di spumante. Non solo Brut ed Extra Brut, ma anche un Rosé per il quale – come i francesi – abbiamo la deroga per poter mescolare vini bianchi e vini rossi. Abbiamo il Millesimato, la Cuvée Speciale, la Riserva, da poco il Demi-Sec. E due azzardi.»
Il primo è stato il Pas Dosé, lo spumante senza dosaggio e zucchero aggiunto. Il secondo è il famoso Satèn, un Crémant chiamato così – con un tono tanto esotico quanto protetto da copyright – per rimandare al corpo satinato di uno spumante vinificato solo con uve bianche (quindi niente pinot nero) e con una sovrapressione meno aggressiva (4,5 atmosfere).
Sul Pas Dosé Legnani è un po’ smitizzante. «È un prodotto particolare, per palati educati, di nicchia. Lo zucchero residuo è di 0,3 grammi/litro. Poi esiste l’Extreme, o Brut Sauvage, che ha tre grammi/litro. Ne facciamo poco, come accade nella zona dello Champagne, e se loro non ci hanno mai puntato un motivo ci sarà.» Quale? «Le tre componenti su cui si basa un vino sono l’interazione tra zuccheri, alcol e acidità. Se hai un vino secco, ne restano due. In un Pas Dosé hai sì l’alcol, ma ancor più l’acidità e, in aggiunta, l’anidride carbonica che esalta le durezze. Nasce un prodotto per forza di cose sbilanciatissimo, per chi ama il gusto acido, che andrà bene con il pesce crudo ma che non avrà mai l’equilibrio di un Metodo Classico con un dosaggio di 8-10 grammi/litro di zucchero.»
I Metodo Classico biodinamici, manco a dirlo, sono spesso Pas Dosé. Non si ricorre né al liqueur de tirage, né a quello di expédition, affidando la fermentazione in bottiglia alla sola aggiunta di mosto (senza sciroppo o lieviti selezionati). Viene spesso effettuata una prolungata macerazione. Nessuna sboccatura, spesso, al punto che i Metodo Classico così fatti, prima di essere bevuti, andrebbero tenuti due settimane in piedi, per permettere che le fecce si depositino sul fondo. Ne conosco di validi, per esempio il «gravneriano» Puro di Movia, di un produttore sloveno che vinifica chardonnay, pinot nero e ribolla gialla (al posto del pinot bianco). Legnani non ha però torto, quando la definisce una produzione di nicchia.
La produzione di Satèn ha invece incontrato i favori del mercato, proprio per la minore invadenza dell’anidride carbonica. E il Rosé sta vivendo una sua piccola rivincita. Da noi è ancora considerato il vino fatto col mestolo, nel senso di vino mischiato, oppure un vino di scarto, ottenuto dal salasso dei vini rossi. Il miglior Metodo Classico Rosé, al contrario, è un ottimo ministro della tavola.
Una delle forze del Franciacorta è quella di copiare i francesi laddove essi meritano di essere copiati. Anche i macchinari sono gli stessi dello Champagne. «E non solo i macchinari. Ci siamo ispirati alla Francia anche nel totale rinnovo dei propri vigneti. Ora dalle vigne si ottengono circa cento quintali d’uva per ettaro, con un numero molto alto di ceppi di vite (da ottomila a diecimila per ettaro) rispetto ai duemilacinquecento del passato. Ogni pianta deve nutrire con il proprio apparato radicale solo quattrocinque grappoli d’uva, rispetto ai sedici-venti di una volta. Questo consente alla vite di portare a completa maturazione poco più di un chilogrammo d’uva, con le caratteristiche ideali per produrre un grande vino.»
Densità d’impianto, crescita qualitativa, obbligo dato alla vite di «impegnarsi» di più producendo di meno. Lo abbiamo visto anche per il Barolo: comporta effetti positivi e negativi. Qui provano a fermarsi ai primi.
La vendemmia è svolta rigorosamente a mano, in piccole cassette da diciotto chilogrammi, affinché i grappoli arrivino integri in cantina. Qui avverrà un’altra fase essenziale, quella della pressatura soffice. «Ovvero eliminiamo bucce e vinaccioli, stando bene attenti a spremere solo la polpa. Fate una prova empirica, prendete un acino e mangiatene solo la buccia. Vi sembrerà di gustare un filo d’erba. Eliminando le bucce, permettiamo che il mosto prima e il vino poi siano cristallini e non abbiano sgradevoli sentori erbacei. I vinaccioli, si sa, hanno tannini rustici, sgradevoli. E invece il Franciacorta deve essere sommamente elegante.» Non a caso il vitigno più usato è lo chardonnay, che è anche quello che cresce meglio in Franciacorta (uve come merlot o cabernet sauvignon vengono usate per la «ricaduta», la Doc Terre di Franciacorta).
Prima era un’enologia di intervento, ora di prevenzione (o così dovrebbe essere). «Anche noi abbiamo capito che prevenire è meglio che curare. Prima si abusava delle pratiche di cantina, non ci si curava della vendemmia e della pressatura. Adesso puntiamo tutto sulla qualità della materia prima, limitando al minimo l’intervento dell’uomo in fase di fermentazione e stabilizzazione.»
Una domanda d’esame tipica, per i sommelier e per i degustatori ufficiali, è quella dell’influenza dell’anidride carbonica nel gusto di un vino. «Aumenta le durezze di un vino. Ne esalta la freschezza, per questo ne aumenta il potere detergente e salivante. Nulla “sgrassa” il palato come lo spumante. Per questo è particolarmente indicato con le fritture, con i salumi, ma non solo.»
Quando Legnani racconta la storia di Berlucchi e Ziliani ai neodiplomati sommelier, protetto da un dedalo di sentieri sotterranei dove i punti cardinali sono le pupitres e il lavorio rumoroso dei giropalettes d’impronta spagnola, conclude il suo show con un effetto scenico. «Se apriamo uno spumante, restano comunque cinque atmosfere e mezzo nella bottiglia. Con il tappo se ne va solo un’atmosfera. Sul podio, in Formula 1, i piloti sbattono le magnum per fare uscire la schiuma, ma è un metodo volgare. Basta molto meno: a bottiglia aperta, provate a colpirne il lato con una forchetta. Vedrete zampillare lo spumante verso il cielo.» La visita dei neo-sommelier in Franciacorta si conclude con una fontana di spumante che si libera in aria, toccando quasi l’inarrivabile soffitto di Berlucchi. Quello zampillio è la metafora della tempra del Franciacorta: avveniristico, scenico, di sicura presa. Forse troppo appariscente, poco genuino.
Manca ancora omogeneità qualitativa. Esiste una scuola che vorrebbe il Franciacorta sbarazzino, «prosecchizzato», e un’altra più ambiziosa che punta a eguagliare lo Champagne anche nella longevità. In Francia sono molto esigenti per i millesimati, prodotti solo in annate veramente particolari. Il disciplinare italiano dà più libertà, e in Franciacorta il millesimato è spesso concepito come versione più evoluta e fine del Franciacorta base.
Oltre a quella che potremmo chiamare mancanza di romanticismo, il Franciacorta pare accusare in degustazione un problema di persistenza. Entra in bocca pieno e intenso, per poi «mollare» troppo presto, forse per una mancanza di mineralità. E anche i suoi mutamenti nel bicchiere, una volta servito, non sono tanto evoluzioni quanto peggioramenti: dai profumi invitanti iniziali si passa a una generale evaporazione. Come se mancasse forza, come se l’unica cosa che è rimasta – il rovere – denotasse il solito abuso di barrique.
Il purista del vino, alla perfezione mainstream del Franciacorta preferirà sempre l’irregolarità scorbutica di un Aglianico vulcanico. E vi dirà che tra Champagne e Metodo Classico non c’è gara. Non è vero: dipende di quali bottiglie, e prezzi, si parla.
La storia del Franciacorta sottolinea ulteriormente la polifonia ampelografica italiana. Nello scacchiere vinicolo della penisola, il Metodo Classico impersona la vocazione imprenditoriale, il futurismo dei macchinari, la volontà di emulare gli amati-odiati cugini francesi. La razionalità.
Come diventare sommelier in cento mosse
Ti diplomerò in canti e in vino.
FRANCESCO GUCCINI
Ho cominciato a fare il corso per sommelier quasi per scherzo. Mi piaceva, ma credevo di fermarmi lì. Forse, addirittura, al primo livello.
È andata un po’ diversamente.
Ad aprile ho dato l’esame di degustatore ufficiale. Una qualifica ulteriore, un fiore all’occhiello spesso aleatorio. L’esame da degustatore ufficiale, dato a Calenzano, è stato didatticamente più facile (mille pagine da portare invece di quasi tremila) ma tempisticamente più arduo. Le dieci ore intensive della domenica pre-esame sono state una full immersion sfiancante. E rispondere a novanta (viscide) domande in sessanta minuti, che è poi l’obiettivo del test scritto, non è agevolissimo.
Il mio corso ha diplomato quarantacinque sommelier. Di questi, soltanto tre hanno dato l’esame di degustatore. Perché? Perché costa (duecentocinquanta euro), perché la percentuale di bocciati è molto alta e perché, di fatto, non serve a molto. Per servire nei ricevimenti, o aprire un winebar, o stare in sala in un ristorante, basta essere sommelier.
Si prova a diventare degustatori ufficiali per vanagloria, soddisfazione personale (cose spesso collegate) e perché solo attraverso quella qualifica puoi, un anno dopo e previo Master in Comunicazione e programmazione, diventare relatore ufficiale. Ovvero uno di quelli che nelle lezioni per aspiranti sommelier fanno i «professori», si scelgono un tema (per dire: «Viticoltura in Valle d’Aosta e Piemonte», seconda lezione del secondo livello) e lo espongono ai futuri esaminandi.
L’esame per relatore ufficiale consiste in una tua elaborazione, con tanto di grafici e schermate al computer, davanti a relatori chiamati a valutare se sei bravo – o scaltro – quanto loro.
Confesso che non ho un sogno chiamato winebar, non andrei mai a servire Chianti Colli Aretini a una comunione, né farò mai il sommelier in un ristorante. L’esame da degustatore l’ho dato per vanagloria, soddisfazione personale, esigenze editoriali (cioè questo libro). E perché, sì, forse diventare relatore non mi spiacerebbe.
Mi sono persino fatto il vestito (io che odio la cravatta come odiavo Ivan Lendl), che non solo non è obbligatorio ma neppure esiste. L’Ais ti obbliga a indossarlo solo se fai «servizio» o se partecipi a qualche stage o esame ufficiale. Non esiste una divisa, sei tu che compri una giacca – l’importante è che sia blu scuro – e sopra ci fai cucire, sul taschino di sinistra, lo stemma dell’associazione. Sempre a sinistra devi avere la spilla, che raffigura un tastevin, d’argento se sei sommelier da meno di un anno e d’oro se da almeno un anno «eserciti» la professione (a quel punto sei sommelier professionista). L’unica cosa che devi comprare è la cravatta, dal capo Delegazione (sì, al collo devi tenere il tastevin, simbolo dell’Ais).
I pantaloni non hanno obbligo di colore, e neppure la camicia: basta che siano anche solo minimamente intonati (dico «minimamente» non a caso). La mia divisa l’ho indossata solo all’esame da degustatore. Anzi, no: qualche volta la metto per scherzo, soprattutto quando sono in vena di demenza con gli amici.
Il fatto che ora sia degustatore ufficiale, e in Italia non siamo in tanti, non vuol dire che possegga il supernaso di un Peter Parker che da bambino è caduto in una damigiana e lì ha ricevuto il sacro battesimo alcolico: vuol solo dire che, come quelli che vanno in tv, ho studiato più di altri e più di altri ho avuto fortuna.
I numeri del vino sono importanti. L’interesse è massimo, didattico e modaiolo.
La produzione italiana rappresenta, di media, il 21% della produzione mondiale e il 34% di quella dell’Unione Europea. L’intero patrimonio della filiera vitivinicola (compreso quindi anche il valore degli impianti e strutture legate alla produzione di vini, liquori, distillati e aceti balsamici) sfiora i cinquanta miliardi di euro.
La piramide del vino in Italia è così composta: tre milioni d’ettolitri Docg, nove milioni d’ettolitri Doc, ventidue milioni d’ettolitri Igt, venti milioni d’ettolitri di vino da tavola; la vendemmia 2003 è stata di 44.900.000 ettolitri, ma la produzione media (ultimi cinque anni) è stata di 54 milioni di ettolitri.
Le aziende vitivinicole sono ottocentomila, ma le aziende imbottigliatrici (che hanno una media di cinque etichette) sono trentamila.
La superficie vitata italiana (Censimento Istat 2000) è di 675.000 ettari (1.227.000 ettari nel 1980): i due terzi delle aziende hanno una superficie vitata inferiore a un ettaro; settemila una superficie superiore ai dieci ettari, poche centinaia più di cinquanta ettari di vigneto. 233.000 ettari sono impiegati in Italia per la produzione di Doc e Docg. Nel mondo la superficie vitata è di 7884 milioni di ettari (il 41% nell’Unione Europea).
Le persone in qualche modo occupate nel mondo del lavoro vitivinicolo sono un milione e duecentomila, compresa la fase della distribuzione.
Il consumo medio annuo di vino per abitante in Italia è sui 59-60 litri. Sta diminuendo. È un bene, perché molti bevono meno ma meglio. È un male, perché in tanti al posto del vino bevono quintali di birra e superalcolici (spesso celati dietro cocktail discotecari).
Il mondo del vino ha un giro d’affari in Italia di ottomila milioni di euro. La cifra è cresciuta dalla seconda metà degli anni Novanta, quando ha cominciato a verificarsi il boom del vino.
Le enoteche e winebar in Italia sono mille, con un fatturato da trecento milioni di euro. Il principale luogo di acquisto di vino è la grande distribuzione organizzata (Gdo), con il 40%: nel 2001, le vendite di vino hanno raggiunto i 480 milioni di litri. Seguono il piccolo dettaglio (10%), l’enoteca (15%), l’approvvigionamento diretto (32%), le vendite per corrispondenza (3%).
Nella hit parade delle enoteche d’Italia c’è il Brunello di Montalcino. A fargli compagnia sulla vetta sono Chianti e Chianti Classico; quarto viene il Barolo seguito dalla Barbera d’Asti, dal Dolcetto e dal Barbaresco; la carica dei piemontesi è interrotta all’ottavo posto dal Greco di Tufo e riprende poi al nono gradino con la Barbera d’Alba; decimo è il Sangiovese di Romagna.
A livello di vendita, i vini in bottiglia hanno superato quelli sfusi. Nel 2002 la vendita di prodotto sfuso è ulteriormente calata del 7,9% e l’imbottigliato è cresciuto del 2,03%. Prevalgono i vini rossi, che coprono una quota del 53% e del 57% (rispettivamente volume e valore).
I vini Doc e Docg rappresentano, in quantità, circa il 21% della produzione italiana. Le Docg sono trentacinque, le Doc 315, ma con oltre 1800 tipologie diverse tra menzioni aggiuntive e sotto specificazioni.
L’Italia non è più il primo paese esportatore al mondo. Lo era nel 2001, adesso è dietro la Francia e si deve guardare da Australia, Cile, Spagna e Germania. I viticoltori biologici italiani sono cinquemila e la superficie vitata è di venticinquemila ettari. Il vino biologico italiano è apprezzato soprattutto dal mercato internazionale, che assorbe dal 70% all’80%.
Gli adepti del vino di qualità in Italia sono oltre sei milioni (hanno perlopiù tra i ventisei e i quarantacinque anni) che cercano e consumano in misura sempre crescente etichette di qualità, comprano guide e riviste specializzate, frequentano enoteche e winebar, partono per weekend alla scoperta di territori ricchi d’arte, storia, ambiente, ma anche di cantine.
L’attenzione verso il mondo del vino ha una platea ben più grande: sono ventiquattro milioni i consumatori italiani stabili, sedici dei quali hanno a casa uno stock di vini. Gli iscritti all’Ais sono più di trentamila. Il turismo enologico è particolarmente florido. La nuova tendenza è all’insegna della riscoperta dei prodotti e dei sapori di casa nostra, da assaggiare nei weekend o nelle micro-vacanze. Gli italiani che subiscono il fascino dei territori del vino sono un esercito: ben tre milioni e mezzo di turisti di casa nostra hanno scelto mete enogastronomiche e il fatturato del settore (pari a due miliardi e mezzo di euro nel 2002) è in costante crescita.
Questo scenario, come ha sottolineato il Movimento Turismo del Vino, «conferma che l’enoturismo è il volano più efficiente per muovere flussi, grazie al mix dei suoi principali elementi: cultura, paesaggio, vino, cucina, arte, prodotti agroalimentari, artigianato di qualità».
La top ten sulle intenzioni di visita nei distretti del vino (un potenziale di dieci milioni d’italiani) è così sgranata: Chianti, Conegliano, Oltrepò Pavese, Montalcino, Monferrato, Langhe, Trentino, Montefalco, Collio, Castelli Romani.
È stato il winemaker (e scrittore) Roberto Cipresso a inventarsi una riuscita classificazione dei bevitori di vino: Analfabeta, Alfabetizzato, Diplomato, Acculturato.
L’Analfabeta è quello che beve per il gusto dell’alcol, perché sa di proibito, perché in discoteca è gradita la disinibizione. È spesso giovane, più vicino all’alcolismo che al piacere del vino. Quantità, non qualità. Prova lo stesso gusto a bere Tavernello o Brunello.
L’Alfabetizzato lo conoscete tutti. È quello fermamente convinto che il vino del contadino sia il nirvana perché costa meno ma è più buono delle bottiglie in commercio. Fa cinquecento chilometri per farsi riempire la sua damigiana di un rosso quasi sempre dozzinale, che poi imbottiglierà da solo in bottiglie usate fino al giorno prima per l’acqua gassata. Beve tutta la vita lo stesso vino, diffida dei sommelier, si autodefinisce esperto e quando lo inviti a cena si presenta nove volte su dieci con una bottiglia polverosa e mal tappata, con l’etichetta dell’Acqua Verna ancora attaccata e un contenuto rossastro che all’olfatto saprà di spunto (e al gusto avrà sentori preagonici).
Il Diplomato è quello che fa il corso Ais (o similari). Che poi passi o no l’esame, avrà comunque quell’atteggiamento odioso da «ora io so», quanto di peggio si possa fare per avvicinare un novizio al vino.
L’Acculturato è quello che, dopo il diploma (o anche a prescindere dal diploma), è andato oltre. Non si è fermato ai libri, alle regole scritte, al galateo. Ha cercato, per il gusto di cercare.
A titolo personale fluttuo nel meraviglioso limbo tra Diplomati e Acculturati. Un girone poco infernale dove non c’è Roberto Benigni che legge Dante, al massimo Gianni Mura che ti invita a cena per una gara sfiancante di mnemonica.
E il vino è soprattutto questo, per me: tramite per la convivialità, stupore nel riconoscimento di una vita «altra». Sfida interpretativa. Capire cosa proviamo per il nostro passato, cosa stiamo preparando per il futuro.
Tutte le volte che incontro Mura – e purtroppo non accade spesso quanto vorrei – so già come andrà a finire: con una cena o un pranzo che pagherà lui. Bottiglie sdraiate, e a metà pasto – rigorosamente pantagruelico – lui tirerà fuori la storia della mnemonica. Funziona così: si sceglie una lettera a caso e per tutta la cena si va avanti cercando di ricordarsi, a turno, nomi di cantanti (o attori, o sportivi) che cominciano con quella lettera. Un giochino sadico, che inevitabilmente ti porterai dietro per i giorni successivi (di solito, la notte dopo la cena, ti svegli di soprassalto e ti ricordi di non aver detto Zenobi quando si è parlato di cantanti che iniziano con la «z»).
Questo, l’ho detto, non è un libro per iniziati. È un libro per iniziali, piuttosto. Io non sono un esperto: sono un curioso informato. E non è neanche – per carità – un libro didattico. Al massimo, un viaggio in dieci tappe puntellate da altrettanti dietro le quinte.
Un tributo al vino.
Fin dall’inizio avevo questa idea di simulare un esame per sommelier o, per meglio dire, un vademecum semiserio per fare i fighi con gli amici. E sia, dunque. Ritenetelo, nell’economia del libro, una sorta di glossario anticipato (e poco canonico).
Di seguito vi propongo cento domande, sulla falsariga dell’esame Ais. Molte sono domande plausibili, altre escono regolarmente nei quiz. Qualcuna è folle, qualcun’altra sembra folle ma tale non è.
Le ho strutturate rispettando la didattica dell’Ais. Cinquanta domande per il corso di primo livello (enologia, degustazione, concetti base), venti per il secondo livello (Doc, Docg e vini esteri), venti per il terzo (abbinamento cibo/vino). Le altre dieci sono dei jolly.
Si passa con sessanta. Se ne sbagliate meno di quaranta, vi offro una mnemonica: vini e vitigni con la «s». Chi perde offre un Sassicaia (o Supertuscans, o Sassella, o Sauvignon Blanc, e via così).
Ah, un’avvertenza: io le risposte a tutte queste domande non le so. O perlomeno non così bene. Cercavo un vademecum simile anche prima dell’esame da sommelier, ho scaricato di tutto da eMule, ma non si trovava più nulla e quelli dell’Ais avevano chiuso il forum del sito ufficiale perché era diventato un inverecondo ricettacolo di smidollati e un’anticipazione puntuale dei questionari d’esami.
Per fare questo capitolo ho spudoratamente attinto dai degnissimi libri Ais. Eppure sono un degustatore ufficiale, quindi – molto teoricamente – del vino dovrei sapere tutto: questa ulteriore incongruenza deve nuovamente farvi capire che, nel mondo del vino, nessuno nasce imparato.
E nessuno impara mai fino in fondo.
Cos’è il vino?
Il vino è una bevanda alcolica ottenuta esclusivamente dalla fermentazione alcolica (totale o parziale) di uva pigiata o no, o di mosto d’uva. Il vino si può ottenere da qualità di uve appartenenti alla specie Vitis vinifera o provenienti da un incrocio tra questa specie e altre specie del genere Vitis, come la Vitis labrusca o la Vitis rupestris. In Italia per la produzione di vino possono essere usate solo uve appartenenti alla specie Vitis vinifera.
Quali sono i cicli della vite?
Quello vitale e quello annuale. Vitale: improduttività nei primi due-tre anni, massima produttività fino ai ventiventicinque, fase di vecchiaia dai trenta-quaranta. I francesi definiscono vieille vigne quei vini ottenuti da viti di oltre quarant’anni (prima della fillossera la vite viveva più di cento anni, come ancora accade per esempio in alcune zone del Vulture). Più una vite è vecchia, più produce uva di qualità. Più si intensifica la produzione e si «spreme» la vite, più breve sarà la sua vita e di minor pregio i suoi frutti.
Il ciclo annuale si divide a sua volta in due sottocicli, vegetativo e produttivo. Vegetativo: pianto della vite (marzo), germogliamento (aprile), agostamento (maturazione del tralcio, ad agosto), defogliazione (periodo di riposo, da novembre-dicembre a marzo-aprile). Produttivo: primi grappolini ad aprile, fioritura tra maggio e giugno, fecondazione e sviluppo dell’acino (allegagione), invaiatura tra luglio e agosto (il via della maturazione degli acini), fine della maturazione (metà di agosto se precoce, come il pinot nero, o a fine ottobre se tardiva, come il nebbiolo).
Che tipi di maturazione esistono?
Tre. Maturazione tecnologica (rapporto tra acidi e zuccheri nell’uva), fenolica (rapporto tra polifenoli, segnatamente pigmenti, che danno il colore, e tannini, che danno struttura e astringenza), aromatica (l’accumulo di sostanze olfattive in buccia e polpa). Questa domanda vi viene fatta per vedere se avete capito quanto è importante il momento della vendemmia. Se la anticipate un po’, avrete più acidi, più colore e più profumi primari. Se la tardate, avrete più zuccheri (quindi alcol), più tannini (quindi struttura) e meno profumi primari.
Quali sono i fattori che influenzano la qualità della vigna?
Il vitigno. L’ambiente pedoclimatico (zona, clima, terreno). Le tecniche colturali (scelta del vitigno, densità dell’impianto, potatura di produzione e verde, nutrizione minerale e idrica, concimazione, grado delle tre maturazioni, vendemmia ecc.).
Cos’è l’ambiente pedoclimatico?
Un insieme di elementi che devono integrarsi al meglio. Zona, clima e terreno di un vitigno. Per zona, per esempio, si intendono latitudine e altitudine (la perfezione è in collina, 62% della produzione in Italia, o montagna, 8%). Il terreno è fondamentale per la vigna. Generalizzare è impossibile, ma i terreni argillosi danno grande struttura e quelli calcarei-morenici ottima acidità e propensione alle bollicine. Il clima deve essere temperato, la brezza impedisce che l’uva ammuffisca e – fondamentale – l’escursione termica alta tra giorno e notte (per esempio in montagna) permette la concentrazione nella buccia degli acini di sostanze aromatiche. I vini di collina e montagna avranno profumi più ricchi e nobili dei vini di pianura.
Quali sono i vantaggi della coltivazione in collina e montagna?
Migliore esposizione e illuminazione (nord-sud nelle regioni settentrionali, con meno sole; est-ovest in quelle meridionali). Temperature più fresche, sbalzi termici più accentuati tra giorno e notte. Migliore ventilazione. Regime idrico più siccitoso durante la maturazione. Migliore fotosintesi e deposito degli zuccheri. Maggiore acidità fissa e corredo aromatico più ricco ed elegante. Riduzione dell’attività vegetativa a favore dell’accumulo negli acini di zuccheri, aromi e polifenoli nobili.
È vero che la vite predilige terreni fertili?
No. La vite ha anzitutto bisogno di terreni ben drenati, ma sta meglio se il terreno è arido. Basta pensare ai terreni ciottolosi e ghiaiosi del Médoc. O alla lungimiranza di Mario Incisa della Rocchetta, che piantò cabernet in sassicaie tra l’ilarità gretta dei maremmani.
Perché la vite dà spesso il meglio di sé vicino ai fiumi?
I fiumi permettono che l’umidità non sia né scarsa né eccessiva. Non solo: l’acqua riflette la luce, immagazzina calore durante il giorno per restituirlo lentamente durante la notte, fungendo così da volano termico. Infine, i fiumi agevolano il drenaggio del terreno.
Perché l’infittimento degli impianti coincide con un aumento qualitativo dell’uva (e quindi del vino)?
Ce lo hanno insegnato i francesi. Con impianti più fitti, si hanno viti che soffrono di più per vivere e sviluppano meno grappoli (ma con maggior succo e componenti eleganti). All’alta densità d’impianto va abbinata una riduzione del numero di gemme per ceppo, quindi dei grappoli. Meno quantità, più qualità. L’opposto di quello che sarebbe portato a fare il viticoltore italiano.
Perché l’esposizione di un vigneto alla luce è decisiva?
Perché è la luce a permettere la fotosintesi clorofilliana, trasformando anidride carbonica e acqua in zucchero e ossigeno.
Che differenza c’è tra potatura secca e potatura verde?
Con la potatura secca si decide quale sarà il numero di gemme che daranno origine ai grappoli: si chiamerà corta se orientata verso l’elevata qualità (cinque-dieci gemme) o lunga se finalizzata alla quantità (quindici-venticinque gemme). La potatura verde dà invece forma alla pianta: si eliminano le foglie che impediscono una buona aerazione dei grappoli, per esempio. Alle due potature si abbina, di solito nella seconda metà di luglio, il diradamento dei grappoli, sempre volto a un incremento qualitativo del futuro vino.
Elenca cinque sistemi di allevamento.
Alberello (retaggio dei Greci), pergola trentina o valdostana, cordone sperone orizzontale, guyot (il più usato), capovolto doppio. Nessuno sa esattamente come funzionino, ma di solito basta impararli a memoria. Fa molta presa sui commissari rispondere «Gdc», che sta per il misteriosissimo Geneva Double Courtain.
Come può essere una vendemmia?
Manuale o meccanica. È una domanda trabocchetto, perché i commissari vorrebbero anche un terzo nome: tardiva (che a sua volta, ovviamente, può essere manuale o meccanica). La si fa quando si vogliono ottenere vini molto morbidi e dolci, posticipandola di alcune settimane o mesi. Se si realizza dopo Natale, a gennaio, il vino sarà definito «di ghiaccio». Ultimamente si fa anche in Italia (Piemonte e Alto Adige), ma è soprattutto cosa da austriaci, tedeschi e canadesi.
Da cosa è composto un acino?
Buccia, polpa e vinaccioli.
La polpa è la parte più importante dell’acino?
No, è la più abbondante, rappresentando il 75 – 85% del peso dell’acino. Quella più importante è la buccia, che pur rappresentando solo il 10 – 15% contiene gran parte di ciò che costituirà il vino: i lieviti indigeni (trattenuti da uno strato ceroso chiamato pruina) e i polifenoli (tannini e antociani, compreso il taumaturgico resveratrolo). Contiene poi i profumi primari che finiranno nel vino. Si tratta in gran parte di sostanze odorose glicosilate, cioè legate a molecole di zucchero. La parte meno importante sono i vinaccioli, che contengono tannini indesiderati.
Acidi e zuccheri sono distribuiti in egual misura nella polpa dell’acino?
No. La zona centrale, intorno ai vinaccioli, è particolarmente ricca di acidi (per questo eliminata nella pressatura soffice). La zona intermedia è ricca di zuccheri. La zona esterna, più a contatto con la buccia, è ricca di tannini e sostanze aromatiche.
Cosa sono i terpeni e dove sono contenuti?
Sono un gruppo di sostanze odorose, in parte libere e in parte glicosilate, contenute nelle bucce. Tutte le uve li hanno, ma in quantità diversa. Le uve più ricche di terpeni sono quelle aromatiche (moscati, malvasie aromatiche, brachetto e gewürztraminer). Altre famiglie di sostanze odorose contenute nella buccia sono i norisoprenoidi e le metossipirazine.
Cos’è il fattore di conversione del vino?
È un procedimento matematico che, conoscendo la percentuale di zuccheri contenuti nel mosto, permette di calcolare il futuro titolo alcolometrico del vino. Poiché da un grammo di zucchero si ottengono 0,6 millilitri di alcol etilico, il fattore di conversione del vino sarà 0,6. Per esempio, un mosto con il 22% in peso di zuccheri darà un vino secco con gradazione 13,2 (22 per 0,6). Nella birra il fattore di conversione è 0,4. Nelle etichette è tollerato un margine di 0,5, e i produttori arrotondano sempre per difetto (quindi una bottiglia con scritto 13,5 potrebbe averne 13,9 effettivi).
Qual è la differenza tra alcol svolto e alcol potenziale?
L’alcol svolto, o effettivo, è quello realmente presente in un vino. L’alcol potenziale è quello che ci sarebbe stato se quel vino avesse ultimato la fermentazione alcolica e la piena trasformazione degli zuccheri in alcol: è tipico dei vini con residuo zuccherino, nei quali la fermentazione è stata interrotta (in vari modi) perché la dolcezza fosse deliberatamente percepibile. A volte è scritto nell’etichetta di un vino (per esempio: Alc. 10 + 2%). Un vino secco ha solo alcol svolto e non ha alcol potenziale.
Qual è la differenza tra mosto e vino?
Il mosto è costituito da acqua e zuccheri, il vino da acqua e alcol. Il mosto, in particolare, è il succo che si ottiene dalla pigiatura o pressatura delle uve, nel quale centinaia di sostanze si trovano disperse in acqua, che ne rappresenta il 70% – 80%. Gli zuccheri costituiranno il 17% – 23%. Gli acidi approssimativamente l’1,2% – 2,4%. Il resto saranno percentuali infinitesimali, ma fondamentali, di sostanze minerali, azotate, pectiche e aromi.
Che differenza c’è tra lieviti apiculati e lieviti ellittici?
I lieviti, di per sé, sono i microrganismi unicellulari responsabili della fermentazione alcolica. Quelli apiculati sono indigeni, nel senso che si trovano naturalmente sulle bucce e sui raspi. Sono i più pregiati, ma anche quelli più difficili da controllare (i biodinamici li amano, gli altri un po’ meno). I lieviti ellittici sono i veri responsabili della trasformazione del mosto in vino: hanno forma ellittica e i più utilizzati sono i Saccharomyces cerevisae, il famoso «lievito di birra». La maggior parte delle aziende «industriali» usa lieviti selezionati, in grado di adattarsi ai processi produttivi, e lieviti varietali, capaci di valorizzare i precursori aromatici di uve particolari. I più adottati sono il Saccharomyces ellipsoideus (resiste bene ad alcol e anidride solforosa) e l’oviformis (per la spumantizzazione). I lieviti si nutrono di ossigeno e sostanze azotate.
Elenca i trattamenti e le pratiche di correzione del mosto.
Ovvero l’incubo dei biodinamici. Illimpidimento (con bentonite o gelatina), filtrazioni, chiarificazioni. Aggiunta di anidride solforosa. Correzione del grado zuccherino (l’aggiunta di zucchero è vietata, l’uso – assai simile – di mosto concentrato rettificato no), correzione di acidità (di solito si aggiunge acido tartarico). E la famigerata «concentrazione». Se proprio la si vuol fare, andrebbe fatta sul mosto, perché altera le caratteristiche organolettiche del vino (ma le altera comunque). Oltre al metodo di osmosi e osmosi inversa, il più usato è il concentratore con evaporatore a freddo. Il mosto viene privato della parte solida e immesso in un piccolo serbatoio, all’interno del quale si crea una depressione spinta, con conseguente evaporazione di acqua pura. La qualità del prodotto finale sembra aumentare, l’ingombro è minimo, l’uso è facile, le sostanze estrattive aumentano. Ma il vino nasce «finto» e destinato a non sapere invecchiare.
A margine andrebbe spiegato cos’è la tanto temuta bentonite. È un fillosilicato, un minerale argilloso composto per lo più da montmorillonite, calcio o sodio. I principali depositi sono situati nel Nord America. È impiegato prevalentemente come legante fondamentale per le terre di fonderia. In enologia viene usato come chiarificante.
Quali sono gli acidi fissi da uve e quali da fermentazione?
Da uve: tartarico, malico, citrico. Da fermentazione: lattico, glicolico, citrico, succinico. Esistono poi gli acidi volatili. Da uve: acetico. Da fermentazione: acetico e propionico (quello che nell’emmenthal provoca i «buchi»).
Elenca i procedimenti base della vinificazione in rosso.
Vendemmia; pigiatura o diraspapigiatura; mosto con vinacce; trattamenti ed eventuali correzioni del mosto; addizione di lieviti selezionati; fermentazione con macerazione; svinatura; vino-fiore (a cui si aggiunge a volte il mosto-vino recuperato con la torchiatura); eventuale fermentazione malolattica; maturazione in acciaio e/o botte; travasi; correzioni e stabilizzazione; imbottigliamento; affinamento.
Quanto dura una macerazione?
Mediamente dieci-quindici giorni, anche se esistono macchinari come i rotomaceratori che riducono i tempi (lo usano i vignerons modernisti per il Barolo). All’inizio è massima l’estrazione di antociani, mentre quella dei polifenoli totali (che danno tannino e struttura) aumenta col tempo. La temperatura viene tenuta attorno ai venticinque-trenta gradi, per non alterare il vino e per non uccidere i lieviti. Nei bianchi da bersi giovani, per mantenere i profumi primari, si sta sui ventiquattro-venticinque gradi, nei vini da invecchiamento a volte si sale a trenta-trentadue.
Cos’è il rimontaggio?
Durante la fermentazione, le vinacce tendono a formare in superficie uno strato compatto, un «cappello», che impedisce un buon contatto con la parte liquida e quindi un’estrazione massima. Nel rimontaggio, o follatura, parte del prodotto è spillato dalla parte inferiore del fermentatore e poi spruzzata dall’alto sullo strato solido, permettendo così la «rottura del cappello». In questo modo si favorisce il ricambio del liquido a contatto con le bucce, si ossigena la massa e si ridistribuiscono i lieviti. In alcuni casi la fermentazione si fa a cappello sommerso, con un diaframma forato che tiene il cappello delle vinacce al di sotto del liquido. Per i vini importanti si fa, una o due volte a macerazione, il délestage: si toglie dal serbatoio tutta la parte liquida, lasciando solo quella solida, e poi si reinserisce la parte liquida dall’alto per consentire una rottura totale del cappello formato dalle bucce.
In cosa si distingue la vinificazione in bianco da quella in rosso?
Nella non macerazione, nel fatto cioè che il mosto non rimane a contatto con le bucce. Ciò che dà colore al vino è la buccia, per questo si possono ottenere vini bianchi anche da uve rosse (per esempio pinot nero). Le uve vengono sottoposte non a diraspapigiatura ma a pressatura soffice, affinché il processo sia particolarmente delicato. La fermentazione è infine realizzata a una temperatura inferiore rispetto a quella che caratterizza la vinificazione in rosso.
Cos’è la criomacerazione?
Quando si vuole ottenere un vino bianco importante, destinato a evoluzione, si procede a una macerazione pellicolare, cioè a un contatto di qualche ora tra mosto e bucce (di uve bianche). Lo si fa per permettere l’estrazione di pigmenti e sostanze odorose. Per evitare danni, si raffreddano gli acini fino a zero-due gradi, ciò che appunto si chiama criomacerazione o macerazione a freddo degli acini interi. Il congelamento provoca aumento del volume dell’acqua, la cellula dell’acino si rompe naturalmente e questo facilita l’estrazione delle sostanze durante la successiva pressatura.
I vini rosati si ottengono mescolando vini bianchi e vini rossi?
No, salvo rari casi. Si ottengono sottoponendo le uve a una breve macerazione, oppure utilizzando uve a bacca rossa poco pigmentate e povere di tannini, oppure mescolando un uvaggio di uve rosse e bianche (non inorridite: il Chianti è nato come mix tra uve nere, sangiovese e canaiolo, e bianche, trebbiano e malvasia). Più spesso il rosato si ottiene tramite il salasso. In annate poco favorevoli, si elimina parte della sostanza liquida del mosto, per aumentarne la colorazione e concentrazione. La parte «scartata» diventerà rosato.
Cos’è la macerazione carbonica?
Quella che si usa per il Novello. I grappoli interi vengono posti in vasche sature di anidride carbonica, dove vengono lasciati per cinque-venti giorni a trenta gradi. In questo modo viene favorita la produzione di sostanze profumate e glicerina, nonché la demolizione di parte dell’acido malico. Si aggiunge poi anidride solforosa. Si crea così una parziale fermentazione intracellulare, senza lieviti, aggiunti solo in seconda battuta. La fermentazione alcolica sarà breve (due-quattro giorni) e i vini avranno colori intensi e profumi vinosi. Il Novello, appunto. O il Beaujolais.
Cos’è la fermentazione alcolica?
La trasformazione, naturale, di una molecola di zucchero in due di alcol etilico, due di anidride carbonica ed energia.
Perché la fermentazione alcolica è detta tumultuosa?
Perché l’anidride carbonica fa ribollire il mosto. Ogni vino, di per sé, contiene anidride carbonica. È una reazione naturale, ed è anche il motivo per il quale i vini giovani, o quelli del contadino, hanno spesso quel sapore «pizzichino»: significa che l’anidride carbonica non è stata pienamente tolta, più o meno volutamente, in fase di stabilizzazione e invecchiamento. O che, una volta imbottigliato, il vino ha ricominciato a fermentare per i fatti suoi.
Cos’è la fermentazione malolattica?
La trasformazione dell’acido malico in acido lattico e anidride carbonica, tramite alcuni batteri lattici (Pediococcus, Lactobacillus e Leuconostoc).
A cosa serve l’anidride solforosa?
Il fatto che anche i biodinamici usino i solfiti fa capire quanto siano necessari. Il problema non è usarli, ma abusarne (l’uomo non sa smaltirli, se sono in dosi massicce). L’anidride solforosa, sostanza gassosa addizionata al mosto soprattutto come metabisolfito di potassio, ha più funzioni, tutte nobili: proprietà antiossidanti e antiossidative, che limitano i danni causati dall’ossigeno e i fenomeni di imbrunimento. Favorisce la chiarificazione del mosto. Inibisce lo sviluppo dei batteri e dei lieviti selvaggi. Agevola in parte la solubilizzazione di molte sostanze presenti nelle bucce. Se siete di fronte a un vino che odora di uovo marcio, probabilmente è un vino iper-biologico che, per il gusto di rinunciare al solfito, ti ha regalato quell’adorabile bouquet di zolfo.
La barrique è un male?
No, il male è abusarne e tramutare un vino in una spremuta di Pinocchio. Il legno, di per sé, arricchisce il bouquet di un vino. Ci sono vini adatti alla botte grande (Brunello) e altri alla barrique (bordolesi).
Sì, ma cos’è la barrique?
Genericamente si parla di barrique per intendere qualsiasi botte piccola, ma non sono tutte uguali. Quella classica è la barrique bordolese, che prende il nome dal primo luogo in cui è stata usata: contiene 225 litri. La barrique di Borgogna è ancora più piccola, da 205 litri. Le pièces hanno capacità variabili, i tonneaux circa 500 litri, le pipes – utilizzate per il Porto – 550 litri, quelle per il Madera 650. I legni più pregiati sono ottenuti dalle querce, spesso dalla valle della Loira. L’effetto della barrique sul vino dipende dalla materia prima (la migliore è il rovere di Allier), dalla tostatura, da quanto è nuova (primo, secondo o terzo passaggio), dalla dimensione e dalla durata della permanenza del vino all’interno.
Cosa vuol dire sur lie?
È il riposo del vino a contatto con i propri lieviti di fermentazione, tipico per esempio degli spumanti Metodo Classico o di alcuni Porto. A questo punto potrebbero chiedervi cos’è il batonnage: un rimescolamento che porta periodicamente i lieviti in sospensione.
Quali sono i tannini gallici e quali i tannini catechici?
Tipica domanda carogna. I gallici (o ellagici) sono i tannini nobili che cede il legno, per esempio la barrique; i catechici sono quelli, più irruenti, contenuti nelle bucce, nei raspi e nei vinaccioli.
Che differenza c’è tra un vino pétillant, un frizzante e uno spumante?
I vini frizzanti hanno una sovrapressione compresa tra 1 e 2,5 atmosfere, i vini pétillant inferiore a una. I vini spumanti devono avere una sovrapressione minima di 3 atmosfere (3,5 se Vsq, Vini Spumanti di Qualità). Il Franciacorta Satèn ha 4,5 atmosfere (in Francia si chiamano Crémant), un Metodo Classico o uno Champagne 6 atmosfere. La pressione atmosferica è data dalla presenza di anidride carbonica, che deve essere stata prodotta naturalmente: se invece è frutto di un’aggiunta tramite pompe che realizzano il vuoto e iniettano CO2, il vino frizzante o spumante è detto artificiale e costerà giustamente poco.
Qual è la differenza tra Metodo Classico e Metodo Charmat?
È una domanda che esce sempre. Nel Metodo Classico la seconda rifermentazione avviene in bottiglia, nello Charmat in autoclave. Il Metodo Classico avrà per questo colori più intensi e un bouquet riconoscibile di lieviti e crosta di pane. Esiste un terzo metodo, quello dell’Asti Spumante, che a differenza degli altri non è ottenuto da un vinobase ma da un mosto-base.
Il Dry è più secco del Brut?
No (lo so, questa l’avreste sbagliata). Il Pas Dosé (o Nature, Brut Sauvage, Dosage Zero) ha residuo zuccherino inferiore a un grammo per litro, ed è l’unico a cui non è stato aggiunto il liqueur d’expédition o sciroppo di dosaggio; il Brut Nature ha residuo zuccherino inferiore a tre, l’Extra Brut inferiore a sei, il Brut a quindici, l’Extra Dry tra dodici e venti, il Dry tra diciotto e trentacinque, il Demi-Sec trentacinque-cinquanta e il Dolce superiore a cinquanta. Se il residuo zuccherino è a cavallo di due tipologie (per esempio trentaquattro grammi per litro), sta al produttore scegliere come classificare quel vino.
I vini speciali sono vini particolarmente buoni?
No. I vini speciali rappresentano (o, per meglio dire, rappresentavano: è una distinzione superata) una macrofamiglia di prodotti caratterizzati da un elevato grado zuccherino o alcolico oppure spumantizzati. Si dividono in spumanti, liquorosi e aromatizzati. Gli spumanti li conosciamo. I vini aromatizzati (minimo dieci gradi) partono da un vino/mosto fermo al quale si aggiungono alcol, zucchero o mosto, e poi erbe o spezie aromatizzanti in giusta proporzione. Per ottenere il Barolo Chinato si usa corteccia di china, mentre Vermouth o Wermut è il termine tedesco per dire assenzio. Il vino così ottenuto viene filtrato e chiarificato, e dopo una maturazione di sei-dodici mesi si imbottiglia. I vini aromatizzati non vanno confusi con i vini aromatici, ottenuti appunto da uve aromatiche. I vini liquorosi vengono prodotti da un vino base al quale si aggiunge una combinazione di alcol, mosto concentrato, acquavite o mistella per aumentarne il titolo alcolometrico. La gradazione alcolica di partenza è di almeno dodici gradi mentre quella finale va dai sedici ai ventidue. La concentrazione zuccherina è superiore ai cinquanta grammi/litro (quaranta per i vini secchi). La mistella, o sifone, è una combinazione infermentescibile di mosto, acquavite e zucchero con titolo alcolometrico dai sedici ai ventidue gradi. I vini liquorosi più famosi sono il Marsala, il Porto, lo Sherry e il Madera.
A livello legale i vini passiti non sono definibili vini speciali, poiché per farli non si aggiungono mistelle. I vini passiti possono essere naturali, con i grappoli ancora sulla vite sottoposti a sovramaturazione (per esempio Aleatico di Gradoli), oppure artificiali se l’appassimento viene effettuato dopo la vendemmia, al sole (Greco di Bianco) oppure su graticci durante la stagione fredda (Torcolato di Breganze). Li si vinifica (non vendemmia) tardivamente, a volte durante la settimana santa (il Vin Santo).
Le muffe sono sempre negative in un vino?
Tutte tranne una, la Botrytis cinerea, alla base del Sauternes, del Tokay ungherese e di altri vini muffati (anche italiani). Si tratta di una muffa grigia, che in particolari condizioni pedoclimatiche e di sviluppo si trasforma in muffa nobile. La Botrytis rende gli acini raggrinziti e bruttini, ma formando un feltro colorato provoca l’appassimento per evaporazione e – soprattutto – la conseguente concentrazione di tutte le sostanze estrattive. In più interviene direttamente, producendo glicerina (quindi aumentando la morbidezza del vino) e sostanze aromatiche che nobiliteranno il bagaglio olfattivo in maniera inconfondibile. Oltre a questo, consuma alcuni acidi.
Cosa sono i distillati?
Il frutto della distillazione di un fermentato, quasi sempre di origine vegetale. La distillazione è un procedimento fisico che permette di separare i componenti volatili di un fermentato in base al loro diverso punto di ebollizione. A margine, qui, ti chiedono di elencare almeno cinque distillati. Un esempio potrebbe essere: grappa, whisky (whiskey è irlandese), calvados, tequila, rum.
Quali sono i requisiti fondamentali di un sommelier?
Umanità, professionalità, cultura e tecnica (lo so, è una domanda del cavolo, ma spesso esce).
È vero che le bottiglie vanno tenute in cantina verticalmente?
No. La cantina è la camera da letto di un vino, e così come voi non siete cavalli e non dormite in piedi, anche il vino gradisce stare in posizione orizzontale. La temperatura dev’essere di dodici-quattordici gradi. L’ambiente deve essere al riparo da luci e cattivi odori. Per ulteriori consigli, leggete l’ultimo capitolo e le dritte di Franco Biondi Santi.
Come vanno scelti i bicchieri?
Seguendo l’empirismo. Più un vino è importante, più il bicchiere dovrà avere un’apertura ampia (per liberare i profumi) e uno stelo lungo (per conferire eleganza al bicchiere e perché la mano non scaldi il vino né lo contamini olfattivamente durante la degustazione). Se mettete uno spumante in un calice da Barolo, il perlage sarà una chimera e i profumi li perderete tutti. Ah: i bicchieri colorati vanno banditi come la lebbra e il tifo.
A cosa serve il decanter?
La risposta giusta sarebbe: a niente, al massimo a fare gli sboroni (anche qui, leggete in merito Biondi Santi). Se ve lo chiedono, limitatevi però a dire che serve solo in presenza di vini così invecchiati da avere sicuramente dei depositi; versando il vino in un decanter, magari agevolati da una candela che per contrasto evidenzi le impurità, farete sì che il deposito rimanga nella bottiglia. Un decanter non serve a niente in un vino giovane, e per «aprire» un vino basta la sana avvinatura del bicchiere. Lo stesso decanter può essere controindicato per vini molto invecchiati, perché dopo tanti anni di inattività in bottiglia, quel vino verrà sottoposto a un brusco cambio di vita. Meglio aprirlo almeno otto ore prima e procedere a una leggera scolmatura.
A cosa servono le cerimonie di apertura di un vino seguite da un sommelier?
A niente, assolutamente a niente. Pura scenografia, come la regola del mostrare il vino a sinistra e versarlo a destra. Valutate la piacevolezza di un sommelier da altri aspetti, non dalle sue capacità pseudoattoriali.
La temperatura di un vino influenza la degustazione?
Tantissimo. A temperature alte avvertirete di più le morbidezze, a quelle basse le durezze. Se un vino è servito troppo caldo, sarà un’esperienza nefasta. Se troppo freddo, quel vino vi sembrerà analcolico oltre che odiosamente privo di aromi.
Cos’è una Jeroboam?
Una doppia magnum, ovvero una bottiglia da tre litri. Le bottiglie, quando divise per grandezza, hanno nomi biblici (la più grande è la Melchisedec, da trenta litri, corrispondenti a quaranta bottiglie classiche). Più spesso il loro nome deriva dalla forma; bordolese, borgognona, albeisa (quella dei vini di Langa), renana o alsaziana, pulcianella (quella del Mateus), anfora (quella del Verdicchio), renana o alsaziana, Porto, marsalese, fiasco, ungherese. E così via.
A cosa serve il tastevin?
Il tastevin, l’assaggia-vino, oggi è solo il simbolo appeso al collo dei sommelier. Non lo usa più nessuno, tranne che in qualche cantina di Francia. È nato come strumento di degustazione, poi soppiantato dal bicchiere Iso da degustazione. È composto da un manico di dimensioni ridotte, a forma di anello, sul quale si trova il poggiadito. All’interno ci sono otto grandi perle concave che servono per l’esame visivo dei vini rossi; dalla parte opposta compaiono una serie di nervature di forma allungata (diciassette o diciotto), sempre incavate, per l’osservazione dei vini bianchi. Al centro si trova una bolla di livello, convessa e di dimensioni maggiori, la cui parte superiore indica la quantità massima di vino da porre nel recipiente. Attorno alla bolla sono disposte quattordici piccole perle in rilievo, che permettono una rapida areazione del vino, favorendo così l’esame olfattivo.
Indica i vitigni aromatici, quelli semiaromatici e quelli neutri.
Uve aromatiche: gewürztraminer, moscati, malvasie, brachetti. Semiaromatiche: chardonnay, kerner, prosecco, riesling, sauvignon blanc, sylvaner, cabernet franc, cabernet sauvignon, merlot. Neutre: le altre.
Quali sono i profumi primari, secondari e terziari di un vino?
I primari sono quelli che dipendono dalle sostanze odorose presenti direttamente nelle uve. I secondari derivano dai processi fermentativi. I terziari derivano dalla maturazione e dall’affinamento del vino.
Cosa si intende per complessità olfattiva di un vino e quali sono i termini da usare in una degustazione?
La complessità olfattiva è la varietà dei profumi del vino, percepiti in successione dopo ripetute inspirazioni. I termini con cui si valuta sono: carente (sempre un difetto), poco complesso, abbastanza complesso, complesso, ampio. Il suo coefficiente correttivo nella scheda a punti è ×2. Avvertenza: domande di questo tipo, relative alla definizione dei termini della degustazione, escono sempre e possono riguardare esame visivo, olfattivo e gusto-olfattivo. La terminologia di degustazione Ais va saputa. A memoria. Non c’è scampo.
Un Amarone ha sempre uno stato evolutivo valutabile in «maturo».
Falso. È un errore classico quello di associare l’invecchiamento allo stato evolutivo. Un Amarone, per quanto di dieci anni, potrà essere ancora «pronto» perché in qualche modo in grado di migliorarsi (per esempio affinando i tannini). Così come un semplice Moscato d’Asti sarà verosimilmente «maturo», perché se aspetti troppo a berlo perderà la poca acidità e diventerà sciroppo alcolico.
L’equilibrio è la qualità più importante di un vino.
Falso anche questo. I valori più importanti di un vino, tutti con coefficiente correttivo ×3, sono qualità olfattiva, qualità gusto-olfattiva e armonia. Ovvero i giudizi di sintesi. L’equilibrio acquista di solito molta importanza per il non esperto, sempre attento alle asperità delle durezze di un vino (su tutte il tannino), ma in termini di voto ha il coefficiente più basso: ×1. Non vale più dell’intensità olfattiva o dell’aspetto visivo.
Si definisce «franco» un vino che avrà profumi freschi e vivaci, tipici dei vini giovani.
No, i vini con queste caratteristiche sono definiti «fragranti». «Franco» è un aggettivo che si usa per sottolineare la pulizia e la chiarezza di un profumo in relazione alla tipologia del vino preso in esame. Per esempio un moscato, vitigno aromatico che spesso «sa» di salvia, potrà essere definito: aromatico, franco (salvia), fruttato, floreale.
Un vino con residuo zuccherino di quaranta grammi/litro è abboccato.
No, è amabile (30-50 g/l). L’abboccato va da 10 a 30 g/l.
Un vino che ha fatto barrique saprà sempre di vaniglia.
No. Solo quei vini odiati da Slow Food.
La definizione «acidulo» equivale a un difetto certo del vino.
Una quasi verità, perché in rari casi può essere una caratteristica. È il caso dell’Asprinio di Aversa, del Vinho Verde portoghese e pochi, pochissimi altri. Se state bevendo uno Chardonnay acidulo, fermatevi subito e usatelo come diserbante.
Elenca le Docg della Basilicata.
Ho già finito. Non ce ne sono. Per ora (l’Aglianico del Vulture vorrebbe diventarlo).
Elenca le Igt del Piemonte.
Ho già finito. Non ce ne sono (tranquilli, a proposito: nessuno vi chiederà mai le Igt italiane, se non forse quelle della propria regione).
Elenca i vitigni principali della Borgogna.
Pinot nero, gamay (quello del Beaujolais), chardonnay e aligoté (un bianco «minore»).
Elenca i vitigni principali del Bordeaux.
Cabernet sauvignon, merlot, cabernet franc (l’uvaggio bordolese). Sémillon, sauvignon blanc (l’uvaggio del Sauternes).
La Loira è famosa per i vini rossi.
No, per i bianchi, soprattutto a base sauvignon blanc, che qui acquisisce i famosi – nonché lisergici – sentori di pietra focaia (il mitico Pouilly-Fumé). Altri vitigni bianchi della Loira sono il muscadet e lo chenin blanc. Guai però a ritenere la Loira una terra di soli bianchi. È anzi la terra che più esalta il cabernet franc, il cabernet più «spigoloso». Oltre al gamay, che c’è pure qui, la Loira è la patria dei rosati a base grolleau (il noto Rosé d’Anjou).
Elenca i principali distretti della California.
Quelli della North Valley: Mendocino, Lake, Napa Valley, Sonoma. È la regione più vocata, anche se spesso l’uva arriva dalla Central Valley, che fa quantità ma non qualità. I vitigni sono quelli francesi, oltre al falso autoctono zinfandel (cioè il primitivo), a una barbera non esaltante e a un sangiovese che stanno imparando a fare (tremate, toscani, tremate).
Elenca almeno cinque distretti vitivinicoli del Sudafrica.
Una domanda così bastarda che me la sono beccata in pieno, con relativa richiesta di cinque vitigni lì coltivati (pinotage, cinsault, steen, colombard, hanepot). Distretti: Constantia, Stellenbosch, Walker Bay, Overberg, Paarl. Ammetto che all’esame mi fermai al quarto (chi se lo ricordava il distretto di Overberg).
L’Australia è famosa per la ricchezza dei vitigni autoctoni.
No, quella è l’Italia. L’Australia è famosa per l’assoluta noncuranza della tipicità di un vitigno (ma non per questo il suo vino è cattivo: anzi, è così finto da esaltare anzitutto chi di vino «non capisce»).
Okay, il vino estero lo conosci. Torniamo all’Italia. Dimmi le Docg piemontesi.
Asti, Dolcetto di Dogliani Superiore, Roero/Arneis, Barolo, Barbaresco, Gattinara, Ghemme, Gavi o Cortese di Gavi, Brachetto d’Acqui o Acqui. Nove in tutto: nessuna regione ne ha quante loro.
Qual è la provincia del Sud che può vantare tre Docg?
Avellino: Fiano, Taurasi, Greco di Tufo.
Il Marsala Vergine è sottoposto a un invecchiamento minimo di quattro anni.
Falso, gli anni sono cinque. A proposito di Marsala: finiamola di considerarlo un vino da supermercato, non è colpa sua se, per decenni, produttori avidi hanno spacciato per tale l’orribile «Marsala all’uovo». Il Marsala, quello vero, è un vino splendido. Oltre che una Doc molto difficile da ricordare. Un Marsala può essere classificato per grado di invecchiamento (fine, superiore, superiore riserva, vergine o soleras, vergine stravecchio o riserva), colore (oro, ambra, rubino) e grado zuccherino (secco, semidolce, dolce).
La Docg Ramandolo è a base trebbiano?
No, è a base verduzzo friulano (o, meglio, verduzzo giallo).
La Docg celebre per l’acinellatura dei suoi grappoli è la Vernaccia di Serrapetrona?
Non se ne parla proprio. È il meraviglioso Picolit.
La Doc trentina dedicata interamente alla produzione di spumante Metodo Classico è la Doc Trentino?
No, è la Doc Trento. Ed è una Doc da benedire.
Il marzemino è un vitigno autoctono sardo.
Neanche in un’altra vita. È trentino e lombardo (dove lo chiamano berzamino).
Elenca le cinque sottozone della Docg Valtellina Superiore.
Altra domanda che esce sempre. E sia: Inferno, Sassella, Grumello, Valgella, Maroggia. Se avete una memoria bionica, aggiungete che l’Inferno è il più strutturato, il Sassella il più elegante, il Grumello il più morbido e il Valgella il meno complesso. (Come dite? E il Maroggia? Mai saputo.)
Dimmi cinque autoctoni sardi.
Nasco, nuragus, carignano, cannonau, monica (se ve ne chiedono cinque molisani è più difficile).
Quante sono le sottozone della Docg Chianti?
Sette: Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colline Pisane, Montalbano, Montespertoli e Rufina.
Il Rosso Conero è una delle ultime Docg approvate.
Vero. È a base montepulciano d’Abruzzo, minimo 85%, con aggiunta di sangiovese (max 15%). Comunque l’ultima in assoluto, per ora, è il Morellino di Scansano.
Il montepulciano è un vitigno autoctono toscano.
Altra domanda trabocchetto. No, il montepulciano è un vitigno autoctono abruzzese (ma anche marchigiano). La Docg Nobile di Montepulciano è a base sangiovese, segnatamente il biotipo prugnolo gentile.
L’abbinamento si fa solo per concordanza e contrapposizione.
No. Anzitutto si fa come ci pare. Poi si fa anche per tradizione, stagionalità, valorizzazione e psicologia.
L’acidità di un vino si contrappone alla succulenza di un cibo.
Castroneria. Si contrappone alla grassezza.
La meringa è un piatto con una tendenza dolce molto percettibile.
Ma anche no. Per la meringa si deve parlare di dolcezza, non di tendenza dolce.
Cos’è il formaggio?
Il prodotto che si ottiene dal latte vaccino intero o parzialmente scremato, o dalla crema di latte, in seguito a coagulazione acida o presamica, anche facendo uso di fermenti o di sale da cucina (vi sento già chiedere: perché un sommelier deve sapere cos’è il formaggio? Boh. So solo che è materia del terzo livello).
Si abbina meglio un cibo morbido di un cibo duro.
Vero. Le componenti dure di un cibo (sapidità, tendenza amarognola, tendenza acida) possono essere contrapposte soltanto dalla morbidezza di un vino, che spesso perde.
I legumi hanno sempre una spiccata grassezza.
No, hanno una spiccata tendenza dolce.
Quali sono le differenze principali tra il prosciutto di San Daniele e quello di Parma?
Il Parma è senza piedino, la forma è a coscia di pollo ed è perfetto dopo un anno di stagionatura. Il San Daniele è con il piedino, la stagionatura deve essere di almeno un anno e la stuccatura è fatta usando cannella e paprika (retaggio mitteleuropeo). Anche qui: perché un sommelier dovrebbe saperlo? Boh.
Quali sono gli elementi che vanno per concordanza?
Dolcezza, intensità aromatica, struttura, persistenza.
Perché di un cibo deve essere sempre valutata la succulenza?
Perché la succulenza va in contrapposizione all’alcolicità, e tutti i vini hanno alcol. Quindi a qualcosa devono per forza contrapporsi.
Come può essere un abbinamento?
Poco armonico, abbastanza armonico, armonico.
Quali sono le sensazioni tattili di un cibo?
Grassezza, untuosità, succulenza.
Fai l’esempio di una microsensazione e una macrosensazione del cibo.
La tendenza dolce è una microsensazione, la grassezza una macrosensazione. Anche il vino ha microsensazioni (per esempio la sapidità) e macrosensazioni (per esempio la dolcezza).
Le tecniche di cottura influenzano le caratteristiche di un cibo.
Oh, sì. Una cottura alla griglia esalterà la tendenza amarognola, una cottura al cartoccio l’aromaticità di un cibo.
Su cosa si basa la classificazione del riso?
Sulla dimensione della cariosside e sul diverso rapporto amido/proteine. Alzi la mano chi lo sapeva (e chi la alza sta mentendo).
Lo scorzone è un tartufo invernale.
No, estivo. Infatti il suo vero nome è Tuber aestivum. Il tartufo raggiunge il grado massimo di «aromaticità» di un cibo (anche lo zafferano sta su in classifica).
Da cosa dipende il colore delle carni?
Quasi esclusivamente dalla quantità di mioglobina presente nei muscoli. Carni bianche: vitello, coniglio, agnello, capretto. Carni nere: cervo, capriolo, lepre, cinghiale. Carni rosse: bovini e suini, caprini e ovini adulti, equini e bufalini.
Se sto mangiando Beluga, cosa sto mangiando?
Caviale. Cioè uova di storione.
Il peperoncino influenza l’aromaticità del cibo.
No, la speziatura (che ne è comunque sorella, perché entrambe andranno sposate con l’intensità del vino).
Sono abituato a mangiare il lardo di Colonnata solo con i vini rossi, è un errore?
Teoricamente sì, perché grassezza e tendenza dolce si sposano meglio con qualche bianco, meglio se bollicinato, dalle spiccate proprietà sgrassanti. Ma non esistono postulati nelle tecniche di abbinamento. Non è una scienza esatta.
Quando devo ritenere armonico un abbinamento?
Tecnicamente, quando i poligoni della scheda grafica di abbinamento Ais si equivalgono per forma e dimensioni. Di fatto, quando cibo e vino si sposano perfettamente e alla fine nessuno dei due prevale.
Sono fidanzato con una ragazza che, a differenza di me, non beve vino. Devo lasciarla?
No, ma quando in enoteca ordina un succo di frutta trattala male.
Quando vedo i sommelier in tv, non capisco niente di quello che dicono.
Lo fanno apposta. Stanno praticando un’opera masturbatoria a mezzo televisivo, come Quentin Tarantino in Grindhouse.
Ogni volta che apro in casa un vino, o lo bevo tutto subito, o il giorno dopo è da buttare via. Cosa devo fare?
Comprare due cose: il Wine Saver e il Wine Stopper. Il primo è un tappo particolare di plastica venduto con relativa pompetta che permette di salvaguardare il vino (quando la bottiglia può essere richiusa senza rischi fa una sorta di «bip»). Il secondo è il tappo che usano nei bar per chiudere gli spumanti: evita che l’anidride carbonica evapori e il vino svanisca. Per il Wine Saver vai in enoteca, per il Wine Stopper basta l’ipermercato.
Mi piace il vino. Mi piace meno svegliarmi in condizioni pietose il giorno dopo.
Non sei il solo. Leggi il Decalogo anti-hangover a metà libro e, soprattutto, bevi di meno e meglio.
Secondo me duemila euro per diventare sommelier sono troppi.
Anche secondo me. Hai tre strade. Ti diplomi con un’associazione minore. Non ti diplomi e vivi (benissimo) da autodidatta. Ti diplomi con l’Ais tenendo un regime di vita da postdepressione americana.
Sto per dare l’esame ma non so se darlo perché non mi ricordo se il Lard d’Arnad è una Dop o una Igt.
Non dire sciocchezze. Non è da questi particolari che si giudica (e si boccia) un aspirante sommelier. Comunque è una Dop.
Quando il mio amico mi dà da bere il Brunello, a me non piace. Devo dirglielo?
Dipende da quanto lo conosci. Io ho smesso di parlare a qualcuno per molto meno.
Un vino caro devo farmelo piacere per forza?
È il più terribile degli errori. E poi non serve, tanto si vede quando un bevitore mente. Gli si allunga il naso di tannino.
Dei bianchi ciò che non mi piace è il tannino.
Sei ancora ubriaco? Il bianco non ha tannini. A meno che nella tua vita abbia bevuto solo Pico di Angiolino Maule.
Da cosa lo capisci se ti intendi o no di vino?
Dal fatto che, quando lo bevi, non ti poni più domande del genere.
Fascino, opulenza, crepuscolo (Amarone)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Amarone della Valpolicella Classico 1999 – Bertani
Musica di degustazione:
John Hiatt, Stolen Moments
Quando studi per diventare sommelier, ti dicono che l’Amarone è un vino nato per sbaglio. «Non è così. Più esattamente, l’Amarone era un incidente di percorso quasi inseguito dai vinificatori. Si chiamava scapà, scappato, sfuggito alle intenzioni. Un Recioto, il vino dolce della Valpolicella, nel quale il processo di fermentazione alcolica era interamente svolto. E il vino finale risultava secco, senza residuo zuccherino.»
A parlare è Sandro Sangiorgi. All’Amarone ha dedicato un libro intero, «non tanto per amore di quel vino ma per interesse nei confronti di tutta la Valpolicella». Nome storico della critica enologica italiana, Sangiorgi si occupa di enologia e gastronomia dal 1978. È stato, come sommelier professionista, uno dei relatori più apprezzati e richiesti. Ha collaborato a tutte le più importanti guide del settore, per poi abbandonarle, «perché la guida è un mezzo ormai anacronistico e superato, non più pedagogico come provava a essere quella di Veronelli negli anni Settanta. Ormai si limita a dare i voti». Voti di cui Sangiorgi discute non tanto il merito quanto la dinamica. La libertà intellettuale.
C’era anzitutto Sangiorgi, dietro la denuncia della commistione tra critica enogastronomica e aziende di vini, esplosa con il noto special di «Report» trasmesso il 24 settembre 2004 su Rai Tre.
Sangiorgi ha contribuito attivamente alla nascita di Arcigola e poi di Slow Food. A un certo punto, se ne è staccato. «È accaduto quando ho reputato che neppure Slow Food fosse pienamente sganciata, veramente libera dalle logiche di mercato e dal potere della pubblicità.» Nel 2000 ha fondato «Porthos», impagabile trimestrale che rifiuta le pubblicità e, quando può, stronca – con malcelato godimento – i vini-business e le etichette-americaniste. Si è avvicinato giocoforza ai Vini Veri, ai vini naturali, «non per moda ma perché, anzitutto, un vino dovrebbe essere sano e difendere la diversità, combattendo l’omologazione». «Porthos» ha duemila abbonati e molti più lettori, «vive del passaparola e ha i suoi collezionisti, i numeri esauriti sono richiestissimi».
L’Amarone è una delle sue molte ferite aperte. «La Valpolicella che ricordo con maggior piacere è quella del 1979, quando avevo diciassette anni e facevo visita al mito della zona, Giuseppe Quintarelli. I suoi vini erano, già allora, leggendari. Ricordo la polenta sul tagliere affettata col filo, una specie di soppressa offerta con il formaggio al mio arrivo. E ricordo i vini. I Valpolicella, nelle varie versioni, e i Recioto. Questi sono i vini storici della zona, non l’Amarone, che è venuto dopo. Quintarelli li chiamava Amaroni quando gli venivano secchi e leggeri, e Amandorlati – più rari – se erano profondi e carichi.»
Un altro mondo, «e so che è retorico dirlo. Ma è così: mi manca la Valpolicella delle piccole cose, quella che cercava di valorizzare il territorio, quella che diversificava la produzione. Quella in cui non c’era ancora il monopolio dell’Amarone. Oggi i contadini che si sono dati interamente alla produzione di Amarone hanno visto lievitare i loro conti in banca, grazie all’aumento vertiginoso del prezzo delle uve appassite e dei vini venduti in cisterna. Di certo hanno molta meno nostalgia di me. E i turisti stranieri, quelle stesse bottiglie di Quintarelli che io bevevo quasi per amicizia trent’anni fa, sono disposti a pagarle più di duecento euro».
Sangiorgi è uomo netto, che incute soggezione. I detrattori – e ne ha – lo definiscono la versione khomeinista di Carlin Petrini, incapace di mediare e fiero di dirigere una rivista di nicchia che rifiuta le pubblicità e, quando fa le degustazioni (rigorosamente alla cieca per non farsi influenzare dall’etichetta), scambia le bottiglie fornite dai produttori con bottiglie analoghe reperibili sul mercato «normale». «È un fenomeno con un nome preciso, echantillon pour les journalistes: bottiglie preparate ad arte per le degustazioni comparative, campioni di vino “migliorato” per far lievitare i voti dei giornalisti.»
Sull’Amarone non ha mezze misure: «È un vino troppo prodotto e troppo massificato, che risorgerà soltanto quando vivrà una crisi terribile e devastante. Il 2002 poteva essere l’anno buono. La Valpolicella era stata colpita da una grave tempesta. L’occasione buona per declassare il vino, per non produrre l’Amarone, per ripartire da capo. E invece i fruttai erano comunque pieni, il vino è stato prodotto ugualmente. Non voglio generalizzare, ma i veronesi sono storicamente uomini che hanno sempre prodotto più vino di quanto potevano. Non hanno una tradizione contadina, sono sempre stati più venditori. Come fanno a produrre di più? Usano uve esogene, fatte arrivare cioè da zone non vocate, e usano massicciamente uve provenienti dalla cosiddetta zona allargata. Quelle di pianura o comunque di zone meno nobili. In alcune parti si usa ancora il sistema di allevamento a pergola trentina, con una produzione molto elevata. La raccolta dell’uva è indiscriminata, non ci si preoccupa del livello qualitativo ma solo della resa quantitativa. La viticoltura veronese non è mai stata selettiva, la richiesta di Amarone è sempre maggiore. E i magazzini traboccano di uva di basso livello».
Un tempo non era così, e non occorre risalire al VI secolo, quando Cassiodoro, ministro del re ostrogoto Teodorico, tesseva le lodi dell’Acinatico, l’attuale Recioto della Valpolicella da cui è nato l’Amarone. Oppure ai tempi di Virgilio, grande estimatore del vino Retico, l’attuale Valpolicella, per lui secondo solo al mitico Falerno.
Basta ripensare al secolo scorso, «quando l’Amarone era una produzione secondaria, anche se presente. Anzitutto c’era il Valpolicella, da uve rosse fresche, e il Recioto, da uve appassite. Con il Novecento diventa di dominio pubblico l’attività dei lieviti sugli zuccheri, quindi si facilita anche la tecnica di vinificazione dell’appassimento, alla base dell’Amarone. Nei primi anni Venti i più lodati erano quelli di Bolla e Bertani. Il primo a commercializzarlo con questo nome è stato proprio Bolla. Fino agli anni Sessanta l’Amarone conteneva comunque un residuo zuccherino, pur leggero. Era molto meno carico e concentrato della produzione attuale, più bevibile e abbinabile con il cibo. Dagli anni Settanta in poi si assiste a una costante stabilizzazione dell’Amarone. Oggi sembra impossibile crederci, ma nel 1991 era un prodotto che sembrava non incontrare i favori del pubblico. Curavo la guida Vini d’Italia, e riuscii a farmi dire da molti produttori che parte dell’Amarone non era usata in purezza, ma come taglio migliorativo per dare corpo ai Valpolicella. Era ancora in una posizione di sostanziale declassamento. Poi, dalla metà degli anni Novanta, è esplosa la moda dell’Amarone».
Zone che una volta non producevano Amarone oggi ne producono in abbondanza. Il vino Valpolicella è diventato una «ricaduta», prodotto con le (poche) uve scartate per l’Amarone. Né serve a migliorarlo la tecnica del ripasso, l’unione del vino-base per il Valpolicella con le vinacce esauste (e se si chiamano così ci sarà un motivo) dell’Amarone, con l’intenzione di avere un surplus di corpo, alcol e colore. «L’Amarone ha ormai il monopolio sulla Valpolicella. Prima si sceglieva solo una piccola parte di uve per l’appassimento, ora costituiscono il 90%. Agli altri vini non resta niente, ed è un ulteriore paradosso, perché l’Amarone non rappresenta un territorio ma una tecnica produttiva.» È accaduto qualcosa di simile in Valtellina, con lo Sfursat, anch’esso da uve parzialmente appassite, che ha finito con l’offuscare il «vero» vino della zona, il Valtellina Superiore.
Quando si parla di Valpolicella, si allude alle valli parallele che si sviluppano fino alle parti più meridionali dell’altopiano della Lessinia, a nord-ovest di Verona. Valpolicella deriva da una voce latina che vuol dire «valle dalle molte cantine». Formazioni calcaree, resti di fossili di piante e animali, affioramenti di origine vulcanica e zone di detriti fluviali. Le aree più vocate sono quelle di media e bassa collina, aiutate da un naturale ricircolo d’aria che permette l’appassimento delle uve. «È questa la tecnica produttiva che caratterizza l’Amarone, che lo ha reso unico, anche se ora in più parti del mondo stanno provando a fare vini secchi da uve appassite internazionali come merlot e cabernet sauvignon.» Oggi l’Amarone è vino da ricchi, in origine no. «Era il vino destinato alla servitù, quasi un sottoprodotto.»
Le uve sono raccolte a diversi gradi di maturità, ognuno ha la sua filosofia di produzione. «Poi avviene l’appassimento, e un tempo tutto o quasi dipendeva dal momento in cui lo si interrompeva per dare il via alla fermentazione alcolica. L’uva era appassita sulle arele, grandi cassettoni ricoperti di canne, posti nei granai delle fattorie in collina dove c’era più aerazione. Oggi sono stati costruiti apposta dei capannoni, più anonimi, con temperatura e umidità controllate. L’uva è riposta in cassette di plastica. Si è perso il fascino ma si è guadagnato in pulizia, in igiene. E, ovviamente, nella resa, perché si è praticamente certi della riuscita finale.»
Procedere all’appassimento delle uve non è più una tecnica particolarmente difficoltosa. Molti capannoni hanno ventilazione e umidità controllate, tecnica e tecnologia consentono a molti produttori parvenu di spacciarsi per esperti winemakers. Anche in questo, Sangiorgi è netto. «L’Amarone attraversa una crisi d’identità e il primo motivo è che la richiesta del mercato ha ampiamente superato le potenzialità produttive del territorio. Ci si doveva fermare, non lo si è fatto. Così come si è finito con l’usare ovunque la barrique non come ambiente di crescita ma come aggregante di colori e aromatizzante, al tempo stesso in Valpolicella ci si è affidati alla certezza tecnologica dell’appassimento per garantire un’alta resa quantitativa e soddisfare il mercato. Quando un vino rinuncia a selezionare le proprie uve, decreta la propria morte. Perlomeno a livello qualitativo.»
L’Amarone rientra nella Doc Valpolicella. È prodotto in diciannove comuni in provincia di Verona, con una sottozona particolarmente vocata (Valpantena). L’affinamento minimo è venticinque mesi, per la Riserva quarantotto. L’appassimento varia dai trenta ai novanta giorni, con conseguente concentrazione di zuccheri negli acini e quindi di alcol nel vino (minimo 14%). Si usa commercializzarlo almeno dopo quattro anni di invecchiamento. Ha grande propensione all’invecchiamento, caratteristiche organolettiche specifiche e gusto inconfondibile. O lo ami, o lo odi.
Ricordo, in un notturno alcolico passato a Bagno di Romagna per il premio Sporterme, la frase che Gianni Mura rivolse – con la consueta nettezza affettuosa – a Giovanni Galeone: «Tu sei bravo, Giovanni, ma hai sempre avuto due limiti. Non hai mai capito nulla di portieri e di Amarone. Sono proprio due cose che non riesci a comprendere».
L’Amarone è effettivamente un vino originale, giocoforza estremo. C’è chi lo adora, chi dice di adorarlo perché il solo affermarlo garantisce una sorta di status economico opulento, e chi lo ritiene un prodotto finto, troppo tecnologico e per nulla contadino (immagino Galeone sia tra questi). Tempo fa ho bevuto un Brolo delle Giare 2000, sottozona Valpantena, sedici gradi e mezzo: un cazzotto, ma un mio amico lo ha trovato irresistibile.
Le uve storiche per produrre l’Amarone sono corvina, rondinella e molinara. La corvina dà anzitutto colore, ma anche tannini e spiccati aromi fruttati. La rondinella si adatta bene a qualsiasi terreno, resiste alla siccità e ben si presta all’appassimento. La molinara, molto resistente alle muffe grazie al grappolo spargolo, per alcuni apporta tannini e freschezza, per altri è controproducente. Il revival dei vitigni autoctoni ha portato alla rivalutazione di varietà indigene come il corvinone, l’oseleta, la dindarella e la forselina.
Parallelamente, per incentivare il trend dei vini corposi e concentrati, si è assistito anche qui all’utilizzo di vitigni internazionali «migliorativi». A oggi è possibile utilizzare fino al 15% di cabernet sauvignon. «Le uve non indigene non hanno migliorato l’Amarone, bensì appiattito le differenze. Certo, corvina e corvinone non hanno il patrimonio aromatico dei vitigni bordolesi, ma bastano e avanzano alla Valpolicella per fare i suoi vini. O, per meglio dire, basterebbero.»
Il Veneto è terra di molti Igt con vini internazionali. Penso al Bradisismo di Inama, una grossa azienda di San Bonifacio in provincia di Verona. Cabernet sauvignon, carmenère, merlot. Lo bevvi quattro anni fa e mi esaltò. L’ho ribevuto di recente (l’annata 2003, «cinque grappoli» nella guida Duemilavini) e mi ha comunicato poco. Chissà, forse dipende dalla mia fase gialla, dal mio passaggio dal vino-sveltina al vino-amplesso (fra poco ve ne parlerò). Tutto evolve e involve: il vino, il gusto. L’unica cosa immutabile, spesso, sono i voti.
L’Amarone sconta anche la mancanza di un leader, di una guida, di un modello di riferimento. «Di quale Amarone si parla? La viticoltura veronese è rimasta vittima di se stessa, ha sfruttato il periodo delle vacche grasse degli anni Novanta ma ha avuto uno slancio imprenditoriale miope. Si è limitata ad assecondare le voglie di mercato. E oggi ha dimenticato la differenza tra un vino “grosso” e un “grande” vino.»
Quando sono stato alla degustazione di Dievole, a Vagliagli in provincia di Siena, mi ha colpito come i produttori stessi, parlando di vini non abbinabili col cibo perché troppo prevaricanti, citassero sempre e solo l’Amarone. «Mi ripeto, il problema è di quale Amarone si parla. Quello tradizionale, alla Bertani, o di certi piccoli produttori coerenti, si sposa benissimo con alcuni piatti. Penso ai formaggi stagionati, ma anche alle carni piccanti. Se invece hai di fronte il solito Amarone ipermuscolato, vai incontro allo stesso problema che hai quando bevi un Supertuscans palestrato: l’abbinamento è impossibile. Ed è un ulteriore motivo di dispiacere, perché l’Amarone è un vino più “facile” di un Barolo. È più sbilanciato verso le morbidezze, ha una componente tannica più addomesticata, profumi più accattivanti.»
Il quadro prospettato da Sangiorgi è volutamente prossimo all’Apocalisse. La Valpolicella diviene una zona che ha ripudiato le proprie tradizioni, incapace di studiare una (oculata) strategia comune, vittima della propria avidità e di un mercato disposto a spendere cifre impensabili per l’Amarone. «Per quanto la situazione sia davvero sconsolante, i prezzi continuano a lievitare. Non si sta mai sotto i venticinque-trenta euro, cifre che non hanno nessuna attinenza con il loro reale potenziale. L’Amarone è forse il vino più inutilmente caro d’Italia.»
Verrebbe da chiedere se esistano delle cure. Quale possa essere il rimedio. Forse la limitazione delle uve alloctone, un disciplinare che limiti la zona di produzione dell’Amarone. Sicuramente una filosofia opposta a quella attuale, che miri alla qualità e non alla quantità. Non pochi ripongono speranze sul passaggio dell’Amarone da Doc a Docg. Non Sangiorgi. «La “garantita” ha parzialmente aiutato il Barolo, che prima produceva dieci milioni di bottiglie, quando il suo potenziale massimo era di quattro milioni. L’Amarone è un caso diverso. Non è un vino di territorio, ma una tecnica produttiva, e come tale può aggirare qualsiasi ostacolo e disciplinare. Basta saper appassire ed essere scaltri. E poi la Docg non è certo sinonimo di qualità. Bardolino e Soave sono due “garantite”, entrambe veronesi ed entrambe in crisi.»
Quale, allora, la salvezza? «Una crisi totale, che permetta di ripartire daccapo, o che comunque stimoli una riflessione vera. Il contadino non vede o non vuol vedere il problema, perché a lui va benissimo vendere a prezzi esorbitanti le proprie uve. Non gli interessa il prodotto finale. In questo modo, però, l’Amarone muore. Occorre un anno zero.»
E il miglior Amarone, quello perfetto, quello dei sogni? «Dovrebbe essere duttile nell’accompagnare il cibo, a dispetto della alcolicità e corposità esuberanti. Dovrebbe trovare la sua nobiltà in una rischiosa ma affascinante armonia degli opposti: far convivere, cioè, l’aspetto crepuscolare e decadente, eredità dell’appassimento, e una struttura miracolosamente dinamica.»
Il vino è caro (o forse no)
Fai quattrini, onestamente, se puoi.
E se no, come ti capita.
ORAZIO
La cosa più facile che si può dire del vino? Che è buono, per chi lo ama. Che è caro, per chi lo ama e per chi no.
Quando si affronta l’argomento prezzo, le variabili diventano molte. I diffidenti, «quelli che amano la birra» o addirittura gli astemi certificano che una bottiglia di vino non potrà mai valere venti euro (figuriamoci cinquanta, o cento, o più). Il loro scetticismo, invero non esattamente campato in aria, è condito dalla sufficienza con cui si guarda il collezionista di francobolli disposto a spendere cifre improponibili per il miraggio di un Gronchi rosa.
Anche il vino ha i suoi Gronchi rosa. Vini-miraggio, vinilusso, che «devono» costare tanto e «devono» essere buoni. L’enologia ha senz’altro i suoi Gucci, i suoi Valentino, i suoi Dolce & Gabbana. Vinificatori bravissimi, enologi certo straordinari, che si sono attestati da anni su un livello così alto da potersi permettere di tutto: «tre bicchieri» e «cinque grappoli» come se grandinasse, premi in abbondanza, prezzi da capogiro.
Per esempio il Brunello Soldera costa centosettanta euro. Tanti. Comprandolo, non paghi solo il vino. Paghi la fama del vinificatore, la sua aria burbera, la mitologia dell’enologo duro e puro che, per far stare bene le viti, ha creato nella sua reggia una sorta di microclima – costantemente monitorato dall’Università di Siena – affinché la flora e la fauna attigua influenzino e incentivino la vigna a dare il meglio di sé. Non si pagherà soltanto la complessità aromatica di quel vino, ma anche l’ideologia e la stravaganza concettuale che ne sono alla base. Si paga il prodotto, ma anche l’idea del prodotto. E, sì, anche le leggende metropolitane fanno lievitare i prezzi.
In un certo senso è come per la pittura: gli esperti – o i finti tali col portafoglio gonfio – reputeranno giustificati i trentamila euro per l’artista avanguardista di cui faranno bella mostra nel loro salotto, ma a te quel quadro sembrerà solo lo scarabocchio di un bambino frainteso per Picasso.
Può accadere anche con il vino. Posso essere certo che un Solaia 2003 di Antinori giustificherà al suo assaggio i novantotto euro che mi è costato? Oppure ci sarà – e ci sarà – chi ti farà capire che con quella cifra potevi comprarci i cofanetti delle prime due serie di Dr House o una stecca di Marlboro (e ti sarebbe pure avanzato qualcosa)?
Posso dire che le mie bottiglie più importanti, quelle da trecento o cinquecento euro, valgano davvero quella cifra? Sono davvero sincero se affermo che quel Syrah del 1995 della Côte Rôtie, pagato all’asta trecento euro con alcuni amici (ne valeva il doppio), giustificasse alla degustazione quella cifra così indubbiamente esosa?
Il prezzo non è per forza indice di qualità. O, meglio, lo è se hai le chiavi per interpretare un vino. Altrimenti sono soldi buttati via. Un inutile dispendio economico, uno sfoggio smargiasso di prosopopea. Il prezzo è indice del lavoro che c’è dietro quella bottiglia. Del tempo che si è dovuto spendere, e attendere, per arrivare al giorno in cui era lecito berla. Il prezzo è direttamente proporzionale al peso del nome del vitigno e della cantina. Del terroir più o meno vocato. Della nobiltà e dell’età delle vigne. Del plauso della critica. Della legge della domanda e dell’offerta. Della rarità di quella bottiglia, di quella vendemmia. Eccetera eccetera.
A costo di apparire impopolare, non appoggio la tesi per la quale un vino è caro in ogni caso. Il vino, in via teorica ma anche pratica, è uno dei prodotti che più hanno il diritto di «tirarsela».
Il vino è qualcosa di difficilissimo da creare. Dal momento in cui pianti la vigna fino al giorno in cui ritieni concluso l’affinamento in bottiglia e lo metti in commercio. A me scandalizza – se proprio sono in vena di scandalizzarmi – un paio di jeans a duecento euro, ma – se li vale, se ha il giusto cursus honorum – non mi offendo se vedo una bottiglia con la stessa quotazione delle décolleté di Roberto Cavalli.
Il vino è fatica e incoscienza. Variabili impazzite, rischi continui, camminare sul filo su e giù sapendo che si potrà cadere da un momento all’altro. Basta un niente, una grandine, una pioggia di troppo, e il lavoro di un anno va in frantumi. Nessun lavoro è così soggetto agli interventi esterni, al ghiribizzo di colui che i vinificatori chiamano «il capo-condomino del piano di sopra». Andatelo a chiedere ai langaroli cosa hanno provato quando hanno capito che il raccolto 2002 sarebbe stato inesorabilmente svilito da un rovescio atmosferico.
La vigna, pianta simbionte, somiglia all’uomo che la cura, anche nella sua fragilità. Può ammalarsi da un momento all’altro, e per curarsi da sola impiegherà anni. Anni di raccolti – e rendiconti – perduti. La vendemmia, che va fatta spesso a mano perché i terreni sono impervi per le macchine e perché l’uva «chiede» di essere raccolta a mano, è un’operazione delicatissima.
Arrivati in cantina, ogni giorno può essere fatale. Basta una macerazione incontrollata, la fermentazione troppo tumultuosa, un taglio frettoloso e molto sarà compromesso: colore, profumi, gusto, struttura. Il legno avrà le sue controindicazioni, come l’acciaio o il vetro cementificato. Un giorno in più di invecchiamento in barrique potrebbe farmi passare dal livello di grande vinificatore a vanigliatore da strapazzo.
I miei assaggi continui potrebbero essere soggettivi, ciò che per me è «pronto» potrebbe essere «vecchio» per il consumatore. Ciò che per me è buono, potrebbe rivelarsi tale solo per me. E perfino quando credo di avere finito, quando penso di avere adempiuto al mio complicatissimo lavoro, potrebbe tradirmi la banalità di un tappo sbagliato, che andrà a contaminarmi inesorabilmente anni di impegno e intuizioni.
È giusto che un vino costi, perché un vino è vita e, di fatto, più dolore che piacere (per chi lo fa, almeno). In un mondo perfetto il consumatore finale comprerebbe il vino direttamente da chi lo fa, abbattendo intermediari e – eccolo, il problema – gli odiosi ricarichi.
Divenendo sommelier, ho avuto chiaro che il problema del prezzo dei vini non è tanto il costo di base, ma il ricarico che subisce in sede di enoteche o (peggio) ristoranti.
Nei libri Ais di primo livello (libri ottimi, mi piace ripeterlo) ho trovato la tabellina dei ricarichi. Non è una legge ferrea, ma è un’indicazione di base che viene data ai ristoranti in merito al prezzo finale da scrivere sulla loro carta dei vini.
Sono cifre che fanno paura. I vini sotto i cinque euro devono avere un ricarico del 150% – 200%. Quelli dai cinque a dieci euro un ricarico del 120% – 150%. Da dieci a venti euro si passa a un 100% -120%. Da venti a cinquanta euro il ricarico si attesta all’80% – 100%. I vini oltre i cinquanta euro dovrebbero subire un aumento del 50% – 80%.
Tenete conto che i ristoratori, più per indole che per spirito di sopravvivenza, arrotondano sempre per eccesso.
La tabella dice che a me, cliente, va «bene» se pago un vino il doppio di quanto in realtà vale. In un’enoteca il ricarico medio è del 40%, in un ristorante supera il 100%. Questa differenza è giustificata soltanto dal fatto che, in un’enoteca, il vino lo compri e te lo bevi a casa. Al ristorante, ti fanno pagare la cerimonia dell’apertura e l’atto – faticosissimo, ne converrete – della stappatura della bottiglia. Credo che nemmeno gli idraulici facciano pagare così tanto la manodopera, nella quale il ristoratore (più o meno munito di sommelier) fa rientrare ampiamente la «fatica» del gestire la cantina e i rischi di avere troppe rimanenze.
La tabella, si nota subito, applica un ricarico con percentuale variabile e inversamente proporzionale al prezzo di acquisto. In pratica, meno un vino costa, più lo posso rincarare (e viceversa). Questo serve a due cose: a guadagnarci sempre (perché quasi nessuno può permettersi vini sopra i cinquanta euro) e a incentivare i dubbiosi a sfruttare il prezzo «vantaggioso» di una bottiglia pregiata. Ricaricare troppo i vini di per sé già cari, comporterebbe poi anche il rischio di non darli mai via, di vederseli immobili e invendibili nella cantina: tutto sommato, far pagare centoventi euro una bottiglia che ne costa ottanta, invece di un altisonante centocinquanta, è uno sforzo morale che anche un ristoratore medio può sopportare.
La storia dei ricarichi è una delle cose più fastidiose del mondo del vino. I ristoratori, come i benzinai, fanno «cartello» e sono davvero in pochi quelli che applicano ricarichi onesti.
Un po’ per divertimento e un po’ per rabbia, negli anni ho elaborato un «Decalogo del Bevitore Informato» (Dbi), ovvero qualche regola base da seguire quando si va al ristorante. Con una premessa: che l’unico modo per non pagare troppo un vino è comprarlo alla fonte (cosa raramente possibile) o in un’enoteca onesta (quasi sempre un ossimoro).
Un vino, al ristorante, non andrebbe mai ordinato, perché si è certi di buttare via i soldi. Però, poiché ci piace uscire a cena con la nostra compagna o gli amici (raramente entrambi sono presenti in contemporanea), e poiché non siamo malati di astemia, occorre un abbecedario per salvare il salvabile, un ricettario del meno peggio.
Il mio è questo.
Uno: non arrivare mai ignudi di competenza economica in un ristorante. Se non si sa nulla dei prezzi base dei vini, si è carne da macello dei ristoranti. Le guide non sono infallibili, come conferma il fatto che guida non è che l’anagramma di Giuda. «Report» ha ampiamente smascherato le bassezze economiche che stanno spesso dietro la formulazione delle «Bibbie» enologiche. Di frequente i critici sono invitati speciali, enoici nel senso di non eroici, attratti da ciò che i francesi chiamano flatteur: ovvero i marker accattivanti del vino, gli specchietti per le allodole, come la morbidezza e la concentrazione. Nessuna guida è perfetta e ognuno ha le sue preferite. È così anche per quelle dei ristoranti (le ho tutte e il mio mix perfetto è Slow Food, Gambero Rosso e Gambero Rozzo, con le altre dietro). Il mio consiglio in merito ai vini è di avere due guide a portata di mano. Duemilavini dell’Ais, che contempla le cantine migliori e i prezzi che i vini dovrebbero avere. Come seconda io dico Veronelli, l’unica a essere salvata da «Report» (quando, però, Luigi era vivo). La Guida dei Vini del Gambero Rosso ce l’ho, ma mi convince meno. Utile, anche qui, il Gambero Rozzo, incentrata sui vini che costano poco ma valgono molto. Le recensioni delle riviste americane le uso per accenderci il fuoco, facendo tesoro dell’insegnamento cultural-piromane del gourmet Pepe Carvalho.
Due: un ristorante può avere o non avere un sommelier in sala. Il sommelier, quando in servizio, è pagato per incutere timore e far sentire il cliente in totale balia degli eventi, zattera in mezzo al vino, analfabeta che meriterà la salvezza solo se benedetto dallo scibile dell’uomo vestito in blu col cucchiaio al collo. Consiglio: fatevi influenzare, perché lui nove volte su dieci ne sa più di voi, ma non fatevi influenzare troppo. Lasciatevi guidare dalla vostra empatia, dal quinto senso e mezzo che vi dice se quel sommelier è simpatico o no, affidabile o no, bluff o no. Prendete il meglio e scartate il peggio dalle sue parole. E, alla fine, scegliete con la vostra testa (e il vostro portafogli).
Tre: più che una regola, questa è invece una postilla alla precedente: se un ristorante ha un sommelier, quel sommelier va pagato. E quindi la carta dei vini avrà ricarichi ancora più sostenuti. Tenetelo a mente. Come dovete tenere a mente un altro aspetto: se la carta dei vini che state leggendo ha prezzi inaccettabili, e quel ristorante non ha neppure un sommelier in sala, restate in trincea e vivacchiate di contropiede. Fategli scacco matto: ordinate solo acqua (per quanto la cosa vi inorridisca, va fatto; reputatela obiezione di coscienza), non lasciate la mancia e non tornateci mai più. Non solo: fategli una pubblicità terribile, con amici e conoscenti.
Quattro: la carta dei vini non è un orpello inutile: ci deve essere. Chiedetela sempre. Se non è disponibile, o siete in uno di quei pochi avamposti di luoghi antichi e meravigliosi dove è ancora tutto incentrato sulla tradizione orale, o avete sbagliato ristorante.
Cinque: non ordinate mai il vino della casa. Soprattutto se sfuso e alla spina. Okay, costa di meno. Okay, siamo stati tutti adolescenti e al tempo ci sembrava quasi buono, o comunque ci faceva sentire «grandi» e «virili» (ai miei tempi c’era il «mito» del Galestro Capsula Viola, se proprio eri in vena di spese folli). Il vino della casa è quasi sempre un hezbollah dello stomaco, un demolitore di fegati, fumo negli occhi per la bilirubina (il marker dell’alcol nelle analisi del sangue). Non si sa mai cosa ci sia dentro, come e con cosa sia stato fatto. Più un vino è scadente, più la mattina dopo avrete un mal di testa pauroso e lo stomaco come se per tutta la notte vi avesse camminato sopra un esercito di canguri con le scarpe chiodate.
Sei: l’educazione, sempre. La bischeraggine, mai. Un cameriere (che spesso è quello con meno colpe) è lì per aiutarvi, e più il ristorante sarà «in» più voi non dovrete salvargli nulla. Nessuna pietà, siate pienamente esigenti. Alla fine il conto sarà comunque salato, quindi – almeno – godetevela appieno e senza rimpianti. Che nulla vada sprecato. E che nulla sia sbagliato per colpa vostra. Un esempio valga per tutti. Io la chiamo «Legge Glacette». La glacette, per intendersi, è quell’affare cilindrico che andrebbe tenuto in freezer e usato per mantenere bassa la temperatura dei bianchi. È la variante plebea del cestello del ghiaccio. Sono entrambi requisiti fondamentali quando si ordina e beve un vino bianco. Un bianco «normale» servito sopra i dodici gradi di temperatura è imbevibile e inaccettabile. Dovrete esigere un bianco fresco al suo arrivo sulla tavola; se non lo è non accettatelo. Una volta sul tavolo, anche se originariamente fresco, si scalderà in fretta: il cestello, o la glacette, sono fondamentali. È un servizio a voi dovuto, non una concessione che vi farà il ristoratore.
Sette: il vino vi deve essere stappato davanti, non di nascosto in cucina. Fregatevene del cerimoniale, della filastrocca per la quale «l’etichetta va mostrata a sinistra e il vino servito a destra»: è scenografia per turisti, prossemica che non aggiunge nulla. E siate solidali con i poveri camerieri che non riusciranno ad aprire subito un vino: è un’operazione non sempre facile, ho visto gente slogarsi l’ulna per colpa del tappo «suppletivo» che aveva fino a qualche tempo fa il Lancers. Badate al sodo: il vino, al suo arrivo da voi, deve essere chiuso e sigillato. Che si apra, che riviva davanti a voi. Non lontano dal vostro sguardo.
Otto: quando vi dicono di degustarlo, non fate troppo i fighi. Vi stanno solo chiedendo se sa o non sa di tappo, non di recensirlo davanti all’intero ristorante. Evitate di sparare cose tipo «avverto sentori di idrocarburi», al massimo buttate là un «è ancora chiuso, sa ancora di caffè», che va sempre bene perché un rosso appena appena invecchiato è sempre «chiuso» poco dopo la stappatura. E dite che sa di tappo solo se ne siete certi: il vino che sa di tappo è l’unico caso in cui non vi fanno pagare il vino, e quindi prima di darvi ragione il ristorante interpellerà almeno otto laboratori, e verosimilmente chiederà che venga messa agli atti la gascromatografia.
Nove: se siete turisti, se siete lontani da casa, immergetevi nel gusto del luogo e provate i vini (imbottigliati) locali. Un toscano che va in Friuli e chiede un Chianti Classico è un’immagine di rara mestizia, come il turista che all’estero mangia solo nei ristoranti italiani. I vini raccontano il carattere della loro gente, nulla di meglio che provarli sul posto. C’è poi un altro motivo: i ristoratori detestano i turisti che, quando ordinano, dimostrano di diffidare dei prodotti locali. Alla fine, in sede di conto, state certi che ve la faranno pagare. E, scusatemi, secondo me qui hanno ragione loro.
Dieci: godetevela, sempre. Anche se alla fine il vostro portafogli risulterà troppo, decisamente troppo, alleggerito. Una volta varcata la soglia del ristorante, nessun rimpianto. Non fate prigionieri. E, sia chiaro, non fate avanzare una sola stilla di vino. È un atto immorale. Mancanza di rispetto nei confronti di chi, per quel vino, ha sfidato il cielo e compreso la terra.
Il grande sottovalutato
(Lambrusco)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Reggiano Lambrusco Rosso Il Campanone – Lombardini
Musica di degustazione:
Bruce Springsteen, Live in Dublin
Certo, peccando in banalità, e ancor peggio in abuso di ricordi personali, la prima persona che mi è venuta in mente per parlare di Lambrusco, il vino più sottovalutato del mondo, è stato Luciano Ligabue (sì, Lambrusco coltelli rose & pop corn, sottovalutato pure lui).
Ho mandato una mail a Luciano, che è uomo cordiale. Le sue lettere sono sempre simpatiche e quasi sempre «a punti». È solito elencare tre o quattro motivi che spieghino perché ha deciso di fare o non fare una cosa. Nello specifico, con mio dispiacere, non fare. Perché?
a) Non voglio passare per quello che sa tutto di tutto.
b) Ultimamente escono troppi libri che mi vedono protagonista, l’accusa di «prezzemolino» è dietro l’angolo.
c) Mi sto avvicinando al vino, nel senso che lo sto proprio studiando, ma del Lambrusco non saprei cosa dire: da quando sono nato, mi limito a berlo soltanto.
Nello specifico, mi interessa il punto «c», perché – forse involontariamente – il buon Luciano ha raccontato l’essenza del Lambrusco: non si commenta, si beve. Non si studia: ci si lascia fare compagnia.
Fin dal giorno della nascita, è «il» vino degli emiliani, di chi è nato tra Modena e Reggio Emilia. È lo Champagne proletario, lo «spumante rosso» che indigna toscani e piemontesi, la Red Cola che incuriosisce l’estero.
Il Lambrusco è il whisky povero dei cowboy impigliati tra la via Emilia e il West.
La penso come Paolo Massobrio, che anche in tempi non sospetti ne era esegeta (del vitigno, non di Ligabue): se un giorno si dovesse decidere di salvare dieci vini, dieci soltanto, dall’estinzione, uno di questi dovrebbe essere il Lambrusco. E pazienza se gli espertoni inorridirebbero per la decisione di salvare un vino che costa meno di una pizza Margherita.
Un vino racconta una storia, un paese, un popolo. Il Lambrusco è Novecento di Bertolucci, carta d’identità frizzante di una terra che lì si specchia e si ritrova. I Supertuscans sono tecnicamente e indiscutibilmente più buoni, più ricchi, più gratificanti, più cari e più alla moda: ma, spesso, non raccontano nulla.
Al contrario, il Lambrusco ha storia antica. A partire dal nome. I latini chiamavano Vitis labrusca tutte quelle piante selvatiche che crescevano ai margini dei campi coltivati, libere e sgraziate. Labrusca deriva da labrum (margine, bordo) e ruscum (pianta spontanea). Riferendosi principalmente al terreno emiliano, ne scrivevano già Virgilio nella sua quinta Bucolica, Varrone nel De rustica e Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia.
L’origine del vino che conosciamo oggi dovrebbe essere avvenuta a Modena, che forse non ne è la madre effettiva ma certo ne è patria. Alla fine dell’Ottocento, nel territorio modenese, furono classificate cinquantasei varietà di uve rosse e ventisette bianche. Oggi, secondo il censimento del professor Attilio Scienza dell’Università di Milano, ne sono sopravvissute soltanto otto: grasparossa, di Sorbara, salamino, marani, maestri, montericco, pjcol ross e oliva.
A garantire la produzione del Lambrusco, come per lo Champagne, furono due scoperte del Settecento: quella del sughero e quella delle bottiglie in vetro resistente, capaci di sopportare la pressione esercitata dall’anidride carbonica durante la rifermentazione. La codificazione del Metodo Charmat in autoclave, e della gestione della rifermentazione in bottiglia (Metodo Classico), indicò la strada ai produttori.
È il vino più bevuto del mondo, anche se è prodotto soltanto in tre città: Modena, Reggio Emilia e Mantova. Tanto venduto quanto sconosciuto, al punto che il consumatore medio non ne conosce le differenze, pensando a un generico Lambrusco «comune».
Per quanto la cosa possa apparire eretica, per farmelo raccontare sono andato a Quistello, terra di confine in provincia di Mantova ma a pochi passi dalla bassa modenese. Lombardia che guarda all’Emilia e che, non a caso, ne condivide terroir e vitigno principe.
Mantova è l’eccezione lombarda, fazzoletto di terra che nulla c’entra con Franciacorta, Valtellina e Oltrepò Pavese.
Per Massobrio nasce qui il miglior Lambrusco d’Italia. Nessuna azienda griffata, nessun dépliant accattivante: una cantina sociale a due passi dalla stazione di Quistello, spazi aperti e gestione familiare, un tempo avremmo scritto operaia. Qui il vino si vende anche e soprattutto sfuso, se lo acquisti così ti danno un foglietto d’istruzioni su quando imbottigliarlo, rispettando le fasi lunari.
La Cantina Sociale Cooperativa di Quistello è nata nel 1928. Vende un milione di bottiglie all’anno. Trecentomila ettari di superficie vitata, duecentocinquantamila di uve lambrusco e cinquantamila di bianche (trebbiano, chardonnay). Sono stati i primi a ricevere i «due bicchieri» dal Gambero Rosso. Il loro vino di punta, il Gran Rosso del Vicariato, costa tre euro.
A conferma della riscoperta del Lambrusco, ad aprile il bimestrale «Spirito diVino» ha dedicato la copertina allo «Champagne rosso». Nella degustazione delle ventiquattro etichette scelte (unicamente modenesi e reggiane), i voti sono andati da settantasei a ottantasette. Possono valere poco o tanto, ma sembrano lasciare intendere una riscoperta qualitativa del Lambrusco.
Non solo. Ogni rivista di vino ha la sua peculiarità. «Il mio vino» ha la valutazione della solforosa e il «carciofino», «Porthos» ha la nettezza di giudizio e l’aurea qualità stilistica. «Spirito diVino» ha il Borsino Extravagante, una classifica che mira a scoprire le etichette con il migliore rapporto qualità/prezzo, ottenuto dividendo il prezzo della bottiglia per il punteggio ottenuto nella degustazione. Il risultato è «il costo al punto» in centesimi: più è basso, migliore è il rapporto qualità/prezzo. «E i risultati» scrive la rivista «dimostrano che non sempre i vini meno costosi sono i meno buoni.»
Il Lambrusco è il miglior vino al mondo come rapporto qualità/prezzo. Il «costo al punto» di etichette encomiabili come Rinaldini, Lombardini, Cantina di Gualtieri, Cantina Arceto, Camillo Donati, Medici Ermete, Cavicchioli, Ceci, Cantina Puianello, Cleto Chiarli, Ca’ de Noci e Francesco Bellei va dai cinque ai tredici centesimi di euro a punto (per un Barbaresco Gaya non bastano due euro a punto).
Certo, non sono vini paragonabili, ma qualcosa vorrà dire. «È il cane che si morde la coda» mi spiega il presidente della Cantina Sociale di Quistello, Luciano Bulgarelli, «quello del prezzo basso. Negli anni Ottanta c’è stata una produzione selvaggia di Lambrusco, di cui ancora paghiamo le conseguenze. La grande distribuzione infarciva gli scaffali dei supermercati con vini a basso costo ma anche a bassa qualità. La nomea del Lambrusco è stata incrinata lì.»
Qualcosa sta cambiando. Lo dice il rinnovato interesse della critica, perfino il mercato europeo. Gli Stati Uniti hanno sempre acquistato Lambrusco, anche solo come concessione agli emigranti italiani. Diverso era il caso del Giappone, dove, secondo Yoshiyuki Kawazu, massimo esperto di vini italiani in Giappone, fino a qualche anno fa il Lambrusco era ritenuto anche da loro «un rosso economico ma di bassa qualità, un po’ grezzo, che difficilmente si adattava alla delicata cucina giapponese». Dalla fine degli anni Novanta, però, «grazie all’introduzione di prodotti di qualità più elevata, al boom di spumanti e vini frizzanti e alla conseguente disponibilità sul mercato di una maggiore scelta, i consumi di Lambrusco sono notevolmente aumentati. Complice soprattutto l’unicità di essere un vino rosso frizzante, caratteristica molto apprezzata nel Sol Levante. Vi sono anche rossi piemontesi e lombardi con questa caratteristica, ma il Lambrusco è su tutti in assoluto il più conosciuto. Attualmente questo nettare è diventato molto di moda nei winebar, soprattutto a Tokyo, poiché piace molto alle donne. Principalmente viene preferito come aperitivo, senza abbinarlo al cibo».
Anche Bulgarelli conferma il miglioramento. «Negli ultimi anni il consumatore di Lambrusco è diventato esigente, ha chiesto qualità e non quantità. Abbiamo molto investito nella tecnologia, per esempio nella microfiltrazione, per garantire la tenuta nel tempo delle bottiglie. E tutti i nostri soci seguono sistemi di lotta guidata integrata, a basso impatto ambientale, per la produzione della vite.» Il prezzo è rimasto basso. «Il nostro target è la fascia di prezzo tra i due e i quattro euro. Anche per questo siamo fuori dalla grande distribuzione, per la quale si tratta di una terra di nessuno. A loro importa vendere o vini più cari, o vini che costano ancora meno.»
Molti produttori di Lambrusco, a fianco del Lambrusco base, propongono i loro cru, venduti comunque tra i cinque e i dieci euro. A volte sono prodotti fin troppo «estetizzanti», che rischiano quasi di nobilitare eccessivamente (e quindi snaturare) l’indole proletaria del Lambrusco (penso al Metodo Classico Bellei). Spesso si tratta di etichette che vogliono valorizzare varietà autoctone e ancor più rare di Lambrusco, come il Pjcol Ross della Tenuta La Piccola, ottenuto da vecchie alberate del 1907: un secolo fa.
Il cru di Quistello è il Gran Rosso del Vicariato, che affianca la classica produzione di Lambrusco Mantovano Doc (rosato, rosso e rossissimo, in base al tempo più o meno prolungato di macerazione). Colpisce che il cru sia Igt. Una sorta di Superlambrusco? «In un certo senso. Come in Toscana, ci siamo resi conto che per sperimentare e migliorare si doveva a volte uscire dal disciplinare. Massobrio ha brontolato, ci ha accusati di aver rinunciato al nome Lambrusco per vendere di più e convincere anche i più scettici. Il motivo non è questo, ma migliorarsi e valorizzare al massimo il nostro vitigno.» Il groppello (o grappello) Ruberti, raro biotipo del lambrusco viadanese. «Il viadanese è il lambrusco classico mantovano, ciò che ci differenzia dai lambruschi emiliani. Il groppello Ruberti è una varietà che siamo riusciti a salvare, ma che ancora non è entrata nel disciplinare. Cresce solo da noi, lungo le rive del fiume Secchia. Riteniamo che abbia potenzialità uniche per un Lambrusco: dà più corpo, perfino più gradazione alcolica. Il Lambrusco è un vino che non va snaturato, va bevuto giovane, ma con il Ruberti potremmo addirittura pensare a un vino mediamente longevo, quasi da invecchiamento.»
L’ambizione dei produttori «seri» di Lambrusco si nota anche dalla temperatura di degustazione da loro consigliata. Si è abituati a bere il Lambrusco fresco, appena tolto dal frigorifero, perché pur essendo un rosso, i tannini sono appena accennati. «Ma la bassa temperatura è un modo per anestetizzare il vino, per mascherargli i difetti. Certo, se ne esaltano freschezza e pungenza, ma non se ne capisce il valore reale. Un vino freddo è quasi sempre bevibile. Noi consigliamo di bere i nostri Lambrusco a sedici gradi: è un rischio, perché se non è buono si sente subito, ma è un rischio che va preso.»
La Cantina Sociale di Quistello produce anche dei bianchi, secchi e dolci, entrambi frizzanti. Perché qui, come a Modena e Reggio Emilia, tutto nasce o deve nascere bollicinato? «È il terreno, di tipo alluvionale, di riporto. Noi abbiamo viti in pianura, non certo i terreni sassosi di Bolgheri o le marne del Piemonte. Non possiamo snaturarci: la nostra realtà è questa. Qualcuno a Reggio Emilia prova a fare il Lambrusco fermo, ma è un controsenso. Il Lambrusco deve essere frizzante perché è il terreno a imporlo. Sono terreni che variano da zona a zona, ma comunque ricchi di potassio, di fossili. Sabbiosi più che argillosi, formatisi per le alluvioni dei fiumi, per esempio il Secchia e il Panaro nella zona di Sorbara.»
Il Lambrusco, in Emilia, racconta l’allegria della sua gente. E quello mantovano? «Siamo persone cordiali anche noi. Se c’è competizione con gli emiliani? Sono più famosi e potenti, ma è inevitabile. Loro hanno un milione e mezzo di ettolitri di Lambrusco, noi centocinquantamila ettolitri. Rispetto a loro ci manca uno zero. Noi vendiamo soprattutto al Nord, e non è un caso. Tanti mantovani sono emigrati dalle campagne verso le grandi città, ma hanno conservato la voglia di bere il “loro” vino. Emilia e Reggio vendono più al Centro-Sud, ma ultimamente siamo diventati competitori anche in quella zona, e non è che gli faccia piacere.»
Sono sei le Doc italiane a base Lambrusco: Lambrusco Mantovano; Colli di Scandiano e di Canossa, in provincia di Reggio Emilia, anche se il vino più rappresentativo della zona è il Bianco Classico; Reggiano; Lambrusco di Sorbara; Lambrusco di Grasparossa di Castelvetro; Lambrusco di Salamino Santa Croce, tutti in provincia di Modena. Fondamentali le differenze.
Il Lambrusco modenese è sostanzialmente monovitigno. Il Sorbara, che come il Picolit soffre di sterilità del polline, a causa della scarsa produzione è aiutato da un 40% di altre uve (salamino e fortana, detta localmente Uva d’Oro): è il vino più modenese, non particolarmente carico di colore (quasi rosato), dai sentori di violetta. Il Grasparossa di Castelvetro, detto così per la forte carica antocianica, è coltivato a sud di Modena ed è il più colorato, dal sapore pieno e deciso. Il Salamino di Santa Croce deve il suo nome all’omonima frazione del Comune di Carpi e ha la sua enclave a nord di Modena: ha caratteristiche intermedie, che lo avvicinano al Reggiano.
E proprio il Reggiano ha una caratteristica in comune con il Mantovano: non è ottenuto da un solo Lambrusco, ma da un blend. È una sorta di «Chianti» del Lambrusco, perché il disciplinare autorizza e anzi raccomanda l’uso di più varietà: marani (dà vini da bersi in gioventù, molto vinosi), maestri (molto colorato, buona acidità, media longevità), montericco, salamino, grasparossa, di Sorbara e – per incrementare il colore – piccole quantità di malbo gentile e soprattutto ancillotta, un’uva tintoria che ha la peculiarità di avere antociani non solo nella buccia ma anche nella polpa.
Tutti i disciplinari, tranne il Mantovano, propongono Lambrusco con vari residui zuccherini: secco, abboccato, amabile e dolce. A fianco del Lambrusco, il disciplinare della Doc Reggiano propone un «rosso» che è sì a base lambrusco, ma anche aiutato da vitigni internazionali (merlot, cabernet) e nazionali (sangiovese, marzemino). Proprio per queste caratteristiche, è il Lambrusco forse più «bastardo» ma senz’altro più facile da bere, destinato a incontrare i favori anche di chi ha un’idea distorta e molto diffidente del Lambrusco. A conferma di un’idea moderna di Lambrusco, i reggiani ne propongono sempre anche una versione ferma, senza anidride carbonica.
La Doc Lambrusco Mantovano è nata nel 1987. Comprende due aree disgiunte, il Viadanese (tra i fiumi Oglio e Po) e quasi interamente l’Oltrepò Mantovano. Il disciplinare è molto simile a quello Reggiano. Anche qui si produce un blend, con la differenza sostanziale che al posto di montericco, grasparossa e di Sorbara si usa il lambrusco viadanese (e il suo biotipo groppello Ruberti). Soltanto Lambrusco secco, senza residui zuccherini. «Anche noi facciamo un blend, ma stiamo abbandonando i Lambrusco meno nobili come il maestri e il marani. Cerchiamo di avvicinarci a un’idea di Lambrusco monovitigno, a base groppello Ruberti, con un aiuto di colore dato dall’ancellotta.»
La produzione del Lambrusco base è spesso contraddistinta da tre tipologie: fascia rosa (il rosato), fascia amaranto (rosso rubino), fascia blu (il cosiddetto rossissimo, con una maggiore presenza di ancellotta).
Bella acidità, bassa gradazione alcolica, profumi vinosi e fragranti, pH basso, tannini poco percettibili, pungenza data dall’anidride carbonica: sono le caratteristiche di qualsiasi Lambrusco. Un vino naturalmente sbilanciato verso le durezze. «Questo lo porta a essere perfetto con i salumi, con i formaggi, con pietanze grasse come il cotechino, in sostanza con i piatti tipici delle zone in cui è prodotto. È un vino che sa sgrassare, come gli spumanti e gli Champagne.»
Le bollicine, almeno nei Lambrusco di qualità, non sono artificiali. «I Lambrusco che costano poco insufflano anidride carbonica, con risultati disastrosi sotto il profilo organolettico e qualitativo. Noi seguiamo una via particolare. Il Metodo Charmat, con fermentazione controllata in autoclave, ma non solo: prima di vendere il Lambrusco, pratichiamo anche una piccola rifermentazione in bottiglia, di un mese, affinché il prodotto si stabilizzi. In pratica combiniamo Metodo Martinotti e Metodo Classico.»
E non suoni eretico il rifarsi alla metodologia degli Champagne. Anche il Lambrusco ha avuto i suoi Dom Pérignon. «I monaci benedettini, nei territori dell’abbazia di Polirone a San Benedetto Po. Furono loro, nel Settecento, a dare impulso al Lambrusco, tramandando fino ai giorni nostri una consolidata tradizione.» Bella tradizione.
Mi piace, non mi piace:
il vino «buono»
Non c’è gioia senza vino.
TALMUD
Da qualche anno vanno di moda le degustazioni collettive.
La Tana degli Orsi a Pratovecchio, Tirabusciò a Bibbiena, La tagliatella e La formaggeria di Arezzo, La bottega del vino a Castiglion Fiorentino, Il Pane e vino a Cortona: queste le enclavi dei degustatori erranti della mia zona. Ci si riunisce quasi di nascosto, come carbonari (se citassi la massoneria, parlando di Arezzo, potreste fraintendermi). E, con gioia, si beve. Esperti e no, puristi e americanisti. Tutti disposti a spendere quaranta euro per cinque lacrime di vino.
Tempo fa ho partecipato a una di queste, al Pane e vino di Cortona, ristorante che rientra – con merito – in tutte le guide gastronomiche. La serata si chiamava «5 Uomini, 5 Vini, 5 Miti». L’idea era quella di dimostrare che, nella sua massima accezione, il vino somiglia a chi lo fa. Un vino può diventare espressione del carattere del suo vinificatore.
La degustazione era alla cieca. C’era, quindi, il rischio concreto che ci sarebbe potuto piacere un vino meno costoso di un altro.
L’unico che non si poteva non riconoscere era una Ribolla Gialla Anfora 2002 di Josko Gravner, uno dei bianchi più estremi dell’enologia mondiale: le uve fermentano sulle bucce con i loro lieviti senza controllo di temperatura, all’aperto, in grandi anfore di terracotta per sette mesi (tenete presente che il 99% dei bianchi non fermenta sulle bucce neanche tre secondi). Luna calante e svinatura. Tre anni minimo di invecchiamento, senza toccare niente. Nessuna chiarifica né filtrazione. Pochissimi solfiti. Diciottomila bottiglie prodotte. Valore commerciale: cinquanta euro.
Gravner si fa costruire le anfore in Persia perché lì è nata (almeno si crede) la vite. O ti piace o non ti piace. È una Ribolla Gialla, vitigno friulano autoctono, eretico. Ha il colore e i profumi di un passito. Al gusto, un’acidità e una morbidezza incantevoli. Per me è un capolavoro, per altri una bizzarria inutile.
Gli altri quattro rossi, alla cieca e quindi non riconoscibili se non tramite superolfazione, modalità empiriche e (soprattutto) fortuna, erano un Chianti Classico Poggio alle Rose Riserva 1998 Castell’in Villa (cinquanta euro), un Brunello Case Basse Riserva 2000 Soldera (centosettanta euro), un Barolo Cannubi San Lorenzo Ravera 2001 Rinaldi (quarantacinque euro) e un Pergole Torte 2003 Montevertine (cinquanta euro). Tre espressioni di Sangiovese toscano e uno dei Barolo più celebri. Tutti vini definibili biodinamici o quantomeno biologici: rispetto della natura, del terreno, dei cicli lunari, chimica ridotta a zero.
Cinque grandi vini. Per motivi misteriosi, a fine degustazione mi sono reso conto di averli «presi» tutti. Fortuna, più che altro, e qualche trucco che ha portato bene: la «punta d’alcol» tipica dell’annata 2003, particolarmente calda e quindi ricca di zuccheri; la complessità aromatica – c’era davvero di tutto – di un vino che non poteva che essere il Soldera; quel sentore populista di vaniglia e legno non assimilato che non poteva non far pensare a Castell’in Villa, l’unico dei quattro a usare barrique per più di diciotto mesi; a quel punto, per esclusione, il quarto non poteva che essere Barolo, il più scarico di tutti a livello di colore.
Mi è andata bene, a me come a un’altra buona metà dei partecipanti.
Racconto questo aneddoto non per vantarmi (o meglio, un po’ sì), ma più che altro perché il fine ultimo di queste degustazioni è constatare qual è il vino che è piaciuto di più. Se il valore commerciale è direttamente proporzionale alla sua qualità.
La mia valutazione, e quella del «mercato», diceva: Brunello (anzitutto per i profumi), Barolo (per un equilibrio e una persistenza invidiabili), Montevertine (grandissimo vino, che però chiedeva di essere atteso ancora un po’) e quindi il boisé Chianti Classico.
Un 40% ha risposto come me. Un 10% ha anteposto il Barolo al Brunello. Il restante 50% ha messo al primo posto delle sue preferenze il «facile» Chianti Classico.
Il mondo del vino è, lo abbiamo visto e lo vedremo, il regno del soggettivo.
La (facile) riflessione vale, a maggior ragione, quando si parla di «buono» e «non buono». I sommelier, o anche solo gli abbonati a «Wine Spectator», vorrebbero che l’unico metro qualitativo fosse il prezzo di una bottiglia. Non è così. O perlomeno, non è così semplice.
Di per sé il gusto dell’umanità cambia, di continuo. Basta guardare la storia della vigna e del vino, per quel poco che la conosciamo. La Vitis vinifera silvestris, la vite selvatica che diverrà poi Vitis vinifera sativa (quella che dà le uve da vino), è verosimilmente comparsa in origine nella Georgia, sui pendii del Caucaso, verso il Mar Nero. A due passi dal monte Ararat, dove secondo il Vecchio Testamento Noè piantò il suo vigneto.
Come bevevano gli antichi? Quale vino piaceva loro? Si sa per esempio che, nell’Egitto dei faraoni, le anfore nelle quali il vino si conservava erano impermeabilizzate con la resina. Il retsina greco, sempre più normalizzato per compiacere il turismo pigro dei villaggi-vacanza, è quanto di più oggi somiglia a quel vino.
I Fenici portavano il vino lungo le coste, fino alla Spagna. Gli Etruschi coltivavano la vite, legandola agli alberi, come ancora è uso fare in Toscana e in Campania. Il loro dio del vino, veneratissimo, era Fufluns.
Semplificando, i greci «scoprirono» il vino su larga scala e i Romani lo perfezionarono, rendendosi conto per primi che poteva invecchiare. Omero ci dice che i vini preferiti dai greci erano il Pramnei e il Maronei, entrambi ottenuti da uva passita, concentrati e dolci, aromatizzati con spezie e allungati con l’acqua (altrimenti troppo densi). Oggi li riterremmo imbevibili, non meno dei vini affumicati romani, che sapevano di fumo per colpa del fumarium: era lì, nel sottotetto sopra la cucina, in anfore porose, che si invecchiava il vino.
I Romani amavano anche il Falernum, originariamente un bianco ottenuto da falanghina (poi scoprirono anche la versione rossa da uve aglianico). Neppure loro, però, ritenevano concepibile bere il vino senza averlo prima diluito con l’acqua. D’inverno usavano acqua calda e d’estate le famiglie ricche raffreddavano il loro vino con la neve, fatta trasportare giù dall’Appennino. L’unico tratto in comune tra quel vino e il nostro era che quasi sempre si trattava di una bevanda per ricchi.
Nel Medioevo va tutto in crisi. Gli insegnamenti dei Romani (che curiosamente si impegnarono ovunque tranne che in Calabria, gap storico che la regione del Cirò sconta ancora) andarono in gran parte persi. La caduta dell’impero comportò un collasso.
La produzione era gestita dalla Chiesa e dai monasteri. I vini non si invecchiavano più, si bevevano appena fatti. In quanto astringenti e acidi, li si dolcificava con miele e spezie d’Oriente (il più noto si chiamava Hippocras).
Il XIV secolo fu quello della piccola era glaciale: i raccolti furono distrutti, arrivarono carestie. Per l’uomo del Trecento, verosimilmente, l’interesse primario non era la viticoltura.
La ripresa avvenne con la scoperta «casuale» dello Champagne e del mercato florido tra Francia e Inghilterra, già avviato dall’unione – nel 1152 – tra Eleonora di Aquitania ed Enrico Plantageneto, il futuro Enrico II.
L’Inghilterra era fissata con i vini fortificati, ricchi d’alcol e dolci, come Porto e Marsala. Come si vede, un altro aspetto che ritorna è che a tutti piaceva il gusto «dolce». Gli stessi vini rossi bordolesi fatti arrivare in Inghilterra erano leggeri, beverini, di colore rosso chiaro. Gli inglesi li definivano clairet, ed è ancora così che li chiamano, anche se i bordolesi di oggi di «rosato» non hanno proprio nulla.
Soltanto dalla fine del Settecento si cominciarono a produrre vini moderni, longevi, strutturati. La fillossera, la più grande calamità accaduta al vino, un «regalo» fatto all’Europa dall’America tra Ottocento e Novecento, ha nuovamente rivoluzionato il gusto e la produzione dei vini arrivati a noi.
Il gusto è quanto di più soggettivo esista al mondo. Ciò che piacerà a me non piacerà a voi, e viceversa. È così per tutto. Gli esperti, più che la pretesa di fare classifiche intoccabili, hanno – avrebbero – il desiderio di insegnare a tutti le regole base per capire quando un vino è o dovrebbe essere «buono». Il gusto personale va però dove vuole andare, sempre.
Una delle classificazioni più riuscite che ho letto, quelle cose che avresti voluto scrivere tu, l’ho trovata nel Romanzo del vino di Roberto Cipresso. La progressione fa così: vino-sveltina, vino-amplesso, vino-emozione.
Il vino-sveltina soddisfa le aspettative più semplici, quelle ancestrali, quelle infantili: il desiderio di «dolce». La dolcezza è la prima sensazione gustativa che percepiamo, la più facile. Ecco perché è un vino-sveltina, vino-carpe diem, vinomeringa. Alzi la mano chi non ha un amico (o, mi si perdoni, un’amica) che non ama il vino ma che è fissato con il Passito di Pantelleria o la Malvasia delle Lipari. È una tipologia che piace quasi a tutti, tanto che nelle degustazioni a punteggio sono vini ritenuti «ruffiani», perché riescono a strappare «involontariamente» qualche punto finale in più, proprio grazie al residuo zuccherino che – si sa – piace a tutti. Il vino-sveltina può anche essere secco, ma dal gusto in qualche modo dolciastro, burroso, grasso. È il caso dello Shiraz australiano, un vino così impantanato di legno da cancellare i (teorici) sentori di pepe del syrah. Brutto e maschilista da dire, ma li si chiama anche «vini da donne». In Toscana ha questa nomea una neo Docg, il Morellino di Scansano, fatto nel Grossetano da un biotipo particolare di sangiovese chiamato appunto «morellino» e caratterizzato da un tannino meno irruente e una piacevole morbidezza (oltre che da un uso smodato di vitigni internazionali «migliorativi»).
Molti si fermano qui, al vino-sveltina. Non è un reato: è un’attitudine. Il vino-meringa è l’Obladì obladà dell’enologia. Da piccolo lo canticchi, quel motivetto tipicamente Mc-Cartney, e ti convinci che è quella la vera musica: qualcosa che piace subito, che fa ballare, che non necessita di competenze o ascolti plurimi. Allo stesso modo, lo Shiraz piace subito, e più ancora piace il primo Passito preso in fretta all’ipermercato. Non mette in difficoltà, è un accompagnamento non impegnativo, un vino-da-spiaggia come La canzone del sole di Battisti.
Però, se stimolato, il vostro gusto prima o poi chiederà di andare oltre. È nell’ordine delle cose: se i Radiohead si fossero fermati a The Bends, non avrebbero mai ideato Ok Computer. Se siete curiosi, sarete così – prima o poi – sedotti dal vino-amplesso. Che è il vino di cui cercate anzitutto sensazioni non accomodanti: la sapidità, l’acidità, perfino l’astringenza. La dolcezza non vi basta più, la morbidezza neanche: volete essere messi in difficoltà, volete sentirvi «bravi». Eccolo, allora, un Cabernet Franc, un Nebbiolo, un Sauvignon Blanc. Qualcosa che già fa selezione. Chi si è fermato a Obladì obladà non ha mai capito la svolta futurista di John Lennon: non curatevene, lasciate i nostalgici dei Beatles a riempire i Fori Imperiali ascoltando l’avvizzito baronetto McCartney e sparatevi Jealous Guy, Imagine, e Yoko Ono (no, Yoko Ono forse no).
Difficile che ci si fermi, a questo punto, allo stadio intermedio. Volete toccare la vetta, il vino-armonia, il vino-strabismo di Venere. Volete capire il vino più difficile, volete sentirvi Paul Giamatti in Sideways. Volete scoprire il Pinot Nero. Giunti a questo stadio, ci sarà il rischio che «ve lo facciate piacere», perché avete ormai capito che se entrate in un’enoteca e chiedete Pinot Nero (di Borgogna, magari), gli astanti vi guarderanno come i cowboy osservano entrare Tex Willer in un saloon: con devota ammirazione.
Il rischio, effettivamente, c’è. Il Pinot Nero è un vino anarchico, cresce poco e dove vuole, ha profumi selvaggi, non si addomestica mai, ha un colore oscenamente scarico e in bocca è un caleidoscopio imprevedibile. Lo si ama per questo: perché è la sciarada più insondabile, non perché effettivamente è «il più buono».
Gli esegeti del Pinot Nero lo adorano anche perché a questa ricchezza di aromi e sensazioni corrisponde, e non è un paradosso, una povertà di elementi strutturali. Nel senso che, se fai la gascromatografia di una goccia di Pinot Nero e una del «prosaico» Cabernet, il secondo darà – per dire – cento elementi e il primo ottanta. Il Pinot Nero è più povero, in teoria più semplice, ma i suoi elementi sono più raffinati e percettibili.
Può essere che il percorso di un amante del vino sia in qualche modo analogo a quello di un artista: c’è il periodo giallo, il periodo azzurro, il periodo nero. O forse la realtà è più semplice, per quanto maledettamente snob: per capire il grado di bontà di un vino, dovete capire – almeno un po’ – di vino.
Volete l’esempio di un gesto imperdonabile? Regalare un vino costosissimo a una persona che non lo apprezzerà. Non importa cosa vi avrà spinto a compiere quel gesto, se per ostentazione di ricchezza o per reale affetto: sarà un errore comunque. Quando rimarrà sola con il suo nuovo destinatario, quella preziosa bottiglia riceverà due sorti, entrambe terribili: rimarrà dimenticata in cantina, come una reliquia poco apprezzata, oppure verrà bevuta male, con i commensali obbligati a dire che quel vino è «buonissimo» perché non può esistere che una bottiglia da cento euro non sia buona.
Il gusto non ha regole. Vorrei dirvi che sicuramente un Solaia, un Tignanello, un Monfortino o un Gaja vi piaceranno più di un qualsiasi Merlot. Ma non posso dirlo, perché potreste – del tutto legittimamente – fare come quel 50% di Cortona che, stordito dai «troppi» profumi (e neanche tutti gradevoli) del Brunello, gli ha preferito un Chianti vanigliato che costava quattro volte di meno.
È giusto che sia così, per quanto non sembri. Il vino è una «bevanda per tutti» fino a un certo punto. È un prodotto complesso, che può essere concepito come accessorio accompagnamento di un pasto, come tramite per un’ubriacatura più o meno molesta. Oppure può divenire il centro di un interesse. Soltanto in questo terzo caso avrà senso regalare un Monfortino, a se stessi e a chi saprà rispettarlo.
Il vino-sveltina resterà sempre il primo degli approdi. Se non conoscete i gusti di chi sta bevendo con voi, non rischiate inutilmente. Scegliete vini fatti con uve «da donna», nel senso di vini con accentuate doti di morbidezza e tannini non irruenti. Raramente sbaglierete se opterete per un Merlot, un uvaggio bordolese (per esempio un Bolgheri), una Barbera, un Primitivo, un Lacrima di Morro d’Alba, un Morellino di Scansano, oppure tra i bianchi uno Chardonnay o un Verdicchio surmaturo e per questo più morbido che acido.
Lasciate che l’altro, se ne è in grado e ne ha voglia, si avvicini gradualmente ai vini-amplesso e ai vini-emozione. Non c’è nulla di peggio che pretendere che un neofita, di fronte a un vino da cento euro, dica per forza che quel vino gli piace. Se lo dirà, lo farà per compiacervi. Se non lo dirà, non sarà per mancanza di educazione ma perché quella persona ha riconosciuto di non avere i mezzi per capire e interpretare quel vino (c’è un altro motivo: quel vino non gli piace perché costa molto più di quanto vale. Accade anche questo).
È come per ogni arte, perfino nello sport. Zvonimir Boban era un vino-armonia, ma dovevi capirlo. Oliver Bierhoff era il più commerciale dei vini-sveltina, faceva molti più gol e lo «capivi» subito. Un film di Gabriele Muccino sarà artisticamente molto meno bello di un Letters from Iwo Jima dell’immenso Clint Eastwood, ma richiederà meno competenze per essere svelato. E il piano di Michel Petrucciani era oggettivamente portentoso, unico, devastante, ma non ha alcun senso regalare un suo disco a chi fino a quel giorno è cresciuto ascoltando Daniele Groff e Anna Tatangelo (Dio lo perdoni). Così come non ha senso regalare un gran vino a chi preferirà sempre la birra (Dio ne abbia pietà).
A margine di tutto questo, rivendico l’ancestrale esigenza di dozzinalità – o, per dirla con i sociologi, la patologia dell’orrido. Mi spiego: non è possibile, non è umano, inseguire sempre la perfezione. Il film d’essai. La musica da Premio della Critica. Il vino assoluto.
Non si vive solo di onde della vita: di lievi ondulazioni, piuttosto.
Per questo dico che non si può bere sempre bene, e che ogni tanto si deve sposare la propria soggettività fino all’errore più grossolano.
In questi anni mi sono accorto di essere attratto dalle degustazioni. Sono diventato assaggiatore di formaggi Onaf (Organizzazione Nazionale Assaggiatori Formaggi), ho provato tutte le cioccolate più leggendarie. Potrei raccontarvi per ore le differenze tra criollo e forastero, magnificarvi i cru dell’Ecuador, l’unicità del cacao di Cuba, l’eleganza del Porcelana, la follia della Modicana, l’aurea perfezione della Torta Pistocchi e la grandezza di aziende artigianali come Amedei, Tobino, Corallo, Maglio, De Bondt, Donna Elvira, Valrhona, Café Tasse. Potrei, le mie credenze debordano davvero di tavolette deluxe.
Eppure, per quanto «esperto», non di rado patisco la voglia – che soddisfo puntualmente, finché la glicemia me lo consentirà – di qualcosa di meno nobile. Sento il desiderio di dozzinale, come chi dopo avere ascoltato il cofanetto dei Sun Bear Concerts di Keith Jarrett avverte l’urgenza di canticchiare Dio mio no di Lucio Battisti come pure E berta filava di Rino Gaetano («canticchiare», sì, ma con gusto).
Ed è allora che, senza né remore né vergogne, me ne frego della regola per la quale il cioccolato vero è solo quello fondente minimo 70%, e accetto la deriva nazionalpopolare verso alchimie zuccherose, cioccolati-sveltina che probabilmente mangiavo anche da bambino. Come la «Pasta da taglio» Nutkao: sapete, quei «mattoncini» di cioccolato bicolore, o nocciolato, che si trovano negli alimentari di provincia. Te le vendono al taglio, appunto, come fosse un affettato. È un prodotto nato a Piobesi d’Alba nel 1982. Al naso non ha aromi nobili, al palato non ha finezze d’essai, ma diamine quanto è buona. È un’orgia di «volgarità», un desiderio umanissimo di non pensare e non impegnarsi: semplicemente, godere. Come il Lindor della Lindt: okay, è burroso, è più dolce del miele, al secondo assaggio già ti stucca… ma cazzo quanto è buono (come avrebbe detto Virginia Madsen).
Certe volte, non sempre, ho voglia di essere detestato dai soloni, di ricevere i fischi dalla critica e di essere nazionalpop. Vale anche per i formaggi: certo, i formaggi a latte crudo avranno più profumi, e io sarò molto più cool se chiederò al maître (verosimilmente sgomento) del Graukase o del Montasio d’Allevo, ma se in quel momento ho voglia di volgarissimo stracchino, o addirittura crescenza, me ne fregherò delle recensioni e soggiacerò felice alla dittatura del gusto.
Il mio gusto.
Quel gusto che, quando è pigro, mi fa preferire qualsiasi Dolcetto d’Alba cristiano al più glorificato dei vini. Quello stesso gusto che, ogni tanto, col cervello dialoga così: Okay, io sto bevendo questo vino, che tu hai pagato una tombola, e poiché ti voglio bene non ti dirò certo che mi ha deluso un po’. Sappi solo che, stasera, mi sarei accontentato del Merlot che fa il nostro vicino di casa, sai, quello che ha la casa in campagna. Quello che il vino quasi lo regala. E non saprà mai di fare un vino che, qualche volta, ai miei occhi e alle mie papille merita i «cinque grappoli».
Il vino Kiarostami (Pinot Nero)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Alto Adige Pinot Nero 2004 – Gottardi
Musica di degustazione:
Roger Waters, Amused to Death
Non è che il pinot nero cresca solo in Borgogna. Cresce ovunque, concorre a decine di Doc anche in Italia. La differenza non la fa il se, ma il come.
Esistono due tipi di pinot nero. Uno, il produttivo, è usato esclusivamente per la spumantizzazione. Vinificato in bianco, a volte anche in purezza (i cosiddetti Blanc de Noirs), porta al prodotto finale corpo e nerbo. Il polmone di questo tipo di pinot nero è nell’Oltrepò Pavese, ma si trova anche nell’Alto Piemonte, in Franciacorta, in Trentino e in generale in tutte le zone italiane dedite alle bollicine.
Il secondo tipo, detto Fine, è quello più pregiato e dà i vini rossi che piacevano a Paul Giamatti. È questo il vitigno Kiarostami, il Vino d’Essai che piace anzitutto alla critica. Foglia medio-piccola, tondeggiante, trilobata. Grappolo piccolo, lungo 12-15 centimetri. Cilindrico, spesso alato, un po’ compatto. Buccia pruinosa, spessa e consistente, di colore nero-violaceo.
Matura verso la metà di settembre ed è delicatissimo. Dà un vino rosso rubino dai profumi riconoscibilissimi e non sempre graditi, acquisendo con l’invecchiamento quello che i libri di testo Ais definiscono «sentore di pollaio». Al gusto è caratterizzato da spiccata acidità, discreta tannicità, grande struttura e persistenza percettibile.
All’esame gascromatografico è il vitigno più «povero», con meno componenti. Segno che la qualità, e l’originalità, non la fanno la somma degli elementi ma la loro combinazione.
Come tutti i vitigni ha molti sinonimi. Borgogna nero è uno di questi, a richiamare subito la zona più vocata. Un altro è blauburgunder: così lo chiamano in Alto Adige.
Devi venire qui, nel Basso e Alto Atesino, per apprezzare il miglior Pinot Nero italiano. Da nove anni hanno organizzato a Egna e Montagna, in provincia di Bolzano, le giornate del Pinot Nero. Da sei anni, parallelamente, è istituito un concorso per eleggere il miglior Pinot Nero. Sessanta vini degustati, due volte, nello stesso giorno. Quindi il voto, discutibile e scarsamente attendibile come in tutti i concorsi sul vino, che impongono una degustazione seriale e oggettivamente «inumana».
Questa è terra che ama il vino, ma la ricettività al turismo enologico è cosa recente. «Questione di neanche dieci anni» mi dice il titolare dell’Hotel Ristorante Andreas Hofer, primo punto di ritrovo di Egna. «Qui sono sempre esistiti i Torggelen e i Buschenschanken, le feste del vino nuovo, il mosto bevuto con le castagne arrostite e lo speck. Questi ritrovi avevano però portato le nostre zone a essere invase da tedeschi interessati unicamente alla quantità, ai “beveraggi” con cui ubriacarsi. È un turismo che non vogliamo, cerchiamo di imparare da voi toscani.»
Ovunque ci sono richiami alla Strada del Vino: Caldaro, Appiano, Cortaccia. Sono luoghi a prova di navigatore, immacolati e verdissimi, monti a strapiombo e vie intricate, come quella che da Montagna conduce a Casignano, tra ruderi e sentieri appena lastricati. È qui, da Dorfnerhof, oppure nell’atmosfera cordiale della trattoria/pub Tschurtsch nel centro di Ora, che puoi degustare le specialità del luogo: i salumi nostrani, i formaggi. Canederli, schlutzkrapfen (sorta di ravioloni caserecci con ricotta e spinaci), stinco con crauti, asparagi bianchi – coltivati sul greto dell’Adige – con salsa bolzanese, musetto di maiale e groestl, rosticciata di patate saltate in padella di ferro con tranci di manzo lesso e cipolla.
Ogni insegna rimanda a una cantina, e a fianco del lagrein, un vitigno autoctono vinificato rosso (Drunkel) e rosato (Kretzer), il sogno di tutti è il Blauburgunder. Il Pinot Nero.
Castelfeder, Franz Haas, Manincor, Ferruccio Carlotto, Alois Lageder, San Michele Appiano. Questi, e non solo questi, i nomi di culto della zona.
Il maestro ha però un altro nome, noto a tutti e da tutti riverito: Bruno Gottardi. Sono suoi i vitigni più vocati, nell’altipiano di Mazzon, sopra Egna. Luogo di bellezza incantata, una chiesetta umile a interrompere la sconfinata esposizione di vigne preziose. «Eppure fino a venti anni fa, il pinot nero era qualcosa che anche qui doveva fare quantità. Nient’altro che uva da taglio.»
Le giornate del Pinot Nero dicono quel che già intuivi: se quelli di Borgogna sono inarrivabili, gli unici che possono accostarsi a loro sono i Pinot Nero atesini (e il vero outsider è la produzione neozelandese). Gli altri – Oltrepò Pavese, Trentino, Toscana, Colli Pesaresi, sudafricani, australiani, californiani, cileni, argentini – vengono dopo. A Montemurlo, in provincia di Prato, opera Marchesi Pancrazi: il suo cru costa sessantacinque euro, più del doppio del Pinot Nero di Gottardi. Prendo il secondo tutta la vita.
La produzione di Gottardi è poca e per questo dannazione di fan e ristoratori, che vedono finire troppo presto le loro esigue scorte. Bruno Gottardi è uomo maturo, parla piano e quasi stancamente, dando la sensazione – come tutti da queste parti – che il parlare in italiano sia un dovere da eseguire con affettata pigrizia. «Ho comprato i vitigni nel 1986 e il primo vino l’ho fatto soltanto nel 1995. Fu un vino “con la pancia”. Non sapevo nulla di management fogliare, di densità d’impianto, di come gestire la barrique.Tutti i miei vini prima del 2000 sono in qualche modo imperfetti, nel primo anno usai legno vecchio fatto arrivare dall’Austria e due anni dopo abusai della barrique. Errori da cui si impara, anche se già nel 1995 il nostro Pinot Nero venne eletto il migliore tra gli italiani.»
In occasione delle giornate del Pinot Nero, Gottardi ha organizzato una degustazione verticale di tutta la sua produzione, dall’ultima annata (uno dei vini della vita, ora e sempre) al lontano 1995. Era a numero chiuso, mi hanno fatto partecipare solo dopo aver saputo del libro.
Sono proprio le degustazioni verticali a darti la sensazione che forse Virginia Madsen aveva davvero ragione, quando sosteneva che ogni vino – anzi ogni bottiglia – ha la sua unicità.
Il comune sapere vorrebbe far passare l’idea per la quale un vino vecchio è sempre più buono di uno più giovane. Niente di più falso. Esistono variabili decisive: come è stata conservata quella bottiglia, anzitutto. E poi la tipologia di quel vino: se era nato veramente per invecchiare o per essere bevuto subito. E ancora: dipende di quale annata si parla. Io posso anche lasciarmi incantare da un ristoratore che mi apre un Barolo del 2000, ma assai probabilmente quel vino non avrà mai l’eleganza del 2001 – o, quando lo potremo bere, del 2004.
Ogni anno dà la sua impronta ed è un piacere scoprirne le differenze. È come, ogni volta, fingersi Aldous Huxley e aprire le porte della percezione, varcare un tempo e un nowhere diverso. Ecco allora che le annate piovose, come il 2000 e 2002, daranno al vino una minor struttura e una sensazione di «diluito»; il 1997 e il 2003 pagheranno il troppo caldo (e forse la tardiva vendemmia) con sentori surmaturi e una spalla alcolica eccessiva. Il 1996 ti colpirà per la sua dignità, il 1995 per la sua ingenuità, il Riserva 2000 paradossalmente inciamperà nel proprio sfarzo (troppo affinamento, troppo legno, troppa «costruzione»).
Ma quando incontri le annate giuste – il 1999, il 2001, il 2004 – il Pinot Nero e non solo lui somiglieranno all’idea per nulla prosaica che del vino avevano Paul Giamatti e Virginia Madsen, lì, sotto quel portico in California.
Annata perfetta, per Bruno Gottardi, «è quando non ti viene mai da usare la parola “troppo”: troppa pioggia, troppo sole, troppa produzione. Il 2004 è stata un’annata così, il vino è venuto da solo».
Qui non si fa vino base, non si immaginano cru o produzioni in serie: il Blauburgunder si presenta sempre per quello che è, senza nascondersi. Perché soltanto nel Basso e Alto Atesino il Pinot Nero può competere con la produzione di Borgogna? «La sponda della Valdadige non è detta a caso “il paradiso del Pinot Nero”. Siamo meno esposti al sole e questo vitigno odia il sole. Abbiamo grandi escursioni termiche, quindi grandi profumi. La giusta altitudine in collina. Terreni similari alla Borgogna e, soprattutto, stessa latitudine. Il pinot nero è il capostipite della nobile famiglia dei pinot, ha origini antiche francesi ma è figlio della colonizzazione romana della valle del Rodano, quando le milizie portavano con sé i tralci della vite per ricreare nel nuovo ambiente le condizioni lasciate in patria. È un vitigno gallo-romano difficile e scontroso, che trova l’habitat migliore a latitudini elevate, intorno al 50° parallelo. In cosa differiamo dalla Borgogna? Nel clima. Il loro è continentale, perfetto per il pinot nero. Il nostro è pur sempre mediterraneo, e questo complica di molto le cose.»
Non solo questo. «Il blauburgunder non consente errori. Esige impianti a guyot, una densità d’impianto vicina alle seimila piante a ettaro. Mal sopporta la barrique, se acquisisce sentori di legno non li smaltisce più. Non è un vitigno “a prescindere” adatto all’invecchiamento, molto dipende dall’annata e dal bagaglio di acidità. Non ha un colore invitante, è un rosso rubino scarico, un po’ come il nebbiolo, solo che qui quasi nessuno si sogna di colorarlo con marchingegni e sofisticherie. Anche i tannini sono un problema, vengono quasi unicamente dai vinaccioli e non dalle bucce.»
Le difficoltà sono anche altre. «Il pinot nero tenderebbe a produrre troppo, ma se si vendemmia indiscriminatamente guardando alla quantità se ne perde il bagaglio espressivo. E poi è un vitigno soggetto a muffe e marciumi, delicatissimo. In autunno il rischio aumenta, i grappoli sono molto fitti: se piove i chicchi si gonfiano, esce il succo e si forma la muffa. Nei primi anni della nostra produzione non sempre siamo riusciti a togliere tutto il marciume, per questo i vini hanno acquisito sentori ancora più particolari. La buccia del pinot nero non è molto resistente, si crepa con facilità e a quel punto è la fine. Per la sovrapproduzione stiamo lavorando all’individuazione di cloni spargoli, per evitare le muffe si tratta di selezionare ancora di più in fase di vendemmia.»
L’obiettivo, qui, non è emulare la Borgogna «ma reinterpretarla. Trovare la nostra strada».
Quella che gli amanti del vino non smettono mai di cercare, e quando incontrano un Pinot Nero 2004 Gottardi si convincono quasi di averla trovata. Di averla bevuta.
Guida galattica per enostoppisti
La natura umana è misera, e chi
la vede a nudo non può che sentirsi misantropo.
ARRIGO CAJUMI
Trecento degustazioni in tre giorni, intervallate qua e là da un pezzetto di pane per pulirsi la bocca. Non è un vanto, non è un record. Solo quello che ho fatto la prima volta che ho dedicato un weekend lungo a Vinitaly. Non una, ma quattro manifestazioni contemporanee. Tutte a poche chilometri di distanza.
Da una parte, la grandeur di Vinitaly. Dall’altra, la cosmopolita e assai frammentata pattuglia degli alternativi: i Vini Veri di Teobaldo Cappellano (Isola della Scala, Verona), il VinNatur di Angiolino Maule (Villa Favorita, Vicenza) e la Renaissance des Appellations – Triple A di Velier (Ca’ Scapin, Vicenza). Fra questi non corre buon sangue (e spesso nemmeno buon vino). Il primo reputa gli altri nient’altro che nicchia, prescindibili diversità che non fanno né faranno mai mercato. Gli altri ritengono Vinitaly la fiera tronfia dei bauscia del vino, del gusto standardizzato e dei vini grassi, opulenti, vanigliati, indigeribili e fatti con lo stampino.
Per quanto sia poco propenso ai compromessi, nel mio piccolo sto al centro. Ideologicamente sarei portato alla minoranza, quindi al trionfo del gusto «vero». Al tempo stesso, sfido chiunque a negare l’umanissima – e se volete infantile – fascinazione per l’eccesso di Vinitaly. Ottantamila metri quadrati con migliaia di espositori. Ogni padiglione è una regione. Entri nel padiglione 8 e hai tutta la Toscana, nel 9 il Piemonte. Se non hai un invito, paghi quaranta euro e in un giorno puoi degustare tutto quello che vuoi. Uno spettacolo.
Certo, maggiore è la richiesta e maggiore è il rischio di sbagliare. Di degustare vini senza identità, anonimi, strozzati in cantina dalla troppa tecnologia. Se non hai le idee chiare prima di entrare, la tua fine è segnata: attratto dall’idea di bere gratis tutto – ma proprio tutto – quello che vuoi, a mezzogiorno sarai già ubriaco senza ricordarti più cosa hai bevuto.
La varietà è però abbacinante, sfarzosa, assurda nella sua esagerazione. Migliaia di persone che mendicano bicchieri di vino e brandelli di grissino per dare allo stomaco l’illusione che tutti quegli ettolitri di alcol sono, in fin dei conti, leciti.
I puristi inorridiranno, e mi piace che lo facciano, ma Vinitaly è divertentissimo. Negarlo è dire il falso, ben sapendo di dirlo.
Certo, non esiste solo Vinitaly. Sia benedetta la diversità. Sia lodato colui che non si piega alle mode, che cerca, che resiste. Che evolve all’indietro. Le tre manifestazioni alternative – brutta parola, ma ci siamo capiti – sono più a misura d’uomo. Ti diverti di più. Qui lo scrivo e qui non lo nego: il livello medio è più elevato, oltre che più stimolante.
Tra i Vini Veri (o naturali, o biologici, o biodinamici, o Triple A: è un vizio atavicamente sinistrorso quello di frammentarsi per nutrire il proprio ego) troverai davvero i Riesling della Mosella che «sanno di cherosene». Capirai che la Malvasia Istriana dovrebbe avere sentori di pepe bianco, che il Verduzzo Dolce non è quello che trovi nei supermercati ma un nettare particolarissimo che sprigiona fragranze nitide di acacia e gelsomino. Scoprirai che il vino di oggi è spesso sepolto dal gusto finto. E intuirai perfino che a volte un difetto è un pregio: come quel pizzico di acidità volatile, che sui libri di testo ti dicono essere sinonimo di acescenza, di aceto, ma che entro certi limiti diventa un convoglio di eleganza, un fonte battesimale che sgrassa il vino e lo rende bevibile anche al secondo bicchiere (non solo al primo).
Mi piace molto la furbizia contadina di Teobaldo Cappellano, uomo di raro acume. E mi diverte anche la scaltrezza di un rivenditore come Velier, che ha creato un piccolo monopolio dei vini alternativi, inventandosi il marchio Triple A, sorta di Docg dei vini naturali. A tripla come Agricoltori, Artigiani, Artisti. Il vino che riceve le sacre stimmate, indiscutibile indice di purezza quasi miracolosa, deve soddisfare ferrei requisiti: selezione manuale delle future viti; niente sostanze chimiche; uve raccolte a maturazione fisiologica e perfettamente sane; mosti senza aggiunta di anidride solforosa o altri additivi (l’anidride solforosa può essere addizionata solo in minime quantità al momento dell’imbottigliamento); lieviti indigeni; niente interventi chimici o fisici, prima e durante la fermentazione alcolica, diversi dal semplice controllo delle temperature; no assoluto a qualsiasi forma di concentrazione; maturazione sulle proprie fecce fino all’imbottigliamento; nessuna correzione al parametro chimico; guai a chiarificare o filtrare prima dell’imbottigliamento.
Parallelamente Nicolas Joly, il guru francese della biodinamica, ha vergato la Charte de qualité Renaissance de Aoc, che definisce semplicemente le azioni che permettono a una denominazione di esprimersi pienamente.
Le azioni si riassumono in tre stadi imprescindibili: il primo dà le regole base che devono essere applicate sull’insieme del podere da almeno tre anni (l’aratura del terreno, o inerbamento, dunque l’esclusione totale dei diserbanti), il secondo ne è il prolungamento naturale (vendemmie manuali in uno o più passaggi, e rispetto dell’integralità dell’uva prima che venga pressata), il terzo è in funzione anche delle condizioni climatiche (nessuna modifica dell’equilibrio naturale dei mosti o del vino, interdizione di ogni acidificazione, disacidificazione o aggiunta di zucchero sotto qualsiasi forma, nessuna chiarifica).
Dei Vini Veri, e della biodinamica, parlerò tra poco. Qui mi basta dire che più regole si introducono, più si certifica la patologia del sistema attuale. Più si va controcorrente, più si rischia di sbagliare (e infatti spesso i «vini naturali» o sono troppo veri, nel senso che sanno di «terra», o sono troppo strani, cioè pur di diversificarsi intraprendono dei percorsi tanto affascinanti in teoria quanto discutibili all’atto pratico della degustazione). Aggiungo a margine che un normale bevitore, che non ha mai fatto un abbonamento a «Porthos» né prende diecimila euro al mese, difficilmente può permettersi le cifre che spesso chiedono i produttori eccentrici – per quanto puristi – delle Triple A.
Delle mie trecento degustazioni mi ha affascinato il bizzarro universo incontrato. Ho accompagnato due amici, un ristoratore e un appassionato duro e puro, e ho subito capito due cose. Che la degustazione non la impari sui libri e che anche Robert Parker è un fingitore.
Per quanto studi, per quanto impari, non sarà mai abbastanza. Il mondo del vino è popolato da esperti che conoscono ogni etichetta, ben più dei feticisti da vinile. E la degustazione è più un talento che una pratica da insegnare. Certo, potrai avere le coordinate, più ti applicherai e più imparerai. Ma anche qui i praticanti si dividono in talentuosi, mediani e ignoranti. I miei amici capivano subito un vino, e nel farlo non recitavano la messa insegnata dall’Ais. «Sentivano», «comprendevano» il vino. Io, il più delle volte, lo intuivo (e questa, sì, è una cosa che intristisce: è brutto quando studi da Gasquet e ti ritrovi, al massimo, Davide Sanguinetti).
Al tempo stesso, mi sono reso conto che il corpo umano, dopo un po’, si distrae. Evapora, svanisce. Ognuno ha la sua soglia, ma di solito capita dalla ventesima degustazione in poi. A un certo punto scatta un clic nel tuo organismo e non sei più in grado di mantenere alta la concentrazione. Bevi meccanicamente, non focalizzi. Ti capiterà di valutare negativamente un vino che qualche settimana dopo – incontrandolo magari su una carta dei vini al ristorante – ti sembrerà splendido. Per questo dico che Parker, uno che tutti i giorni degusta in serie una quantità ciclopica di etichette, è un fingitore. Avesse anche la tolleranza più alta del mondo, non potrebbe comunque sentire ogni vino con la giusta concentrazione (oltre a ciò, non credo che degusti alla cieca, né credo che i suoi voti siano indipendenti dal nome dell’etichetta: ma questo è un altro discorso).
Al Vinitaly, come nelle rassegne alternative, incontri la più varia umanità. È come nella galassia di Douglas Adams. In questo senso, quella di seguito è una «guida galattica per enostoppisti».
Sputatori. Chi degusta, nelle fiere, non deglutisce il vino. Lo sputa. L’ho fatto anch’io nel 90% dei casi (col cavolo che il Loazzolo lo sputavo). Eticamente è un atto orribile, e c’è chi per questo ti caccia fuori dalla cantina (Soldera), ma è anche un gesto molto umano: se non sputassi, ti ubriacheresti. E non è neanche un errore tecnico: il vino può essere degustato anche senza berlo. Basta guardarlo, odorarlo e «masticarlo» con attenzione. Questo sarà sufficiente per attivare le vie retronasali e dare un responso attendibile (anche se lo pseudocalore di un vino, ovvero la sua forza alcolica, senza deglutizione è difficile da quantificare). Ogni azienda ha in dotazione le sue sputacchiere. Se un alieno cadesse tragicamente sulla Terra e si trovasse al Vinitaly, avrebbe dei terrestri un’idea bizzarra – anche se non so quanto errata. Li catalogherebbe come una stirpe di minorati che si muovono in maniera teatrale, emettendo gargarismi primordiali e perdendo continuamente materia rossastra dalla bocca.
Teatrali. Sono i sommelier, veri o presunti, giornalisti e no, che degustano non per degustare ma per farsi vedere mentre degustano. Scandiscono le loro impressioni, straparlano di bouquet e sentori eterei. Hanno la faccia, e la prossemica, perfette per andare in televisione. E il fatto che non la faranno mai li rende più patetici che fastidiosi.
Viniveristi. Vanno al Vinitaly con l’aria del savonaroliano che monda il mondo. Degustano con aria prima guardinga e poi schifata tutto ciò che reputano, dall’alto della loro fermissima opera evangelica, vino industriale e americanizzato. Li vedrai tempestare il produttore capitalista con domande proletarie («La fermentazione è libera o controllata? Usate lieviti indigeni o selezionati? Fate chiarifiche?»), per poi terminare la loro liturgia con il quesito-sentenza finale: «Fate uso di barrique?». Ogni loro giudizio sarà un’apocalisse. Nessun vino, al loro palato, avrà la giusta acidità e la necessaria purezza, ma apparirà inevitabilmente «privo di tensione», grasso, globalizzato. Quando, disgraziatamente, capita loro di reputare buono un vino industriale e meno buono un vino vero, mentono senza ritegno. Per puro amore della Causa, s’intende.
Selvaggi. Quelli che si imbucano alla fiere «perché si beve gratis», confondendo il Vinitaly con la sagra del Chianti a Greve. La prima ora ti stupiranno per la loro voracità alcolica (e ti faranno sentire un vile perché tu sputi e loro no). Alla seconda ora recheranno in viso i riverberi delle vinacce. A fine giornata useranno le sputacchiere come vomitatoi.
Quellicheodianolais. Gli autodidatti per i quali quelli dell’Ais, o di altre entità parallele e derivate, sono subumani che se la tirano e recitano il loro rosario scolastico della Buona Degustazione senza capire il vino. Odiano il sommelier, ancor più se ha fatto carriera, con una ferocia che ho visto solo nei pitbull addestrati per uccidere.
Quellichesannotuttoloro. Stirpe composita, trasversale, numerosa. Neodiplomati sommelier, novizi folgorati sulla via del Merlot, teledipendenti di «Gusto», lettori avidi del Gambero Rosso. Sgraneranno le loro sensazioni come se dispensassero il Verbo al volgo, ammantando la loro ignoranza di un infallibile scibile.
Cinquegrappolisti. Hanno letto le guide dei vini senza aver mai visto una puntata di «Report». Hanno eroicamente rinunciato al libero arbitrio, accettando per verità inconfutabile la valutazione della critica. Faranno incetta di vini premiati, e li riterranno straordinari prima ancora di averli degustati. Soprattutto prima.
I pin-up del vino. Venditori e affabulatori messi lì per recitare a memoria quello che i produttori gli hanno detto di dire. Ti diranno che l’Erbaluce «è erbaceo», che un Barolo «è speziato», che se state attenti il Barbaresco «è mentolato». E nel dirlo vi ricorderanno i vostri vecchi compagni di scuola, sgamati dopo aver copiato e chiamati alla lavagna dal professore perché provino a discolparsi. Con risultati disastrosi.
Gravneriani. Quelli che, come Gravner, fanno il bianco con il mosto a lungo – anzi lunghissimo – contatto con le fecce. I loro vini avranno i colori del Sauternes, i profumi di un Tokay ungherese e – a tradimento – il gusto di un vino secco «qualsiasi». Sono i Re dell’Eccentrico. A volte ti sembreranno straordinari, altre ti parranno dei ghiribizzi postmoderni partoriti da menti astruse. Non se ne può parlare male, perché ideologicamente sono innovatori e commercialmente valgono quanto tre Cézanne.
Concentratori. Quelli per i quali il vino o sembra inchiostro o è buono al massimo come collutorio.
Acetati. Quelli per i quali il vino deve avere un’acidità spiccatissima, cioè deve far molto salivare. Virtù preziosa, perché un vino senza acidità è più facile ma stanca subito. Gli Acetati sono una branchia staccatasi dai Viniveristi per fondare il loro partitino. Sono così oltre che gli capita di confondere un Triple A con l’aceto di mele.
Famolostranisti. Quelli che, alle degustazioni comparate, eleggono a miglior vino quello che ha il profumo più strano, chiara dimostrazione di attitudine contadina e proletaria.
No-barriquisti. Quelli che, se un vino ha fatto barrique, che se lo bevano gli altri.
Sassicaisti. Quelli che, se un vino non costa almeno duecento euro, l’è roba da comunisti.
Autoctonisti. Quelli per i quali più un vino è di nicchia, più è buono. Non è che lo pensino sul serio: si impongono di pensarlo. Nessuno, sotto giuramento, baratterebbe un bordolese con una vitovska.
Appassionati. Quelli che imparano.
Giornalosti. Quelli «imparati».
Vini veri, vini presunti
Il vino è come il guardiano della civiltà
occidentale.
JONATHAN NOSSITER
Ci vuole un poeta per fare un gran vino.
AIMÈ GUIBERT
Io evolvo all’indietro.
TEOBALDO CAPPELLANO
Ebbene sì, lo ammetto: l’ho visto anch’io Mondovino, il film no global di Jonathan Nossiter sulla guerra del gusto (e del vino).
Americano di passaporto, europeo per formazione, Nossiter è nato a Washington nel 1961. Il padre era inviato del «Washington Post», spesso lo portava con sé nei molti viaggi. Prima sommelier e poi regista, inizialmente come assistente di Adrian Lyne in Attrazione fatale e poi in proprio.
Mondovino è un film militante, costato cinque anni di lavoro e uscito nel 2004. Per quanto Nossiter lo abbia negato, propone una divisione sostanzialmente manichea – e, temo, discretamente vicina al vero – tra buoni e cattivi. Non posso dire fra tradizionalisti e innovatori: più esattamente, tra chi ha un’idea «culturale» di vino e chi invece lo concepisce unicamente come prodotto da mercato.
Per Nossiter «il vino somiglia alle persone, nella sua infinita complessità. Più di qualsiasi altra cosa del pianeta. Da sempre questa bevanda va ben oltre lo specchio dell’anima. È una delle più chiare espressioni sia della tradizione giudaico-cristiana sia di quella greco-romana». Tradizioni che non vengono tramandate rigidamente di padre in figlio, ma usate in modo fluido, moderno. «Il vino è come il guardiano della civiltà occidentale» sostiene Nossiter.
Analizzare oggi il mondo del vino diventa davvero un modo per capire cosa proviamo per il nostro passato e cosa stiamo preparando per il futuro.
Facile che per Nossiter i «buoni» siano i viticoltori vintage e i «cattivi» gli americani o americanizzati. Lo spettatore, sposando istintivamente la tesi del regista anche se di vino non capisce nulla, solidarizza con l’istrionismo bonario di Hubert De Montille, storico viticoltore di Borgogna, e con Aimé Guibert, produttore della Linguadoca, per il quale «ci vuole un poeta per fare un gran vino».
È stato Guibert a orchestrare una delle più stoiche resistenze alla globalizzazione. È accaduto quando Mondavi, la potentissima azienda californiana fondata nel 1966 dall’omonima famiglia e quotata in borsa dal 1993, con un fatturato annuo di cinquecento milioni di dollari, a inizio Duemila ha provato a comprare ettari di terra ad Aniane, il piccolo paesino della Linguadoca dove opera Guibert.
Mondavi avrebbe disboscato e rivoluzionato il paesaggio. La famiglia americana, di origini marchigiane, si era già accordata con il sindaco socialista. Poi ci furono le elezioni. Vinse il candidato comunista, che negò il placet ai Mondavi.
Mondovino identifica i colpevoli della omologazione del gusto in Michel Rolland e Robert Parker. Il primo è il più conosciuto enologo del mondo. Ricchissimo e potentissimo, di lavoro fa il wine consulent. Indirizza il gusto di un vino verso la moda del mercato.
«Rolland è come uno Spielberg del mondo del vino» dice Nossiter. «Una pura espressione della nostra epoca. Istintivamente capisce le tendenze e il gusto del suo tempo e sa creare un prodotto che anticipa ciò che piacerà al consumatore.» Dal suo laboratorio a Pomerol offre consulenze tecniche per più di quattrocento vini di Bordeaux. È consulente di svariate aziende, in dodici paesi, tra cui Mondavi e Antinori. Lavora anche in Marocco, in Algeria, in Argentina, perfino in India.
Arnaldo Etchart, uno dei più importanti proprietari terrieri argentini e suo cliente, ha detto che «Rolland ha completamente trasformato il vino argentino, che ora, grazie a lui, è totalmente diverso da quello che era quando i gesuiti introdussero la vite in Argentina».
Il cellulare di Rolland squilla di continuo. Glielo passa un autista-servo. Ride sempre, ha modi affabili, è sicuro di sé. Mi ha colpito il fatto che fumi dalla mattina alla sera: curioso, per un sommelier. È la prima cosa che al corso ti dicono di non fare, per non falsare o addirittura vanificare la degustazione.
Rolland ha una concezione molto chiara della diversità di un vino: «È quando un vino è cattivo e non mi piace. Il vino dei campagnoli». Amen.
L’altro «cattivo» è Robert Parker. Il più potente critico del mondo del vino. Vive a Monkton, nel Maryland, dove le vigne non crescerebbero neanche se costrette.
Dopo aver fatto il giurista per dieci anni, nel 1978 ha fondato Wine Advocate ed è diventato famoso a livello internazionale grazie ai suoi commenti sulla vendemmia di Bordeaux del 1982, molto simile a quella californiana. Da allora Parker è il critico più influente al mondo. Con i suoi giudizi, espressi in centesimi, influenza pesantemente il mercato e «decide» i prezzi: una sua recensione positiva fa lievitare la quotazione di un vino, una sua stroncatura è il bacio della morte.
Secondo Guibert, «Parker è il pifferaio magico del mondo del vino. Ha inventato la canzone irresistibile per i vini di Bordeaux». Come fa questa canzone? «Quello che mi piace è buono, quello che mi piace è migliore. E la gente dice: va bene.»
La vendemmia bordolese del 1982 ebbe una particolarità: i vini vennero naturalmente dolciastri, morbidi, facili. Parker aveva previsto che quella vendemmia sarebbe stata eccellente. Lui divenne il guru. I prezzi salirono alle stelle.
E gli stessi francesi, per primi, si adeguarono a quel nuovo gusto da mercato.
Si chiama «parkerizzazione» del vino. Oppure «napalizzazione», da Napa Valley, il distretto dove operano i Mondavi. Parker e Rolland sono molto amici, e insieme hanno imposto, lentamente ma inesorabilmente, il loro gusto a tutto il mondo. Perfino una terra ricca di storia enologica come Bordeaux si è piegata al loro volere.
Il vino «parkerizzato» è sempre uguale: morbido, dolciastro, facile, mai tannico, vanigliato. Molto colorato, molto concentrato.
Sono i vini che i puristi (e fortunatamente non solo loro) chiamano «vini di Pinocchio», perché l’aroma del legno copre il varietale del vitigno, e più chiaramente ancora vini-imbroglioni, vini-traditori: vini-puttana, perché all’inizio sono accattivanti e piacevoli, ma dopo pochi secondi scompaiono e non te li ricordi più.
I vini europei, quelli importanti, nascono naturalmente inclini all’invecchiamento perché un vino riflette i cambiamenti culturali e, come sostiene De Montille, «il modo in cui produci vino riflette chi sei». L’Europa, con il suo vino, racconta(va) il suo carattere complesso e la sua storia millenaria. Di contro, gli Stati Uniti non hanno storia alle spalle. Per questo anche il loro vino è una tabula rasa, che nasce libera da orpelli ideologici e vetuste tradizioni da rispettare.
Poiché senza identità, gli americani hanno eletto a terroir la barrique. Da noi il vino è anche figlio della mineralità di un terreno, da loro al posto del calcare c’è l’abuso della botte piccola, con legno ipertostato e nuovo di quercia.
Robert Parker è il Gran Druido della non-storia, dell’americanizzazione spensierata. Dice di essere molto orgoglioso «per avere portato un punto di vista americano, democratico, in un ambiente elitario e reazionario: la mia è stata una rivoluzione». È il George Bush del vino, convinto veramente (cito ancora Nossiter) che «il destino gli abbia affidato la missione etica di diffondere il gusto del vino californiano in tutto il mondo per soddisfare i palati meno esigenti, permettendo a un numero più elevato di consumatori di apprezzare il vino». La storia, la tradizione non hanno più importanza. Un vino prodotto da pochi anni può essere nettamente superiore a quello che ha alle spalle decenni di storia: l’unico metro qualitativo è il suo gusto. Infallibile, non meno di quello di Rolland.
Per inclinazione ideologica sono allergico alle generalizzazioni. Ancor più a quell’alternativismo di professione che vuole l’America come identificazione del male. La realtà è sempre più sfaccettata, e sorrido all’idea che i detrattori di Mondovino abbiano (genialmente) storpiato il titolo in Mondavi no.
È però vero che negli anni Settanta il vino californiano era eccessivo e tecnicamente non perfetto, ma radicale e sperimentatore, come i primi film contemporanei dei Cassavettes e degli Scorsese.
Con il reaganismo il vino diventa più compiacente, più ruffiano. Più edonista. È lì che inizia il deliberato progetto di omogeneizzazione del gusto, la negazione del cosmopolitismo, la globalizzazione della produzione vinicola secondo standard commerciali.
Il mondo del vino diventa così Vinowood, nel senso di «vino di legno» ma più ancora di una Hollywood alcolica che esautora i David Lynch e incentiva la produzione su vasta scala dei film (vini) di cassetta, delle «bottiglie a lieto fine», della bevanda furbetta che all’inizio sembra quasi buona e poi non ti lascia nulla. Come un film di Muccino.
E l’Europa? La cara, vecchia Europa? Si è fatta travolgere, come nel Dopoguerra dal boogie-woogie. Non ha più creduto in se stessa. Si è buttata pure lei sui vini parkerizzati, sui vini-Muccino, affidandosi mani e piedi ai consigli dei demiurghi simil-Rolland. Ha fatto come il Nuovo Mondo, come i produttori di Cile e Argentina: se il nuovo gusto è questo, se la strada per vendere la tracciano loro, siamo noi a sbagliare.
Perfino una gente antica come quella di Langa, come visto, si è fatta influenzare. E via, con i rotomaceratori, con i concentratori, con l’abuso di barrique. Con la «guerra del Barolo», che è poi guerra del non-invecchiamento, malsana versione della Forever young di Bob Dylan.
Robert Parker non può aspettare dieci anni per valutare un vino. James Suckling, la prima firma di «Wine Spectator», quello che ha o avrebbe inventato il termine Supertuscans, non può attendere a lungo per dispensare i suoi «96» che faranno schizzare i prezzi. Ed ecco allora che i vini, anche quelli europei, si fanno il maquillage e «frodano» per essere pronti, anticipatamente, al momento della degustazione dei critici (chi se ne frega, poi, se tra un anno quel Barolo o Bordeaux andrà buttato via). Al tempo stesso, critici ed enologi fanno cartello e solidarizzano con i produttori. Si creano amicizie, ci si scambiano favori. Il giornalista diventa «giornaloste», l’inviato speciale diviene «invitato speciale». In cambio di un bel voto si ricevono regali a casa. Chi è fuori dalle grazie dei guru rimane tagliato fuori. Chi si mostra compiacente ha la benedizione.
Perché i Supertuscans piacciono a «Wine Spectator»? Perché sono i vini toscani più bordolesi e «facili» da bere, ma più ancora perché sono gli unici vini toscani senza storia. Per questo un Ornellaia prende «97» e passa dalle settantacinquemila lire di sette anni fa agli attuali centodieci euro. E, beninteso, è solo un caso che i voti alti siano coincisi con la cessione della tenuta da Ludovico Antinori ai Mondavi.
Mondovino è probabilmente troppo semplicistico come punto di vista. Magari fosse tutto bianco o nero. Fa però un po’ paura che le sorti del vino mondiale dipendano dalle degustazioni in serie (più di cento al giorno, chissà come farà) di un americano del Maryland che si vanta di essere circondato da bulldog e segugi con problemi di aerofagia (che, immagino, provocheranno qualche problema in sede di esame olfattivo e riconoscimento del bouquet). E non nascondo di aver goduto del fatto che l’uscita di Mondovino abbia fatto arrabbiare molti soloni (in Italia, più di tutti, ad alterarsi sono stati Frescobaldi e Antinori, che nel film si lanciano in commenti un po’ elastici su Mussolini e sul collaborazionismo dei loro avi con la dittatura fascista).
Un modo semplicistico, ma non campato in aria, per raccontare il presente del vino è quello di dividere il panorama enologico tra fiancheggiatori e resistenti, collaborazionisti filo-parkeriani e partigiani simil-roddoliani. È quanto sosteneva anche Veronelli con il suo paradosso: «Il peggior vino contadino è migliore del miglior vino d’industria».
Di sicuro ha ragione Nossiter, quando afferma che «qualsiasi cosa pensiate di ciascun personaggio sarà esattamente quello che penserete del vino che produce».
Facciamo un altro po’ di glossario, sì? Sì. Il mondo del vino è pieno di definizioni astruse, dalla terminologia della degustazione alla classificazione fantasiosa di alcuni vini. I vini-Frankenstein sono quelli che poi non digerisci. I vini-body building sono quelli gonfiati con gli anabolizzanti del vino (tipo i concentratori). I vini-puttana, o per me vini-Muccino, sono quelli napalizzati e parkerizzati, accattivanti al primo sorso ma senza persistenza e men che meno identità.
I vini-garage sono quelli di A good year, bottiglie leggendarie senza etichetta, mai messe in commercio, custodite gelosamente nelle cantine (i garage) di produttori francesi troppo innamorati delle loro favorite per poterle condividere con altri.
I vini estremi sono i vini eroici, nati da zone geografiche coltivate e impervie, dalla Valle d’Aosta alla Valtellina, dalle Cinque Terre all’Etna. Li ha sdoganati anche Salvo Foti, lodato enologo a cui si deve la riscoperta della viticoltura etnea (tra i produttori c’è anche il cantante dei Simply Red, Mick Hucknall, la cui azienda si chiama – molto originalmente – Il Cantante).
E poi ci sono i vini veri. La definizione è un po’ pretenziosa (lo stesso Foti prefeirebbe vini vivi, dove vivi sta per «di vigna» e «di vigneti»). È anche per questa aria vagamente supponente che alcuni produttori, come Flavio Roddolo e Ampelio Bucci, preferiscono correre da soli (pur somigliandogli).
Mi torna in mente la battutaccia di Marco Molesini, proprietario della migliore enoteca di Cortona, che quando sente parlare di vini veri storce la bocca e dice: «Perché, gli altri cosa sono, vini finti?». Non ha tutti i torti.
Sarà capitato anche a voi, almeno una volta, di incontrare un sommelier o un ristoratore che, quasi a tradimento, vi ha chiesto se volevate provare un vino vero. O, addirittura, un vino biodinamico. E voi, a quel punto, sprovveduti e troppo piccoli per relazionarvi a una simile elargizione di scibile, o avete detto sì senza sapere assolutamente nulla di biodinamica, o avete detto no temendo che il sommelier alludesse a chissà quale mistura esoterica.
È bene che sappiate, invece, di cosa si parla. Per farlo occorre alludere a Rudolf Steiner. È vissuto a cavallo di Ottocento e Novecento. Trattandosi di un uomo che, nella sua autobiografia, ha scritto cose come: «Le forze che determinavano il mio destino esteriore non potevano più, come prima, formare una unità con le direttive interiori che risultavano dalle mie esperienze nel mondo spirituale», capirete bene che inerpicarsi in una esegesi della sua vita è decisamente troppo per le mie forze miseramente umane e poco spirituali. Potrebbe forse farlo Franco Battiato, non io.
M’importa però dire che, nel corso della sua poco canonica esistenza, il filosofo e antroposofico Steiner affrontò anche i problemi legati all’agricoltura. (La questione non è di facile comprensione, devo per forza affidarmi diligentemente e un po’ pedantemente al sito ufficiale italiano, www.rudolfsteiner.it.) Se ne occupò nel 1922, quando due giovani naturalisti gli chiesero se le sue teorie sui processi e i ritmi della vita potessero applicarsi anche al mondo dell’agricoltura. Steiner offrì loro una serie di insegnamenti pratici sulla composizione di ingredienti vegetali, che, aggiunti ai concimi naturali, ne avrebbero aumentato l’efficacia. Nello stesso anno dette a un agricoltore qualche indicazione complementare sulla maniera di coltivare i terreni, escludendo l’uso di concimi chimici.
Da questi presupposti è sorta quella che viene chiamata agricoltura biologico-dinamica. Nel 1924 Steiner tenne a Koberwitz, presso Breslavia, una serie di otto conferenze che costituirono poi il suo «Corso di agricoltura». Con esso dimostrò come i risultati della ricerca spirituale possano condurre a una concezione della natura completamente nuova.
Nella cooperazione che ha luogo fra il suolo, l’acqua, l’irradiazione solare, la vita animale e la crescita delle piante, sono da distinguere due specie di forze formatrici: terrestri e cosmiche. Nel mondo vegetale, l’azione delle forze terrestri è visibile in fenomeni quali la crescita e la produzione delle sostanze; l’azione delle forze cosmiche in fenomeni quali la maturazione e la fecondazione.
Steiner provò a dimostrare come in agricoltura si possano fino a un certo punto stimolare o frenare quelle due azioni, tramite alcuni procedimenti naturali: il trattamento dell’humus con prodotti speciali, la presenza nel letame di alcuni ingredienti vegetali introdotti nell’alimentazione del bestiame, la ripartizione delle colture in conformità delle esigenze biologiche del terreno ecc.
L’agricoltura fu l’ultima cosa di cui Steiner si occupò prima di morire. Non fece in tempo a codificare una metodologia, ma ne gettò le fondamenta.
I tre principi della biodinamica sono: mantenere la fertilità della terra; rendere le piante immuni alle malattie e ai parassiti; produrre alimenti di qualità più alta possibile.
La biodinamica viene spesso descritta come un modo di coltivare senza concime chimico e senza veleni. È un metodo caratterizzato dalla cosciente utilizzazione della forza naturale. Tre sono le espressioni fondamentali di questa forza: la liberazione nella terra di materie nutritive necessarie alla pianta, l’inspirazione di sostanze dell’atmosfera alla terra per mezzo delle piante e l’autoregolazione che esiste in tutti gli organismi viventi.
Il principio fondamentale della biodinamica dunque è attivare la vita nella terra in modo che le sostanze presenti al suo interno in abbondanza possano essere liberate e assimilate dalle piante nella misura necessaria.
L’inspirazione di sostanze dall’atmosfera è il secondo processo naturale. Solo in piccola parte (circa l’1%) le piante costruiscono la loro massa vegetativa dalla terra. Per il resto utilizzano anidride carbonica, acqua e azoto, reperibili nell’humus in grande quantità. Con la costante distruzione e morte vegetativa l’azoto è messo a disposizione della vegetazione in crescita. La presenza di concime chimico frena e disturba questo processo naturale. Con un surplus di azoto nell’humus si rischia lo sviluppo di batteri che liberano l’azoto dalla terra provocando una perdita di azoto invece di un’inspirazione.
Il terzo processo naturale – apprendo dal sito di Steiner – caratterizza tutti gli organismi viventi e i sistemi ecologici: si tratta dell’autoregolazione, ovvero della capacità di adattamento alle condizioni esterne. Lo incontriamo nei nostri muscoli che si rafforzano usandoli e nella nostra pelle che si ispessisce dove viene consumata. Viceversa, questa caratteristica è del tutto assente nel mondo inorganico dove il prolungato uso porta alla distruzione, non alla costruzione.
La componente «dinamica» è legata al rispetto del Calendario delle semine e delle fasi lunari. La luna governa i liquidi: le maree e il ciclo mestruale ne sono solo due esempi.
In Italia ci sono ancora moltissimi contadini che seminano, potano e travasano seguendo le fasi della luna (consiglia di farlo anche la Cantina di Quistello). Nel suo corso di agricoltura Steiner parla degli influssi dei vari pianeti sulla terra, ma nella pratica si ricorre più semplicemente al Calendario delle semine. Esso è il risultato di venti anni di ricerche e di studi sull’influenza lunare in agricoltura, condotti da una studiosa tedesca, Maria Thun. Fu lei a scoprire che la pianta sviluppa più o meno ognuna delle sue parti secondo la posizione della luna al momento della semina.
Seguendo il passaggio della luna attraverso lo zodiaco che fascia la sfera celeste, Maria Thun ha osservato che la pianta sviluppa la parte radicale se la semina avviene quando la luna transita in certi segni, sviluppa invece i fiori se transita in altri e così via.
Come per i segni zodiacali, le quattro parti della pianta si possono riferire agli elementi: Radice-Terra, Foglia-Acqua, Fiore-Aria, Frutto-Fuoco. Per esempio, quando la luna transita nei segni di fuoco, seminiamo piante di cui vogliamo un buon sviluppo fruttifero. Quando la luna transita nei segni d’acqua seminiamo piante di cui vogliamo usare le foglie. Quando la luna transita nei segni di terra seminiamo piante di cui raccoglieremo radici e tuberi. Quando, infine, la luna transita nei segni d’aria semineremo piante di cui vogliamo i fiori.
L’ho fatta lunga, lo so, ma era necessario per farvi capire cosa sono i vini biodinamici: sono vini nati da coltivazione e agricoltura biodinamiche. Non «solo» vini biologici, ma vini che oltre alla rinuncia totale ai prodotti chimici rispettano il Calendario delle semine e cercano di «rigenerare la terra».
È solo una moda, un ghiribizzo new age? Può essere, ma se applicata al vino molte cose cambiano. Il vino biodinamico è partito proprio dalla Francia, come reazione allo sbracamento dei vini di Bordeaux di fronte all’egemonia parkerizzante.
L’aspetto caratteristico del vino biodinamico, abbiamo detto, è dato dal legame con la terra, dalla ricostituzione della fertilità del terreno e dalle tecniche di coltivazione. Ma è anche la fase enologica, quella che concerne le «pratiche di cantina», a essere determinante.
Il disciplinare Demeter France sulla vinificazione, apprendo da www.vino-biologico.it, ammette l’uso dell’anidride solforosa, nella quantità massima di 70 mg/l per i vini rossi, 90 mg/l per i rosati e i bianchi secchi, e 60 mg/l per vini spumanti e frizzanti. I lieviti, ovviamente non Ogm, sono ammessi solo nella rifermentazione in bottiglia degli spumanti. Sono ammessi inoltre: bianco d’uovo certificato Demeter o biologico; bentonite certificata priva di impurità da diossina e arsenico; carbone vegetale per i vini frizzanti; termoregolazione; stabilizzazione a freddo; uso di anidride carbonica e azoto quali gas inerti; filtrazione con filtri a cellulosa o terre diatomacee. (A proposito di ciò che compone effettivamente una bottiglia di vino, un’azienda vinoverista come la grossetana Massa Vecchia – encomiabile il suo Aleatico – chiede che nelle etichette vengano riportati gli ingredienti, a uno a uno, come si fa con i generi alimentari. Non è, purtroppo, una battuta.)
Per il confezionamento, vanno privilegiati imballaggi riciclabili. Sono ammessi il vetro, i tappi di sughero naturale marchiati soltanto a fuoco (senza trattamenti ionizzanti o al cloro), la cera.
Alla pulizia e all’igiene della cantina il disciplinare dedica un paragrafo specifico, sottolineando che l’igiene è indispensabile per ottenere un prodotto di qualità. Per questo, nel caso in cui non siano sufficienti metodi come la pulizia ad acqua, a vapore o meccanica, sono autorizzati: acido perossiacetico, acqua ossigenata, ozono e soda caustica.
E il vino vero? È qualcosa di simile, non di identico. Paolo Massobrio l’ha chiamato «l’Aventino di Enolandia». Il gruppo Vini Veri riunisce uomini contro come Josko Gravner, Gianfranco Soldera, Angiolino Maule, Teobaldo Cappellano. È un’associazione che ha anticipato, e poi sposato, l’idea di «resistenza» propagandata da Nossiter, il quale infatti li stima molto: «In Italia si sta lottando con grande passione, non ci sono mai stati tanti viticoltori che cercano di esprimere se stessi. Penso al lavoro di Vini Veri, che producono solo vini naturali senza sostanze chimiche, in cui c’è amore per la natura e per la terra. Puoi trovare bottiglie che vanno dai sei ai trenta euro con un’ottima scelta come il Pico, un vino prodotto nel Veneto. La difesa del territorio non è un atto conservatore, al contrario esprime un progetto di vita rivoluzionario contro forze oscure che vogliono tutti uguali».
Il Gruppo Vini Veri ha sede a Serralunga d’Alba ed è nato nel 2003 per reazione all’omologazione del gusto ma anche al marketing del vino, alle trasmissioni televisive e alla grandeur di fiere come Vinitaly, «dove la qualità risiedeva più nella bellezza degli stand che nei vini dati in degustazione».
Nel «manifesto», il presidente Cappellano spiega le ragioni del gruppo. «Cosa poteva accomunare i vini della Toscana con quelli del Piemonte o del Veneto? Cosa ci faceva sentire così “a casa”, così uniti, se pur così diversi? Un’analisi, già nei primi incontri, ci aveva fatto capire che tutti compivamo gli stessi gesti in campagna; che al vino si prestavano le stesse attenzioni; che con i clienti si applicava la stessa cordialità, tanto da trasformarli, nel breve tempo, in amici. Tutti con la stessa sensibilità per il territorio, tutti con la convinzione che la nostra ricchezza risieda in quanto ci è stato lasciato e in quanto saremo noi capaci di lasciare.»
Chi sono? «Non siamo biologici, anche se la nostra regola impone condizioni di vigna e di cantina ancora più severe di quelle delle varie “certificazioni”. Non siamo biodinamici, anche se molti di noi sono vicini alla filosofia di Steiner. Non lo siamo perché sappiamo che purtroppo le regole possono essere cavalcate dalle mode, non lo siamo perché sappiamo che nulla è più facile che imporre regole per poi violarle. Le grandi ricchezze nascono così. Vivere sull’ingenuità degli altri è facile, lo hanno fatto anche con noi quando ci dicevano che certe compromissioni con la chimica dell’industria portavano a risultati “veloci” e non a un impoverimento della terra e delle nostre menti. Non eravamo più capaci di farci sorprendere dalla Natura, non eravamo più capaci di crescere nel “sapere” perché questo ci veniva offerto, semplificato a loro uso, in un pacchetto preconfezionato con indicate le dosi e le modalità d’utilizzo. Noi ci siamo ribellati, riteniamo che la “regola” che sottoscriviamo sia un impegno così grande da estrarre da noi la parte migliore, sappiamo che violare questa ci costerebbe l’espulsione dal gruppo e la rivalsa legale di questo nei confronti di chi ha violato il patto, ma soprattutto siamo tornati a vedere l’intelligenza (quella che era sempre stata negata) di chi ci aveva preceduto, siamo tornati alla conoscenza del passato, siamo tornati a guardare la ricerca con gli occhi di chi vuol comprendere e non solo accettare. Questo è il gruppo Vini Veri.»
Il loro «manifesto» elenca i problemi attuali di vigna e vino, per esempio la «vigna intesa solo come fonte di reddito immediato» o «l’omologazione dei profumi e del gusto dei vini»; l’impegno di ritornare «alla ruralità responsabile».
Si sono dati regole base in merito alla coltivazione: esclusione di diserbanti e disseccanti, potature e vendemmie fatte manualmente, utilizzo esclusivo di concime stallatico o vegetale (oppure rinuncia alla concimazione), niente Ogm e clonazioni. Uso preferenziale di ceppi autoctoni, utilizzo di prodotti usati in agricoltura biologica certificata.
Per quanto riguarda le pratiche di cantina, siamo agli antipodi di Rolland, che certo le riterrebbe (o ritiene) «campagnole». Utilizzo esclusivo dei lieviti indigeni presenti nell’uva raccolta, divieto di aromatizzanti biologici e chimici, e di concentrazioni (tranne l’appassimento naturale). Nessuna aggiunta di mosti rettificati, salvaguardia delle temperature naturali di fermentazione. No ai filtri che sterilizzano il vino. Limite massimo di anidride solforosa inferiore o uguale alla certificazione biologica.
Quando si è costretti a fondare un gruppo per sancire regole che dovrebbero essere alla base del lavoro di qualsiasi produttore, non è mai un buon segno. Vini Veri testimonia non una norma, ma una patologia, alla quale si prova a reagire facendo «resistenza». Il piccolo produttore romantico contro il colosso industriale brutto, sporco e cattivo.
Le forze sono clamorosamente impari. Non solo i prodotti di Vini Veri sono di nicchia, ma – come il più pleonastico partitino di sinistra – il gruppo si è frammentato dopo pochi mesi di vita. Molto entusiasmo, buona qualità, modi quasi sempre cordiali, ma certo la frammentazione non aiuta a capire la piccola supernova dei vini biologici, siano essi veri, naturali, biodinamici o quant’altro.
C’è poi il problema, non nuovo, che nessuno è santo e che il viticoltore non è quasi mai un missionario. Anche l’enologo resistente deve resistere, cioè sopravvivere, cioè guadagnare. Come cantava Giorgio Gaber in Destra/sinistra, «i concerti negli stadi sono di sinistra, ma i prezzi sono un po’ di destra». Vale anche per i vini biologici: l’ideologia è proletaria, il prezzo (spesso) reazionario. Quando Velier dona le stimmate delle Triple A ai vini biologici, essi diventano seduta stante una sorta di Docg dei biologici, dei «superdinamici», con immediata lievitazione dei prezzi.
Quando bevi un Soldera o un Rinaldi, ormai lo sappiamo, paghi la qualità, che è alta, ma anche l’ideologia e la favola di Davide versus Golia. Paghi la mitologia della «resistenza», paghi il tributo al fascino intellettuale del partigianato. E allora corri il rischio, a volte, di non essere altro che un Michel Rolland di sinistra.
C’è poi un altro aspetto, e qui è colpa nostra. Vostra. Siamo così assuefatti al sapore omologato, siamo così attratti – legittimamente – dal vino morbido e concentrato, facile e colorato, vanigliato e rotondo, che molto probabilmente non saremmo in grado di capire il «vino vero». A volte perché sarebbe così «vero» e privo di trattamenti da aver conservato qualche difetto. Più spesso, non lo comprenderemmo. Peggio: ci farebbe paura. Nell’ambiente si dice che il vino naturale si riconosce perché «puzza». È una mezza verità, nel senso che il profumo originale dell’uva e del vino ce lo siamo così dimenticato da reputarlo ormai sgradevole. Un «vino vero» avrà per forza sentori meno aggraziati di un vino napalizzato. Terra bagnata, sottobosco, funghi, tartufo. Sarebbe «difficile», «complesso», «impegnativo».
Sarebbe un nettare senza didascalie. Sarebbe un vino strano. E poco importa, poi, se in realtà, agli occhi della terra, gli strani siamo noi.
Nettare da papi (Picolit)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Colli Orientali del Friuli Picolit 2004 – Ermacora
Musica di degustazione:
Bob Dylan, Unplugged
Piacciono a tutti, al punto che nei concorsi strappano sempre più punti di quanto meritino: i vini dolci. Lo zucchero è qualcosa che si insegue, per deformazione politically correct come pure per indole diabetica.
Nessuno ha la babele di vini dolci che ha l’Italia. Vini costruiti, inventati dall’uomo, nati da pratiche sadiche cui vite e acini devono assoggettarsi: vendemmie tardive, esposizioni prolungate al sole, appassimento, formazione di muffe. Prima di diventare vino dolce, gli acini appariranno brutti, rinsecchiti, svuotati.
Alla base dei vini dolci c’è la volontà dell’uomo di ridurre la percentuale di acqua presente negli acini. Per far questo, spesso, si adotta la «vendemmia tardiva», ovvero si ritarda di un po’ la raccolta dei grappoli. L’attesa farà diminuire acqua e acidi, permettendo al contempo l’aumento di zuccheri (fruttosio soprattutto, più dolce del glucosio, che invece si trasforma nelle prime fasi della maturazione). Più zucchero vorrebbe dire anche maggiore gradazione alcolica, ma a un certo punto la fermentazione verrà interrotta (per esempio abbassando la temperatura e inibendo i lieviti), a tutto vantaggio di un percettibile residuo zuccherino. Altre volte si procede all’appassimento, dando vita ai «vini passiti». L’appassimento in rari casi sarà effettuato lasciando i grappoli sulla pianta (Aleatico di Gradoli); sporadicamente i grappoli verranno stesi sotto il sole se la clemenza del clima lo consentirà (Greco di Bianco, Moscato di Pantelleria). Più spesso l’appassimento sarà artificiale, in capannoni o vecchi fienili (in tutte le regioni del Nord Italia).
Esistono poi i vini muffati, chiamati così perché gli acini sono attaccati dalla cosiddetta muffa nobile, la Botrytis cinerea (per questo sono anche chiamati vini botritizzati). Gli esempi più noti sono il Sauternes francese (sémillon, sauvignon, muscadelle) e il Tokay ungherese (hárslevelu e muscat à petit grains). Da noi i più noti sono i muffati orvietani. Sviluppandosi sulla buccia degli acini, la muffa forma un feltro colorato, che provoca l’appassimento per evaporazione e la conseguente concentrazione di tutte le sostanze estrattive.
La forza della muffa nobile è che il suo intervento è diretto: produce glicerina (responsabile della morbidezza del vino) e sostanze aromatiche, trasforma diverse componenti, consuma alcuni acidi e dà inconfondibili sostanze odorose.
I muffati, che piacciono a tutti e quasi sempre costano molto, sono una particolare categoria di vini che – tra le altre cose – permettono l’uso di vocaboli Ais solitamente «negativi» come «viscoso» e «pastoso».
Fanno parte dei vini muffati anche gli impronunciabili Trockenbeerenauslese (vuol dire «acini raccolti appassiti»). Li fanno in Austria e Germania, hanno un titolo alcolometrico basso (sette-nove gradi) e sono a base di riesling (più acidi) e gewürztraminer (più morbidi).
Esistono poi i vini di ghiaccio, gli Eiswein (Austria, Germania) e gli ancor più strepitosi Icewine canadesi (Ontario, soprattutto). Anche questi sono a base di riesling e gewürztraminer, solo che qui – con condizioni climatiche particolarissime – i grappoli sono raccolti soltanto in gennaio, avvolti da un velo ghiacciato, quando l’acqua congela all’interno degli acini. Durante la raccolta e la pigiatura, la temperatura è bassissima, sotto i sette gradi, per ottenere un mosto molto povero d’acqua ma denso di zuccheri, acidi, sali e altre sostanze estrattive. Ultimamente anche in Italia c’è chi sta provando a fare vini di ghiaccio, per esempio in Piemonte (da moscato bianco) e in Trentino, con risultati controversi.
Questi vini avranno colore giallo ambrato, se da uve bianche (la larghissima maggioranza), e profumi riconoscibilissimi di miele, frutta molto matura quando non sciroppata, secca e candita. Sono caratterizzati dalle componenti morbide (dolcezza, morbidezza, alcolicità) e per questo spesso a fare la differenza è la loro capacità di sapersi bilanciare con una buona mineralità e un’apprezzabile acidità, che permetta di ripulire la bocca e sappia evitare la spiacevole sensazione di «stuccare» e stancare il palato. La temperatura di degustazione è elastica, va dai dieci ai sedici gradi circa, a seconda che si parta da uve bianche o rosse. Dipende anche dal modo in cui li si beve, se da soli (da meditazione) o come abbinamento.
Diversi, ma in qualche modo analoghi, sono i vini liquorosi o fortificati, come Marsala, Sherry, Porto e Madera. In questi casi il titolo alcolometrico sarà molto alto, e per la loro produzione si useranno mistella (mosto reso infermentescibile per aggiunta di alcol), alcol etilico, acquavite d’uva, mosto concentrato o cotto.
La ricchezza italiana di vini dolci è tale che ormai esistono guide e libri dedicati esclusivamente a questa tipologia. È una babele meravigliosa. Il Moscato sarà bianco (l’astigiano Loazzolo), giallo (Alto Adige, Fiori d’Arancio Colli Euganei), rosa (Alto Adige) e rosso (il bergamasco Moscato di Scanzo). Anche la Malvasia regalerà prodotti diversissimi, sia essa rossa (di Casorzo e Castelnuovo Don Bosco, entrambe piemontesi) o bianca (delle Lipari, di Bosa, di Pantelleria).
Il Vin Santo sarà da nosiola se Trentino, da malvasia di candia aromatica se dei Colli Piacentini e da trebbiano o sangiovese se toscano.
In Veneto troverete il Breganze Torcolato da vespaiolo, il Refrontolo Passito da marzemino, il Torchiato di Fregona da prosecco e verdino, e il Recioto (di Soave, da garganega; della Valpolicella, a base corvina).
L’Aleatico sarà dell’Elba, di Gradoli, di Puglia. Puglia, Sardegna e Sicilia vi regaleranno vini dolci a base moscato (Noto, Pantelleria, Trani, Siracusa, Sorso-Sennori). Incontrerete il Greco di Bianco di Calabria (nettare rarissimo) e la Vernaccia di Oristano. Proverete il famoso Orvieto dolce e il Montefalco passito, il vino dolce ottenuto dall’uva italiana più tannica (sagrantino).
E prima o poi tornerete in Friuli. Apprezzerete il Ramandolo, il Verduzzo Friulano. E capirete i papi del Settecento, e il conte Pasquini, quando vi imbatterete nel Picolit.
Ho fatto tappa qui, ad Arta Terme, nel cuore della Carnia, perché ho creduto che il modo migliore per capire il Picolit fosse prenderlo da lontano.
Cresce – poco – nella zona dei Colli Orientali del Friuli e del Collio Goriziano. È il vanto enologico del Friuli. Terra di bianchi che, per convertirsi al mercato, negli ultimi dieci anni ha provato a fare anche rossi dagli autoctoni: pignolo, schioppettino, refosco dal peduncolo rosso, tazzelenghe.
Dal 2006 il Picolit Colli Orientali del Friuli è diventato Docg. La seconda «garantita» friulana, dopo un altro vino dolce, il Ramandolo, a base verduzzo. Un verduzzo particolare, però: è detto «rascie», un biotipo raro circoscritto nella zona di Nimis e Tarcento, in provincia di Udine. Il verduzzo giallo è di scarsa diffusione, il più noto e comune è quello verde: da esso si ricava il Verduzzo Friulano classico, vinificato secco o dolce.
Ho scelto il Picolit, come emblema dei vini dolci italiani, perché mi affascina la sua eccezionalità. È inconfondibile e, di fatto, non ha ancora capito se voler sopravvivere o no. È caratterizzato da un fenomeno detto acinellatura o aborto spontaneo: è lo sviluppo anomalo e irregolare del grappolo, nel quale una parte degli acini risulta essere insufficientemente sviluppata e immatura (acinelli) a causa di una fecondazione parziale dell’infiorescenza, il più delle volte dovuta alla perdita precoce dei fiori derivante da avverse condizioni atmosferiche.
Il picolit è raro e ormai cresce solo a est di Udine e nel Collio Goriziano, a pochi passi dal confine sloveno. I grappoli sono spargoli, è una produzione a perdere. Basti dire che, in tutta Italia, gli ettari vitati a picolit sono soltanto cinquantacinque. Niente. Anche per questo le bottiglie (da mezzo litro) di Picolit sono tanto introvabili quanto care.
Nel 2006, al Vinitaly, si brindò all’elezione del Picolit a Docg. Quest’anno, nel mio piccolo, mi sono organizzato un percorso a base Picolit.
Al Vinitaly mi colpirono in particolare Rodaro, di Spessa di Cividale, e tre aziende di Ipplis, una frazione di Premariacco a pochi chilometri da Cividale del Friuli: Ermacora, La Tunella, Rocca Bernarda.
Così, dalla Carnia, non prima di aver provato uno dei ristoranti più noti della zona (Vecchia Osteria Cimenti, a Villa Santina), ho fatto tappa a Premariacco. Scoprendo quanto possa essere diversa una cantina.
La Tunella è la perfezione, l’ipertecnologia. Famiglia di grandi tradizioni (Zorzettig) che ha il coraggio di ringiovanirsi. La nuova generazione, disposta a spendere, reinventa la struttura, i vigneti. Oggi il 60% della produzione è destinato all’estero e il quaranta all’Italia. Nulla è lasciato al caso. Quando chiedi di visitare la cantina, tutto è scintillante, scientifico, calcolato al millesimo. Perfino la sala di degustazione è studiatissima, con il pavimento in vetro e, sotto, la riproduzione del terreno tipico friulano.
Il nome, La Tunella, è stato scelto per distinguersi dalle altre cinque aziende a nome Zorzettig e perché, mi spiega il giovane enologo Luigino Zamparo, «è un nome che all’estero sanno pronunciare senza storpiarlo».
Le brochure sono perfette, le etichette dei vini sono perfette, la gentilezza è perfetta. Sembra una cantina californiana trapiantata in Friuli, una Mondavi del Nord Italia. Alla fine ti regalano perfino una sorta di saponetta con dentro la «ponca», il terreno tipico su cui ama crescere – qui e solo qui – il picolit: marne eoceniche costituite da argille e marne rosse e verdi con intercalazioni di arenarie.
E i vini? Mi hanno ricordato l’impostazione del Franciacorta. Ottimi, ma forse con poca anima e poca personalità. Il Picolit è encomiabile, ma in un certo senso a raccontare la filosofia dell’azienda sono i blend a bacca bianca, come il Biancosesto o il vino dolce Noans (traminer, riesling, sauvignon): furbetti, morbidi, accattivanti. Buoni, ma facili. Come lo Schioppettino, che è un autoctono scontroso e difficile. La Tunella lo ha reso perfettamente «gestibile», con una nota tostata che lo rende a suo modo gradevole. Lo stesso Tocai Friulano, di per sé ammandorlato, qui si trasforma magicamente in rotondo. Troppo maquillage, mi vien da dire.
Mi sposto un po’ e percorro Ipplis, perché è qui che il Picolit dà il meglio di sé. Imposto il navigatore e punto l’azienda di Dario e Luciano Ermacora. Fu loro il Picolit che più mi colpì al Vinitaly.
C’è un cane alla porta, Omar, segugio di dodici anni.
Non badate allo scriba, la mia forma mentis non è particolarmente indicativa: mi affeziono di più ai luoghi a misura d’uomo, ai microcosmi che non vanno di fretta. Ai noci della Carnia. Ai comuni rustici di Carducci.
Dario Ermacora ha un bel fisico e una bella moglie. Asciutto, brizzolato, un che di Richard Gere in Mr Jones. La sua azienda dispone di venticinque ettari, di cui diciannove coltivati a vite, quattordici dei quali formano un corpo unico attorno alla cantina. Il telefono squilla spesso, la segretaria qui non c’è. E il cantiniere è stato assunto da poco, ha qualche problema, il dialogo è un viavai di contrattempi. Piacevole, però.
Perché il picolit cresce bene solo qui? «Da un punto di vista storico, furono i Romani a erigere sopra la forra scavata del fiume Natisone quel ponte ancora esistente e abbastanza strano nelle forme. Sulla sponda ovest fu edificato l’abitato di Premariacco. Su quella est, a ridosso delle colline, qualche secolo dopo, ebbe origine il borgo di Ipplis, toponimo di probabile origine lombarda.» E il terreno? «Noi lo chiamiamo ponca. Un terreno poco organico, su cui nulla cresce ma che esalta la vite. Argille e marne rosse e verdi, perfette per il picolit.»
Nel Settecento era coltivato in tutta Italia. «È un vitigno antichissimo, alcuni lo ritengono coltivato perfino al tempo dei Romani. Carlo Goldoni lo ha definito la gemma enologica più splendente del Friuli e fratello del Tokay.» Si riferiva al Tokay ungherese, ovviamente. «Ovviamente. Il “Tocai” friulano, come dicitura, scomparirà a fine 2007. Noi ci eravamo accordati per “Friulano”, che non sarà il massimo ma a noi produttori andava bene. La regione Friuli ci ha però “esortato” a non accontentarsi, per non inficiare il ricorso alla Comunità Europea, e a chiamarlo ancora “Tocai”. Nella realtà le speranze sono molto esigue, e a noi neanche interessa troppo: molto meglio ripartire da “Friulano”, piuttosto che correre il rischio di uscire con una vendemmia 2007 senza nome.»
Torniamo al Picolit. «Il vino dei papi, nel Settecento era delizia del palato esigente di pontefici, cardinali e imperatori. L’ampelografo Gallesio onorò il vitigno picolit di una descrizione nella sua Pomona italiana, riproducendone il grappolo e la foglia. Il maggior produttore di Picolit era, nel Settecento, il conte Fabio Asquini di Fagagna che arrivò a spedirne all’estero più di centomila bottiglie dal caratteristico formato (in vetro verde chiaro soffiato di Murano) e dalla capacità di circa un quarto di litro, ricavandone quattordici lire venete e dieci soldi a bottiglia. Il conte Asquini inviava il Picolit non solo in tutta Italia, ma anche a Londra, Parigi, Amsterdam, in Russia. Fornì la corte di Francia e l’imperatore d’Austria, che lo trovava migliore di qualunque altro vino.»
Lo sviluppo della viticoltura friulana nel Settecento è testimoniato da varie fonti dell’epoca. L’agronomo friulano Antonio Zanon, in una delle sue Lettere famigliari, scriveva che i vini del Friuli «servono alle mense di tutte le nazioni della Germania, dell’Inghilterra e del Nord». E in un’altra si chiedeva: «Quanto si glorierebbe l’Inghilterra se avesse le nostre vigne, i nostri Refoschi, i nostri Picoliti, i nostri Cividini e le nostre Ribuole?».
«Purtroppo nell’Ottocento, lentamente, il vino friulano scade di qualità e di fama» spiega Dario Ermacora. «La produzione, enormemente ridotta dalle malattie crittogamiche e dalla fillossera, inizia a essere insufficiente al consumo locale.»
E il picolit, coltivato in tutto il Norditalia e non solo, resiste solo in queste zone. «Merito di un prete che ne salvò pochi esemplari, e poi della famiglia Perusini.» I nobili proprietari di Rocca Bernarda, il luogo simbolo del Picolit. «Basti il fatto che noi oggi ne produciamo millecinquecento bottiglie, e siamo tra quelli che ne fanno di più. I Perusini ne producono cinquemila ed è il loro vino di punta.»
Oggi Rocca Bernarda è di proprietà del Sovrano Ordine Militare di Malta. «Gaetano Perusini, docente universitario, dedicò grande impegno alla selezione clonale del picolit, nel tentativo di superare almeno in parte il fenomeno dell’aborto floreale, croce e delizia della varietà. A Gaetano va anche riconosciuto il merito di avere impostato un’ampia gamma di pubbliche relazioni, suscitando interesse crescente per il vino friulano ancora quando, negli anni Cinquanta, in generale si seguiva l’obiettivo della produzione di quantità piuttosto che qualitativa. La famiglia Perusini ha segnato la storia dell’enologia friulana, precorrendo strade che oggi sembrano ovvie alla maggioranza delle aziende.»
Come ricorda la brochure di Rocca Bernarda, che ha un laboratorio avveniristico adibito esclusivamente alla produzione di Picolit, essa «si trova in una zona naturale dai caratteri irripetibili. La natura dei suoli è per metà marnosa, mentre il resto è costituito, in parti uguali, da sabbie e argille. I componenti organici e minerali testimoniano di terreni poveri di carbonio, azoto, fosforo e potassio, ideali per la crescita della vite da vino di qualità».
Perché, alla sua morte, Perusini lasciò tutto al Sovrano Ordine Militare di Malta, nato circa nove secoli fa a Gerusalemme per la difesa dei Luoghi Santi? Qui Dario quasi è imbarazzato. «Una storia strana. Perusini era omosessuale, amico di Pasolini. Aveva qualche nemico. La sua idea era di lasciare tutto alle istituzioni, per la formazione del Polo Universitario di Udine. Poi litigarono. Conosceva alcuni membri dell’Ordine Militare di Malta, cambiò testamento e lasciò tutto a loro. Due settimane dopo, nel 1977, fu trovato ucciso nel suo appartamento di Trieste. L’inchiesta, che io sappia, venne presto chiusa. O è così che me l’hanno sempre raccontata.»
I bianchi di Ermacora sono puliti, freschi, schietti. Senza sovrastrutture. Ben più dei competitors regionali più blasonati, sempre un po’ troppo burrosi. «Immagino alluda a Livio Felluga e Jermann. Hanno fatto molto per la nostra regione, Felluga ha un ristorante molto apprezzato, Terra & Vini. Molti colleghi storcono il naso quando le guide sono generose con i vini di Jermann, e può essere che non siano i più buoni della regione, ma il loro successo “popolare” aiuta tutto il movimento, anche i produttori più piccoli.»
Friuli, terra per antonomasia di bianchi. «Quelli li sappiamo fare, i rossi meglio lasciarli agli altri.» Eppure, nelle guide, Ermacora è noto per la qualità indiscutibile del Pignolo. «Un caso particolare, il pignolo è aiutato dal fatto che ha acini piccoli – a differenza dello schioppettino – e quindi è in grado di cedere più sostanze. Ha più potenzialità, un colore non troppo scarico e bei profumi. Ha solo un difetto: i tannini, come il Barolo. Devi saperlo aspettare. È il Barolo del Friuli, facendo i dovuti distinguo. L’unico autoctono rosso friulano che, secondo me, vale la pena di valorizzare, insieme allo schioppettino, ancora più difficile da coltivare.»
Nei corsi Ais ti dicono che il Friuli è la patria italiana del Merlot. «Vero e non vero. Anche su di noi si è abbattuto il flagello della barrique. È stato dieci anni fa, quando nessuno da noi le usava. Improvvisarono, tutti cominciarono ad abusarne. Oggi la tendenza si è un po’ invertita, anche qui stanno capendo che la barrique va gestita. Ci sono vini, come i Cabernet e più ancora gli Chardonnay, che proprio non sappiamo fare. Il Merlot è quello degli internazionali che ci viene meglio, insieme al Sauvignon Blanc.»
Il suo Picolit 2004 ha qualcosa di diverso dagli altri. «Ho appena partecipato a un concorso, l’idea era di abbinare Picolit e cioccolato. Ho scoperto con piacere che il nostro vino era quello più apprezzato. Non è solo merito nostro, anzi in un certo senso il surplus di qualità è stato dato da due difetti: la muffa e l’acidità volatile.» Ovvero? «Si è venuta a formare naturalmente, sugli acini, un minimo di botrytis involontaria. Questo ha reso il vino più morbido. Al tempo stesso, è “uscita” un po’ di acidità volatile. Lo dico chiaramente, non era voluto, il vino ha fatto da sé. In laboratorio sarebbe un difetto, in un vino secco significherebbe aceto. Nel Picolit permette invece di avere un bagaglio in più di eleganza, di freschezza, di acidità.»
Densità di impianti, anche qui, e il cruccio di essere stati costretti a espiantare viti vecchie. «Era inevitabile. Teoricamente avrebbero dato frutti più nobili, ma era il sistema di allevamento a non andare bene. Siamo stati costretti a ripensare tutto, ad affidarci al guyot, a ripensare le esposizioni.»
L’acquisizione della «garantita» ha aiutato il Picolit? «Non ha cambiato di molto le cose, e anche qui c’è il rammarico che una delle due vecchie sottozone è rimasta. I produttori di Rosazzo si sono accordati, l’unico produttore di Cialla no e ha quindi mantenuto il diritto di avere la sottozona.» Solo il Cialla, per disciplinare, è Picolit in purezza.
Il grappolo del picolit, quando è maturo, regala non più di dieci-quindici acini. A volte, per ovviare in parte al problema dell’acinellatura, viene impiantato insieme al verduzzo friulano per incoraggiare l’impollinazione incrociata. La critica ha più volte parlato di Picolit «furbi», spacciati per tali ma «allungati» da vitigni più facili come appunto il verduzzo. «Il problema c’è, ma il Picolit ha senso solo se in purezza. È un vino d’élite, particolare, con cui non si diventa ricchi. Anche i ristoranti non lo tengono quasi mai, perché sarebbero costretti a vendere il bicchiere a sette-dieci euro e in pochi sono disposti a spenderli. Per i friulani è il vino delle grandi occasioni, delle ricorrenze particolari. Per il resto d’Italia è qualcosa di stravagante da scoprire con stupore. Ha un altro problema: non si abbina a niente. Certo, si può provare con gli erborinati, con il foie gras, con la cioccolata, ma sono abbinamenti estremi e sempre di nicchia. Il Picolit è il classico vino da meditazione: va bevuto da solo, deve essere l’unico protagonista del fine serata.»
E la presenza di vitigni meno nobili? «Tagliare il picolit è un suicidio, non lo si migliora quasi mai. Men che meno con il verduzzo friulano, che a dirla tutta ha senso solo se si fa a Ramandolo, dove viene al suo massimo. Il verduzzo friulano “comune” non è né carne né pesce, è un bianco ma ha i tannini percettibili, non va bene con niente. Il picolit ha bisogno di cure tutte sue. Anzitutto va vendemmiato in anticipo, a dispetto di quanto si pensi, proprio per preservare il bagaglio di acidità. E poi l’appassimento, solitamente di sessanta giorni, non dovrà essere troppo violento e artificiale. Sono decisivi i tre giorni successivi alla vendemmia: se non piove, se non ci sono delle avversità atmosferiche, l’uva appassirà “da sé”, nei fienili appositamente adibiti, senza bisogno di una ventilazione invasiva che velocizzerebbe sì l’appassimento, ma falserebbe il prodotto finale.» Uno dei problemi dell’Amarone.
Che vite è il picolit? «Ha foglia media, pentagonale, trilobata o pentalobata. Grappolo medio, piramidale, spesso provvisto di un’ala, da spargolo a molto spargolo. Acino piccolo, ellissoidale, con buccia di medio spessore, consistente, ricoperta di abbondante pruina, di colore verde-dorato, leggermente punteggiata. Scarsa produzione a causa della colatura e dell’acinellatura, dovuta ai fiori ginoidi a stami riflessi. Media tolleranza alle principali malattie crittogamiche e alle avversità climatiche.»
Degustazione tipo? «Giallo dorato molto intenso, tendente all’ambrato. Al naso, grande varietà e complessità di aromi, che possono spaziare dai fiori di campo all’uva appassita, dal miele alle castagne. Se il profumo è troppo di frutta candita non è un bene, probabilmente c’è stata una surmaturazione o un eccessivo appassimento. Ci saranno sempre dei profumi speziati e tostati, perché l’habitat perfetto per la fermentazione e l’affinamento del Picolit è la famigerata barrique, che fortunatamente qui non fa danni. In bocca è dolce, fresco e morbido, con lunghissima persistenza. Ottima propensione all’invecchiamento.»
Un vino inimitabile, antico, raro.
Io sono un autoctono
L’agricoltura è l’arte di saper aspettare.
RICCARDO BACCHELLI
Mi è capitato di intervistare, una volta, Allan Bay. I suoi libri mi piacciono molto, anche se una volta, su «La Stampa», l’ho pizzicato perché in uno di questi mi era sembrato un po’ troppo entusiasta all’idea di mangiare cani o scimmie vive, su e giù per il mondo (credo che non me l’abbia mai perdonata).
Durante quell’intervista Bay mi buttò là una frase che inizialmente non inquadrai bene. «Il problema dell’Italia del vino è che non sa fare il Merlot.» Temendo di apparire inappropriato, mi guardai bene dal chiedere ulteriori spiegazioni. Mi limitai a riportare l’affermazione, da zelante reporter, come fosse un postulato inestricabile.
Adesso ho capito, credo di avere capito. Il merlot è il vitigno che più rappresenta il gusto medio del «consumatore finale», cioè noi. È ciò che vuole il mondo, che magari non sa quali siano le caratteristiche organolettiche del Merlot, né la sua storia, ma sa benissimo qual è il vino che gli piace. Facile, morbido, profumato, di corpo, con un bel colore carico.
Allan Bay ha un’impostazione economista, si è laureato in Economia e le opinioni che esprime derivano della sua formazione. Non ama granché Slow Food, a suo dire non ha senso gingillarsi nella nicchia della glorificazione del fagiolo zolfino quando l’economia mondiale va altrove.
Ora so perché lamentava la mancanza di un merlot in purezza che non dico potesse competere con i St Emilion e i Pomerol, vale a dire i grandi bordolesi a maggioranza merlot, ma che se non altro non scomparisse di fronte alla nomea dei francesi. Se al mondo piace quel vino, dategli quel vino, anche se per noi (esperti o presunti tali) non è il migliore: era questo il ragionamento di Allan Bay.
La legge dei grandi numeri.
Secondo lui, l’Italia andava – miseramente – altrove. Inseguiva quella cosa inevitabilmente ideologica, e pure un po’ nazionalista, che è il culto dell’autoctono.
Se c’è un errore che non si dovrebbe fare in Italia, e che invece si fa puntualmente, è ritenere sempre e comunque «inferiori» tutti i vini che non facciamo noi (e l’italiano, per inclinazione strutturale, dell’estero diffida sempre). È un ragionamento da taverna, da inizio secolo. Una sbadataggine ancor più grave se, oltre a dirlo, ci si crede pure.
La Francia è ancora, nel mondo, depositaria del vino-simbolo. Francia è ricchezza, lusso, nobiltà. Tradizione. Un modello di riferimento, qualcosa che tutti provano a copiare, in California come in Australia, in Cile come in Nuova Zelanda (e sì, anche da noi).
Il vino-monumento per antonomasia è il Bordeaux: cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot. La storia è stata loro d’aiuto: il matrimonio del 1152 tra Eleonora d’Aquitania ed Enrico II favorì e incentivò l’esportazione dei vini di Bordeaux in Inghilterra. Se Eleonora d’Aquitania avesse sposato un toscano, chissà, oggi il vino-museo sarebbe a base sangiovese. La storia è andata diversamente, e quella stessa Toscana che si sarebbe meritata de facto le prime pagine con le sue Doc e Docg per attirare l’attenzione mondiale ha dovuto, pure lei, spingersi nel territorio bordolese, replicandone i vini e chiamandoli vini da tavola prima, Igt poi, quindi Supertuscans e Sassicaia Bolgheri.
Ma la Francia non è «solo» Bordeaux, che a sua volta produce il vino dolce più famoso del mondo (il Sauternes), rossi molto diversi tra loro a seconda che siano a base cabernet o merlot (Médoc e Graves nel primo caso, St Emilion e Pomerol nel secondo) e bianchi incantevoli a base sauvignon blanc. Francia è grandeur perfino quando fa il Novello, perché lo chiama Beaujolais e oltre a farlo sa venderlo. Francia sono i bianchi della Loira, è lo Chardonnay dorato di Chablis o della Côte de Beaune, così buono che per Alexandre Dumas andava bevuto in ginocchio.
Francia sono i tredici vitigni assemblati (sì, assemblano anche loro) di Châteauneuf-du-Pape, i rosati di Lirac e quelli di Anjou, lo spumante di Clairette de Die sul Rodano, il cabernet franc, il più erbaceo dei vitigni, che declina in eccelso – e lo sapeva bene Rabelais – nei dintorni della città di Tours. Francia sono i bianchi di Alsazia, terra fortemente voluta e scippata ai tedeschi anche solo per dire ai vinificatori del Reno che forse il loro Riesling era davvero superiore, ma che i terroir più vocati per il bianco erano comunque all’ombra della Marsigliese. Francia è lo Champagne, e sfido chiunque a dire che è sempre superiore ai Metodo Classico italiani, ma vallo a spiegare alla storia e al mercato. Francia sono i vini di Provenza, il vin fou e il vin de paille del Giura.
Francia è così ricca da dimenticarsi deliberatamente alcuni vitigni, da lasciarli agli altri. A Bordeaux non sapevano che farsene del carmenère, lo hanno lasciato ai cileni. Idem con il malbec, lasciato agli argentini. Il viognier è per il Rodano quasi prescindibile, da noi si è gridato al miracolo quando si è visto che a Cortona cresceva bene. E lo chasselas lo hanno regalato alla Svizzera.
È in Francia che nasce il migliore dei Syrah, nel Rodano settentrionale, nella Côte Rôtie: avrà prezzi esorbitanti, sarà il più virile dei vini e noi non potremo che inseguirlo col fiato corto, «accontentandoci» ancora del microclima di Cortona, sorta di Rodano di Toscana, che deve la sua particolarità al genio di Attilio Scienza, il quale in tempi non sospetti capì che quel pezzetto d’Italia non era adatto al sangiovese ma a syrah e viognier, vitigni d’Oltralpe. (Parentesi: ho partecipato a una degustazione comparata di Syrah dai Tenimenti d’Alessandro, autori del miglior Syrah italiano. Ebbene, il loro Bosco perdeva di poche lunghezze se messo accanto a un costosissimo – seicento euro – Langdonne ’95.)
Ed è alla Francia che pensava, per una volta sicuro di sé, Paul Giamatti in Sideways. Alla Borgogna e al suo irripetibile Pinot Nero, il più pregiato tra i pregiati, strepitosamente a suo agio – solo e soltanto – nella Côte d’Or.
L’eccellenza dei vini francesi è innegabile. Così come la loro filosofia. Trattano deliberatamente male i terreni, li annaffiano poco e li sovraffollano di viti, perché credono – a ragione – che più la vite è costretta a sforzarsi per vivere, più darà frutti d’eccellenza. Non gliene è mai fregato nulla della quantità alcolica, della ricchezza in zuccheri, che è invece il nostro feticcio, retaggio di un apprendistato contadino e di un vino che doveva soddisfare non il palato fine ma il desiderio panciuto della grande abbuffata.
Da noi è severamente vietato aggiungere zucchero al mosto, pratica ritenuta sacrilega (ma poi, essendo italiani, consentiamo l’addizione di Mcr, mosto concentrato rettificato, che è un modo edulcorato di chiamare lo zucchero). Loro lo fanno, liberamente e gioiosamente. Si chiama chaptalisation e non se ne vergognano. A loro interessa, anzitutto, esaltare i profumi e valorizzare la tipicità. Una strada qualitativa, più che quantitativa, che adesso stiamo capendo anche noi. In ritardo, of course.
La Francia si vanta di sé e può farlo. È scaltra, sa vendere e vendersi. Fa «cartello», il vicino parla bene del vicino perché se quello potrà aumentare il prezzo, alla fine lo farà anche lui, nel nome dell’unanime plauso riconosciuto al Bordeaux come al Pinot Nero. Da noi è diverso: prima il campanile, prima l’orticello. Poi, se avanza qualcosa, un timido ammicco al collettivismo.
Paradossalmente il limite della Francia è la sua riconosciuta onnipotenza. Quando tutti ti applaudono, ti dicono da secoli che come te non ce n’è, alla fine – in qualsiasi campo – ti adagi.
Il regista affermato, dopo troppi peana della critica, vivrà d’allori. E così il cantautore, il pittore, l’artista, l’artigiano. Il viticoltore. La Francia è sempre più vino-monumento e sempre meno vino-movimento. Sta dimenticando la sperimentazione, l’evoluzione. Si sta fermando. Come un grande vino che rifiuta di evolversi.
Mi direte: va be’, la Francia è un caso a sé. Il problema non è tanto lei, e neppure il resto d’Europa. La vostra diffidenza è per il nuovo vino, quello delle Americhe e quello dell’Australia. «Lì non può venire bene» pensate. Fino a poco più di cento anni fa lo credevano anche i missionari spagnoli. La Vitis vinifera non attecchiva, al massimo la Vitis labrusca, che però dava un’uva orrendamente foxy, selvatica. Oppure la vite chiamata, poco originalmente, «mission», che ha generato verosimilmente il biotipo «criolla» coltivato (sempre meno) in Argentina.
È stato dalla fine dell’Ottocento che si è capito – a carissimo prezzo, come si vedrà – che la vite da vino poteva nascere anche lì.
C’è America e America, oggi. C’è la California, ormai realtà affermata, quella di Napa Valley e di Sonoma in particolare. Il loro modello è e sarà la Francia: Bordeaux, Borgogna, Loira. Il caso ha voluto che uno dei loro vanti divenisse un vitigno in apparenza autoctono, lo zinfandel. In apparenza, perché non è altro che il nostro primitivo pugliese (a sua volta derivante dal plavac mali croato). Gli Stati Uniti del vino non si esauriscono qui: il Pinot Nero dell’Oregon è apprezzabile, il Gewürztraminer di Washington State ha la sua fama, nei Fingers Lake si produce in quantità industriali il vino Koscher per le comunità ebraiche.
Il Canada è famoso per i suoi dolci Icewine, i «vini di ghiaccio» a immagine e somiglianza degli Eiswein tedeschi.
Anche Cile e Argentina si ispirano, come gli Stati Uniti, alla Francia. Il Cile si è appropriato del carmenère, l’Argentina del malbec: entrambi, lo abbiamo visto, «scartati» dai francesi.
L’Australia produce tutto, meglio se in quantità, e l’unico modo per inventarsi un vitigno autoctono è stato cambiare il nome al syrah, tramutato esoticamente in shiraz. La Nuova Zelanda, silenziosamente, sta raggiungendo livelli pregevoli con il pinot nero (ancora lui) e il sauvignon blanc. E il Sudafrica, pur con tutte le iniziali limitazioni tecnologiche, ha una produzione pienamente degna e un vitigno nazionale: il pinotage. Uva curiosa, nata dall’incrocio tra l’ostico pinot nero e il rozzissimo cinsault. L’idea di Abraham Izak Perold, professore dell’Università di Stellenbosch, fu quella – nel 1924 – di creare un pinot nero facile, che mantenesse buona parte dei pregi del vitigno di Borgogna senza avere la sua scontrosità nel crescere. In effetti il pinotage è più facile da piantare e da crescere. È un vino piacevole. Ma, del Pinot Nero, è cugino di terzo grado.
La nuova frontiera ha molti vantaggi rispetto alla Francia o più ancora all’Italia. Terreni sconfinati e spesso straordinari, benché inesplorati e ignorati. Si pensi all’Australia, alla sua estensione: in termini quantitativi non avrà mai avversari.
Mentre in termini tecnologici, i californiani non hanno nulla da invidiare a nessuno: sono ricchi, concreti, ambiziosi. Fortissimi. Dalla loro parte c’è anche il terroir: possiedono terreni così incontaminati che spesso la vite è ancora a piede franco, cioè pre-fillossera, un lusso che l’Europa non può quasi più permettersi (ma il Cile, tutto il Cile, sì).
Il vantaggio maggiore, in termini di mercato, deriva però da quello che in termini «ideologici» è un difetto. Il vino, in America, è sostanzialmente concepito come qualcosa che va bevuto subito, hic et nunc. Un prodotto deprivato di storia e (per loro) inutili valenze culturali, una sorta di chewinggum da bere (e da fatturare). Una Coca-Cola alcolica.
Non sarò certo io a togliere qualità a ciò che ha qualità. So bene che il Cabernet Sauvignon di Sonoma è pregevole, e conosco il bordolese Opus One di Robert Mondavi. Li ho provati anch’io, al ristorante, gli Chardonnay vanigliati e gli Zinfandel concentrati di E. & J. Gallo, il massimo produttore al mondo di vino.
Non avendo alcuna storia alle spalle, l’America non ha nessuna tradizione da rispettare. Per questo può produrre vino come se producesse scarpe: con spensierata anarchia, compiaciuta ignoranza, infantile entusiasmo. Gli americani possono andare dove vogliono, perché nessun critico tradizionalista rinfaccerà loro mai di avere dimenticato gli autoctoni a tutto vantaggio degli alloctoni. È un falso problema: da loro l’autoctono non esiste. Il loro libro del vino è proiettato tutto in avanti, non ha pagine già scritte. Il terroir è una sterminata tabula rasa su cui sperimentare senza ritegno, men che meno regole morali.
Ecco perché sono forti: perché sono più liberi di noi, senza zavorre legate alla tradizione. Potremmo continuare a illuderci sul fatto che non ce la faranno mai a recuperarci i secoli di storia, a sublimare la mancanza di nonni etruschi e fenici, greci e romani. Ma è gente che brucia le tappe, questa.
Nelle loro cantine non hanno «verticali», non conservano le annate vecchie come facciamo noi. Per loro il vino, una volta imbottigliato e messo in vendita, va bevuto subito. Nessuna polvere, nessuna regola degustativa che contempli la sottile differenza tra il pronto e il maturo: sono punti cardinali sovrapponibili, stesse facce della stessa medaglia.
Un po’ per carattere e un po’ per (non) storia enologica, americani e sudamericani, australiani e neozelandesi non si vergogneranno certo di essere istintivi, innovatori. Scaltri, cinici. Più realisti del re. Ecco perché ci hanno già sorpassato in curva nel mercato globale: perché producono tanto a poco. Perché hanno terre infinite e infinito potere. Perché sono molto più bravi di noi nel dar vita su larga scala al prodotto di medio livello: quello che farà storcere il naso al sommelier purista ma soddisferà pienamente il cliente dell’ipermercato, il quale, per quella data cena, avvertirà un giorno la voglia di dare un tocco esterofilo alla sua tavola e scoprirà, con gli avventori, che in fondo «questo cileno non è poi così male come credevo». E non è neppure – miraggio – caro. Tutte cose vere, verissime: il vino industriale cileno, argentino o australiano non è mai pienamente cattivo. Si beve bene, è piacevole. E costa pochissimo. In questo i nuovi protagonisti del mercato sono imbattibili, anzitutto per Francia e Italia.
Loro possono abbattere i costi, perché hanno spazi immensi e perché non hanno praticamente regole da rispettare. Altro che slow food, lì è fast drink.
Ai produttori australiani – i più «famigerati» in questo – non importa assolutamente nulla che lo Chardonnay sappia e profumi di Chardonnay. A loro interessa che lo Chardonnay sia o diventi buono. Se poi, per renderlo tale, dovrà essere mascherato, «sofisticato» o addirittura stravolto con metodi poco ortodossi (che, sia chiaro, abbiamo divulgato noi), nessun problema: lo si rivolterà come un calzino. E, alla fine, quel vino vi piacerà. O piacerà al «consumatore finale», che in fin dei conti se ne frega se quel vino avrà sentori boisé grazie alla barrique o a una spremuta di trucioli di legno. Per l’esperto sarà espressione piena e pienamente deleteria dei «vini di Pinocchio», per il bevitore comune soltanto un vino che sa un po’ di vaniglia. E a smuovere il mondo, spiacenti, non sono mai stati gli idealisti.
Anche il Cile, l’enfant prodige del mercato enologico mondiale, la nazione che sta dando la paga a tutti o quasi, lavora così. O è così che sono concepiti i vini che arrivano nei supermercati. Con un’aggravante. È una nazione amnistiata dal flagello della fillossera. I cileni hanno viti antiche, vecchie, a piede franco. Potrebbero fare vini incredibili. Non gli interessa.
Quanto talento inespresso. Ma, anche, quanto fatturato.
E in mezzo a questa guerra impari, l’Italia, la piccola Italia, dove sta? Nel mezzo, come spesso le capita. Da una parte non dà abbastanza ragione al pragmatismo di Allan Bay, dall’altro non fa abbastanza felici gli adepti di Carlin Petrini. Un po’ autoctona e un po’ alloctona. Un po’ nazionalista e un po’ internazionalista. A mezz’asta, come la bandiera patria.
Così come all’inizio degli anni Novanta si assistette all’invasione di chardonnay e cabernet, vitigni-simbolo degli alloctoni insieme al merlot, alla fine dei Novanta si guardò un po’ divertiti ai sacerdoti della passerina (scritta così sembrerebbe una setta erotica, in realtà faccio solo riferimento a un vitigno autoctono presente soprattutto in Marche e Abruzzo).
L’Italia ha più di mille vitigni autoctoni. Trecento di questi sono stati catalogati, trecento in via di approvazione e i restanti ancora da decifrare. Nessuno, al mondo, ha la ricchezza ampelografica dell’Italia. Nessuno. E pensare che, fino al 1863, erano molti di più.
Fu quell’anno, ad Arles, nel Sud della Francia, adorato da Van Gogh, che la malattia si manifestò. La vite europea si era appena ripresa dallo oìdio, ma stava arrivando un flagello maggiore. Un piccolo afide, chiamato fillossera. Distrusse tutto, anzitutto in Francia. Il 90% dei vigneti. Poi, da nord a sud, si mangiò gran parte dell’Italia. Sembrava incurabile.
La prima cosa che si capì è che l’afide non sopravviveva nei terreni sabbiosi, non ce la faceva a muoversi e a propagarsi. Si provò allora a piantare le vigne soltanto in terreni sabbiosi (dove, non a caso, esistono enclavi di viti a piede franco, per esempio la Doc Bosco Eliceo in Romagna o a Colares in Portogallo). Era, però, un palliativo.
La cura fu trovata, a inizio secolo, dal professor Planchoin di Montpellier. Fu lui a rendersi conto che la fillossera non attecchiva nelle viti americane. Il motivo era semplice: quell’afide era arrivato in Europa direttamente dall’America, precisamente dai battelli che attraccavano nei porti europei trasportando le barbatelle americane.
La vite del Nuovo Mondo, abituata a essere attaccata dalla fillossera, aveva sviluppato da sola gli anticorpi per non morire (è il principio seguito da Roddolo o dai biodinamici: inutile abbondare in trattamenti chimici, prima o poi la vite si curerà da sola). La strada per salvarsi dalla fillossera, anche in Europa, fu tanto semplice quanto geniale: impiantare dei portainnesti con radici di vite americana, sui quali innestare i vitigni desiderati. Poiché la cura definitiva per la fillossera non è ancora stata trovata, è una tecnica che in Europa si è costretti a usare ancora. Gli innesti sono di due tipi: a doppio spacco inglese (nel Centro-Nord italiano) e alla maiorchina (nel Centro-Sud).
In altre parole, tutte (o quasi) le viti europee poggiano su «basi» americane, che le preservano e salvano.
Una vite con portainnesto vive meno di una vite a piede franco, e più è vecchia più darà frutti preziosi. Inoltre, con la fillossera, se n’è andato l’85% dei vitigni presenti nell’Ottocento. Forse ne sono nati altri, di sicuro non sapremo mai che sapore avevano i vini che piacevano ai nostri avi.
Anche l’Italia ha perso tanto. Sapori, profumi, emozioni. Generazioni intere di vitigni, specie mai più esistenti. Eppure la sua ricchezza di varietà resta insuperabile. La produzione francese si basa principalmente su dieci, venti vitigni forti. In Italia siamo a trecento.
Certo, la riscoperta dei vitigni autoctoni può portare all’eccesso opposto, ovvero quello di intestardirsi nella produzione di monovitigni scarsamente appetibili. Mi può piacere «ideologicamente» un Colorino in purezza, o un Ciliegiolo, o una Pollera Nera, ma il vino della vita ha un altro sapore.
E occorre anche fare molta attenzione ai nomi dei vitigni, perché spesso alla diversità anagrafica non corrisponde divergenza organolettica effettiva. Esistono decine di malvasie, spesso senza nulla in comune tra loro (una malvasia di Casorzo nulla c’entra con la malvasia gialla laziale). La vernaccia di San Gimignano è bianca, quella di Serrapetrona è rossa. Il nebbiolo è chiamato anche spanna, chiavennasca e picoteneur. Il sangiovese, piccolo o grande, sarà anche chiamato morellino, prugnolo gentile, brunello. Il trebbiano toscano in Umbria si chiama procanico. Nessuno ha ancora capito quando la bonarda si chiama croatina e viceversa. E potrei andare avanti a lungo (la storia del tocai friulano versus Ungheria ve la evito).
In altri casi il vitigno si camuffa. Il tocai rosso di Barbarano (Vicenza) era un vanto locale, un’inspiegabile stranezza. Poi si è visto che non è altri che il cannonau. Cannonau che in Francia si chiama grenache. Grenache che in Spagna si chiama garnacha. Il regno del caos, a cui partecipa anche l’ottavianello. Un autoctono pugliese? Forse. Oppure una variante del cinsault francese.
Non si sa mai qual è il nome vero di un vitigno, né quando si possa ritenere veramente autoctono, cioè del posto. E sono tanti i vitigni creati in laboratorio. Il müller thurgau non è altro che un incrocio tra riesling e sylvaner, il rebo trentino tra merlot e teroldego. E a Piacenza, un bel giorno, si sono così stancati di tagliare continuamente barbera e croatina per produrre il Gutturnio, da creare in laboratorio l’ervi. Incrocio di barbera e croatina: così, il taglio, non lo facevano più loro ma la vite.
C’è vitigno e vitigno, autoctono e autoctono, laboratorio e laboratorio. Ma, per quanti distinguo si possano fare, la ricchezza ampelografica italiana rimane. Da nord a sud. Nessuno ci toglierà mai il prié blanc valdostano, il ruché piemontese, il moscato di Scanzo lombardo, il lagrein trentino, il prosecco veneto, la ribolla gialla friulana. I lambruschi d’Emilia. Il rossese ligure, l’unicità del sangiovese toscano (caso atipico di appropriazione debita di autoctono: il più coltivato in Italia, ma, come qui, nessuno mai). Il sagrantino umbro, il cesanese laziale, la lacrima marchigiana. La falanghina campana, l’aglianico lucano, il gaglioppo calabrese, il negroamaro pugliese. Il grillo siciliano, il bovale sardo (ah, la Sardegna: ha più autoctoni lei da sola che tutta la Nuova Zelanda).
L’elenco è sterminato, bello, affascinante. Ancora inesplorato. Tante piccole unicità che insieme creano l’eccellenza italiana. Che è un’eccellenza più pigra e meno scafata di quella francese, con più storia ma meno propensione al merchandising.
Non voglio teorizzare che i migliori vini italiani nascano sempre da vitigni autoctoni. Io per primo, nel dubbio, al ristorante ordino un Bolgheri, o – se non sono in vena di rischi – un autoctono «facile» (sì, il solito Primitivo, cioè Zinfandel, cioè Plavac Mali).
Di sicuro un Cabernet in purezza ben fatto avrà certo più fascino di uno Sciascinoso. E probabilmente, anzi sicuramente, aveva ragione Allan Bay quando lamentava l’assenza di un Merlot italiano leggendario. Certo, se lo avessimo, forse potremmo produrlo su larga scala e fare la corsa sui cileni.
Poi però penso: ma a me, che di per sé neanche brillo per italianità e italianismo, e che a dirla tutta sono pure un toscano che baratterebbe tutti i vini toscani con quelli piemontesi, detta fuori dai denti, cosa me ne frega di fare la corsa sui cileni?
Se io faccio il tennista e mi piace il serve and volley cosa devo fare, reinventarmi terraiolo da fondocampo perché è così che tutti giocano?
Che m’importa se il Merlot lo sanno fare meglio gli altri? (E di buoni ne esistono anche da noi, in Friuli come nel Lazio.)
Senza farla cadere troppo dall’alto, avrebbe senso per l’Italia tradire la sua storia in nome di una standardizzazione qualitativa a fini di mercato? Il senso, se anche vi fosse, sarebbe meramente merceologico. Ma, appunto, a me – consumatore appassionato – non interessa.
La si può leggere come difesa del territorio, come impigrimento «leghista» a tutto vantaggio della tradizione autoctona italica. Ne convengo, forse sono – siamo? – troppo poco d’essai.
Potrei però anche metterla in un altro modo, cioè rivendicando la tolleranza. Una volta tanto che l’Italia ha le potenzialità per essere cosmopolita, crescendo e difendendo centinaia di specie diverse, sarebbe deprecabile impoltronirsi in nome del miraggio di Bordeaux e delle grandi cifre.
Delle poche cose che mi piacciono veramente dell’Italia, c’è questo sfarzoso eppur plebeo incasinamento di vitigni, profumi, sapori. Per ogni bottiglia, una vita. Un’emozione, forse, unica.
Mi sa che io sono un autoctono.
Terra di liberi pensatori
(Verdicchio)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Villa Bucci 2004 – Bucci
Musica di degustazione:
Peter Gabriel, Secret World Live
C’è un aneddoto che circola su Paolo Conte. Astigiano e (non solo per questo) amante del vino, si trovava in Olanda per un concerto. Al ristorante chiese una bottiglia di vino. Il sommelier, provando a far da sé, scelse per lui un bianco francese. Conte, schifato come a volte solo i piemontesi sanno essere, lo allontanò in malo modo: «Ho chiesto vino, e il vino è solo rosso».
Il consumatore medio la pensa spesso come Conte. Il vino bianco è (pure questo) «da donne», si digerisce male, troppo acido (un tempo, forse), troppo fresco (un tempo, forse).
Al contrario, l’Italia ha una carrellata di bianchi straordinari. Il citrino estremo del valdostano Blanc de Morgex et de la Salle, da quel Prié Blanc cui non era indifferente Veronelli. I piemontesi misconosciuti (Roero Arneis, Cortese di Gavi), gli infiniti trebbiani, le sconfinate malvasie (aromatiche e no). I giardini dell’Alto Adige e del Friuli, terre d’elezione di bianchi di fama mondiale, dal Gewürztraminer, probabilmente originario di Termeno, alla Ribolla Gialla sul confine sloveno. La garganega veneta, alla base del Soave. Il buffo Pagadebit romagnolo, il Bianchello del Metauro marchigiano, il Trebbiano «ambizioso» abruzzese e il Locorotondo pugliese (Verdeca e Bianco d’Alessano). Il Montonico calabrese che per qualcuno ha le potenzialità dello Sherry. La truppa degli isolani sottovalutati, quelli siciliani (Carricante, Catarratto, Damaschino, Grecanico Dorato, Grillo) e quelli sardi (Arvesiniadu, Nasco, Nuragus, Semidano, Torbato, Vernaccia di Oristano). E lo sfarzo della Campania, la sua biblioteca vivente di autoctoni, da quell’Asprinio di Aversa che un tempo giustificava la parola «acidulo» (prima che il gusto esigesse anche lì morbidezza), fino alle due Docg bianche della provincia di Avellino (Fiano di Avellino e Greco di Tufo), passando per la Falanghina, sempre à la page.
Le carte per fare grandi vini bianchi l’Italia le ha. Solo che non sempre le sa giocare, rincorrendo mode aleatorie e per questo dovendo poi ricorrere – per rivitalizzarsi – a soluzioni estreme. È il caso dei bianchi che effettuano una vinificazione in rosso, con prolungata macerazione sulle bucce, come quelli di Josko Gravner e di uno dei pionieri dei Vini Veri, Angiolino Maule, che con il suo Pico, lodato da Nossiter, ha concepito una Garganega fresca e corposa, predisposta all’invecchiamento, con ambizioni da rosso.
E proprio la capacità di invecchiare, teoricamente un ossimoro per i bianchi, è spesso ciò che distingue un vino normale da un altro ambizioso. Nessuno, prima del grande Edoardo Valentini, aveva anche solo osato pensare che il Trebbiano abruzzese potesse invecchiare dieci anni o più.
Ogni regione ha il suo Valentini o (per altri aspetti) il suo Marchese Incisa della Rocchetta, uomini così radicalmente attratti dai propri sogni da perseguirli comunque.
Il «Sassicaia dei bianchi» nasce nelle Marche, da uve verdicchio, ed è opera di Ampelio Bucci.
Bucci divide la sua vita tra l’azienda di famiglia, con sede a Pongelli (Ancona), e Milano, dove si occupa di molte cose: cattedra universitaria, società di consulenza per abbigliamento-arredamento-food, scuola di moda e design, comitato della Triennale. Ha scritto testi di management e di moda. Raro caso di mediazione riuscita tra pragmatismo imprenditoriale e solido buonsenso mezzadrile, è uno dei vignerons più attivi a fianco «degli amici di Slow Food, per difendere il patrimonio italiano più importante: la diversità». Spiega Bucci: «Sono spesso all’estero ed è una cosa che gli americani non capiranno mai. Per loro Venezia è più bella di Firenze, per me sono solo due città diverse. Come le colline dell’entroterra marchigiano non sono più brutte di quelle toscane: diverse, casomai».
Se esiste una regione italiana sottovalutata è proprio quella di Bucci. Capisco perché Carlo Cambi, l’autore del Gambero Rozzo (nonché presidente del comitato Strada del Vino Terre di Arezzo), in ogni testo non perde occasione per lodare le Marche: i suoi vini, i suoi ristoranti, i suoi paesaggi. La sua casa editrice, non per nulla, ha pubblicato Le Marche… l’orto del vino, un tomo illustrato a firma Andrea Zanfi, il quale, giustamente, scrive: «Man mano che trascorrevano i giorni scoprivo una regione di una bellezza unica, composta da colline che si alternano a valli le quali digradano, trasversalmente, fino al mare. Una regione le cui terre, nel loro insieme, mi sono apparse comunque strane, anzi direi quasi difficili e molto più complesse di quanto invece diano a vedere. Chiuse e restie a farsi scoprire, si sono mostrate più percorribili che fruibili, anche se, devo dire, che è stata proprio questa loro unicità a rendermele intriganti».
Il vino non era il sogno di Ampelio Bucci, a differenza di quanto lascerebbe supporre il suo nome di battesimo. «Lo stesso di mio padre. Mi ha avuto tardi, si è sposato a cinquant’anni con una donna di venticinque. Lei era religiosissima, lui no. Odiava la Chiesa, che da noi ha fatto disastri immani. Pio IX era nato a Senigallia e qui si racconta di quando, dopo aver fatto frustare gli “eretici”, faceva mettere il sale nelle loro ferite. Le Marche hanno sempre avuto una fiera tradizione di anarchici anticlericali e liberi pensatori. Così definisco mio padre e così spero di essere io: libero pensatore. Mi ha chiamato Ampelio perché era uno dei pochi nomi di cui non esisteva un santo. In realtà esiste, è ligure, ma lui al tempo non lo sapeva.»
Ampelio rimanda per forza di cose al vino, all’ampelografia. «Viene dal greco e vuol dire “colui che fa il vino”. Mio padre era del 1887, troppo più grande di me, i contatti con quell’uomo anziano ed estroverso non sono mai stati molto facili. Era una persona fiera, che aveva giurato di non mettere mai piede in chiesa. Mia madre però era molto credente e, se non si fosse sposata con rito religioso sarebbe stata vista come la prostituta del paese. Allora mio padre scelse la propria strada, né la prima né la seconda: la terza. Chiamò il prete a casa loro e si fecero sposare lì. Ecco: mi piace pensare che anch’io, tra la prima e la seconda strada, per fare un vino, abbia scelto la terza. La mia.»
Il suo vino, però, è cosa relativamente recente. Neanche trent’anni. «Ho cominciato a fare vino all’inizio degli anni Ottanta. La mia era una famiglia di mezzadri, emancipatisi grazie a mio padre, direttore delle Assicurazioni Generali a Milano. Gli venne la nostalgia delle origini e divenne proprietario dell’azienda agricola che ormai raggiunge quattrocento ettari, di cui ventisei vitati. Tra le proprietà c’era anche una cantina interrata, fatta costruire negli anni Trenta con un progetto avveniristico. L’ho cambiata pochissimo, è ancora così com’era. Nessuno sfarzo, molta funzionalità. Una cantina non deve essere bella ma funzionante. Se ha visto quella di Sassicaia, è una cantina normalissima. Quelle troppo perfette, troppo sfarzose, non solo hanno poco senso, ma esigono dei costi che poi vanno a ricadere sul prezzo della bottiglia al consumatore.»
All’inizio, la vita contadina non affascinava Ampelio Bucci. «Il vino è un prodotto che non potrà mai essere solo industriale. Non si possono fare troppi programmi o progetti, ha a che fare con cose imprevedibili come la terra, le stagioni, lo scorrere del tempo. Io invece venivo da ambiti in cui con l’intuito si poteva in qualche modo sopperire ai “torti” che la natura ti riservava. Il mio primo lavoro è stato da manager alla Hoffman La Roche, una multinazionale farmaceutica, dove ho imparato attraverso le strategie di marketing a interpretare i fattori che determinano il successo di un prodotto. Ho fatto parte del mondo della moda per tutti i Settanta e, ampliando le mie esperienze lavorative di consulente, ho compreso l’importanza della parte sensoriale ed estetica del prodotto da commercializzare.»
Curioso partire dalla moda – quanto di più glamour – per concepire un vino – quanto di più contadino – ma è così che a volte accade. «L’imprenditoria della moda e del design italiano era composta soprattutto – non solo, per carità – da uomini geniali e creativi. Sono stati gli Armani e i Versace a farmi capire che il successo dipendeva dalla capacità di prendere rischi e dalla identità specifica con la quale si riusciva a comunicare cosa ci fosse dietro a quel progetto, foss’anche eccentrico o quasi incomprensibile.»
Identità, personalità, originalità. Sono parole che Bucci mi dice spesso, prima negli uffici-museo di Pongelli e poi nella sua splendida Villa a Montecarotto, durante un piacevolissimo pranzo con la moglie Wanda. «Ormai vengo qui solo quattro-cinque giorni l’anno, il vino si vende a Milano e non da queste parti. Con Internet puoi fare quasi tutto senza spostarti e ho la fortuna di avere in azienda un agronomo straordinario, Gabriele Tanfani.»
Gli uffici, per nulla lussuosi, sono in realtà musei dell’agricoltura che fu. Torchi, carri, aratri, gioghi, utensili antichi che raccontano un secolo. «Baratto queste cose di antiquariato con qualche cassa di vino, mi affascina la perfezione della manualità contadina.» C’è tristezza in queste parole, e non è nostalgia. «Con il vino puoi entrare direttamente nel mercato, bypassare gli intermediari, essere competitivo. L’agricoltura è il primo settore ucciso dalla globalizzazione. Il prezzo del grano lo fa il Canada, i pomodori si fanno arrivare dalla Cina, di zucchero ce n’era troppo e la Comunità Europea ha vietato la coltivazione nei paesi del Sud come l’Italia.»
Per il vino, fortunatamente, ancora c’è spazio. O perlomeno ce n’era a inizio anni Ottanta. «Dopo una lunga attività da consulente, decisi che era il momento di gestire in prima persona l’azienda agricola di famiglia, che in realtà non mi aveva mai stimolato più di tanto. Mi pareva che facendo vini avrei potuto raccontare la mia identità, creando qualcosa di personale, caratteristico e riconoscibile senza però “andare contronatura”. Lavorando con il vino, poi, potevo sfruttare le mie conoscenze di marketing inteso come immagine, comunicazione, distribuzione.»
I primi vini non dettero risultati esaltanti. «Erano vini troppo contadini, e il vino contadino di solito fa schifo, non lasciamoci fregare dal mito del prodotto povero. I vini contadini erano fatti senza il minimo rispetto dell’igiene e il risultato era sconfortante.»
Bucci decise di cimentarsi non con gli internazionali («già allora c’era la moda») ma con i vitigni autoctoni. «Nelle Marche ne abbiamo molti. Li ritengo un patrimonio, anche se non li mitizzo. Credo che vini come la Lacrima di Morro d’Alba o il Bianchello del Metauro, per quanto interessanti, abbiano poco spazio al di là della loro zona di produzione. Né mi esalta la Vernaccia di Serrapetrona, la prima Docg della regione. Sugli spumanti faccio poco testo. Mi piacciono solo gli Champagne e ritengo livellata verso il basso la produzione di Franciacorta, ma i miei amici di Bellavista mi dicono che le loro vendite vanno sempre meglio. Quindi sbaglierò io.»
C’erano però degli autoctoni che lo stimolavano. «Verdicchio, sangiovese, montepulciano. Sono questi i vitigni identificativi delle Marche. Il nostro Sangiovese è un po’ bruttino, non ha la forza e il nerbo di quello toscano, ma ha la sua dignità e nasce come vino di pronta beva, da pasto. La moda di oggi è di fare sempre il vino rosso “importante”, e infatti la Doc Rosso Piceno sta facendo di tutto per somigliare alla Doc Rosso Conero. Se prima si parlava di blend tra sangiovese e montepulciano, in eguale percentuale, oggi anche il disciplinare spinge per una forte maggioranza di montepulciano. Che è un vitigno molto carico, colorato, concentrato, impegnativo. Ha fatto la fortuna dei rossi italiani, perché anche nelle annate difficili produceva molto e capitava di intercettare camion pieni di Montepulciano d’Abruzzo alla volta della Toscana, perfino dei Frescobaldi. Ma è un vitigno impegnativo. Puoi “gestirlo” solo in due modi: o lasciandolo invecchiare molti anni, ed è la lezione che ci ha insegnato Edoardo Valentini, o “coprendolo” con molto legno, come si fa per il vendutissimo Masciarelli. Le scuole di pensiero sono queste.»
Esiste anche una terza strada. «Non avendo nel rosso le ambizioni di Valentini, che era mio amico e probabilmente si confidava solo con me, ho deciso di fare, accanto a un Rosso Piceno più ambizioso (il Villa Bucci Rosso), un prodotto di pronta beva, metà sangiovese e metà montepulciano: il Pongelli. Un vino volutamente “facile”, come quei Chianti di una volta che usavano anche bacche bianche, proprio per agevolare la bevibilità, per farsi bere anche a bassa temperatura, adatti pure al pesce. Un po’ come certi Gamay non mossi di Borgogna.»
La Borgogna, nei racconti di Bucci – stazza fiera e invidiabile capacità affabulatoria, unita a disponibilità squisita – torna spesso. Lo guardo e mi viene in mente, chissà perché, che forse sto parlando con una sorta di «Roddolo estroverso». La stessa voglia discreta, ma solida, di mediare i modelli «alti» per reinterpretarli e costruirsi un riconoscibilissimo sentiero. Il proprio.
Nella spartana sala di degustazione di Pongelli, alle spalle del tavolo, ci sono bottiglie di Villa Bucci lasciate aperte da anni, «per far vedere che sarebbero ancora buone». C’è anche un sobrio cimitero di nobili etichette di Borgogna. «È sempre stato il mio punto di riferimento. Già negli anni Ottanta i miti erano la potenza, la concentrazione, la forza. Io ne avevo un altro: la finezza. L’eleganza. In Borgogna fanno ancora il vino “alla contadina”, ma in senso buono. Senza stravolgere il sapore originale, rispettando il vitigno, inseguendo stoicamente le loro idee e sfruttando un terroir unico. Tanti miei colleghi, strada facendo, hanno rinnegato le convinzioni iniziali per compiacere il mercato. L’ho sempre vista diversamente: devi individuare la tua strada e percorrerla fino in fondo. O ti porterà sull’orlo del baratro, e allora avrai sbagliato, o renderà unico il tuo percorso.» La seconda.
Il vitigno con cui Bucci ha deciso di cimentarsi maggiormente è un autoctono a bacca bianca: il verdicchio. Appena lo nomini, inevitabilmente, anzi, inesorabilmente, tutti pensano al prodotto massificato e banale, reso famoso prima e famigerato poi dalla bottiglia a forma di anfora che l’architetto milanese Antonio Maiocchi disegnò nel 1954 per Fazi Battaglia. «Vendere Verdicchio, soprattutto all’estero, è difficile ancora oggi. L’operazione Fazi Battaglia è stata straordinaria, perché ha permesso di smerciare milioni e milioni di bottiglie, ma ha dato un’idea del Verdicchio deviata o comunque cristallizzata. Negli anni Cinquanta il Verdicchio era conosciuto come vino rustico, venduto sfuso, o come anonimo frizzante ottenuto con addizione di anidride carbonica. I Fazi Battaglia, che oggi peraltro fanno Verdicchi molto apprezzabili, ebbero il merito di ridestare interesse attorno al vitigno. Solo che poi, nei Settanta, ci fu il boom delle bottiglie a forma di anfora, che gli americani sono convinti ricordassero le curve della Lollobrigida. Proliferarono le cantine sociali e la nomea del Verdicchio divenne pessima. I miei importatori, ancora oggi, preferiscono chiamare il vino “Bucci”, senza ricordare che è Verdicchio: lo vendono meglio.»
Il Verdicchio pre-Bucci era un vino neutro, commerciato a bassissimo prezzo, in mano a molte cantine sociali «che ci sono ancora e che, con le loro operazioni di Dumping e prezzi da mezzo euro, rendono tutto più difficile». Interessava, anche qui, non la qualità ma la quantità, la resa per ettaro. L’unica sofisticazione era aggiungere un immancabile 15% di trebbiano, altrimenti il vino era troppo duro.
Poi, nel 1983, uscì la prima annata di Villa Bucci Riserva («ne ho ancora tre bottiglie») e fece scuola. «Non adottai alcun metodo rivoluzionario, semplicemente credetti nella forza di questo vitigno, che ha caratteristiche uniche: un’acidità spiccata, che arriva a sette, e un corpo raro per un bianco, a volte le ceneri arrivano a venticinque grammi/ litro, che è quasi uno sproposito. Mi resi conto che da solo non ce l’avrei fatta. Nelle Marche fanno ancora l’errore di sempre, si affidano a enologi toscani famosi, bravi quanto vuole ma inadatti a fare bianchi, che non è proprio cosa da toscani. Io scelsi Giorgio Grai. Un genio, che per mia fortuna ha un carattere pessimo. Dico “fortuna” perché sono l’unico in grado di sopportarlo, ha litigato con tutti. È un polemista, un provocatore, non sa cos’è la puntualità, ama indisporre e arrivare in ritardo. Se avesse un carattere migliore, molte più aziende di quelle attuali si affiderebbero a lui e forse il mio Villa Bucci non sarebbe così unico.»
Grai, ritenuto nell’ambiente enologico uno dei grandi arbiter elegantiae del vino italiano, in realtà ebbe il grande merito di assecondare con discrezione la personalità di Bucci. A volte la strada migliore è la poca scientificità. Lo sanno bene i vignerons del Rodano settentrionale, che per tradizione mettono nel mosto anche un po’ di raspi, e se gli chiedi perché lo fanno ti rispondono sempre allo stesso modo: «Perché lo abbiamo sempre fatto». Alla faccia dei tannini grezzi dei raspi.
«Il grande merito di Grai» prosegue Bucci «fu quello di farmi capire l’importanza dell’igiene, che per un bianco è sacra. Fare il bianco è più difficile che fare il rosso. Pensi a un esempio basso, il Tavernello. Il rosso, un Sangiovese romagnolo di pianura, è bevibile. Il bianco, Trebbiano romagnolo, è imbevibile anche per chi lo fa. Non gli riesce. Grai ha imposto un rispetto quasi nazista dell’igiene, dai contenitori alle botti fino alle pompe. E poi ha un talento incredibile nel blend, nel sentire cioè i vini presi singolarmente dalle botti e nel capire immediatamente quale sarà il mix perfetto per arrivare alla Riserva. Durante la fase del blend diventa ancora più intrattabile, lo devo lasciare solo con un magazziniere che ha l’ordine di stare in religioso silenzio e di assecondarlo.»
Non è solo questo, il Villa Bucci. Sono almeno altre due le sue forze: vigne vecchie e botti grandi. «Ebbi l’intuizione di non espiantare le vecchie vigne, sentii che la grande qualità sarebbe arrivata proprio dalla loro età. I contadini sapevano dove piantare le viti, casomai non sapevano gestirle. Non credo alla moda della densità d’impianto alla francese, però lavorai subito alla minore resa per ettaro. Per far questo, adottai potature basse, spietate. Oggi mi affido ai giovani: loro imparano subito, le sanno fare. I vecchi no: mi guardano strano, sono affezionati alle loro convinzioni, potare troppo la vigna sembra loro uno spreco. Non dimentichi che il vino nasce come nutrimento, non come accompagnamento: più ce n’era, più ci si nutriva. E più si guadagnava.»
Il verdicchio è un vitigno difficile, non è sicuro come lo chardonnay e il modo più rapido per renderlo bevibile è il rovere. «Non uso barriques, mai usate se non per qualche esperimento. Passata la fermentazione alcolica, di solito protratta a venti giorni, il vino sosta uno-tre mesi in tini di acciaio. Poi è travasato in botti di rovere di Slavonia da cinquanta e settantacinque ettolitri, vecchissime, più che esauste. Hanno più di cinquant’anni e ho dovuto rinforzarle dentro, per paura che esplodessero.»
In quanto vecchie cedono poco, ma qualcosa cedono. Durante la visita, protrattasi un giorno, Ampelio Bucci ha fatto sentire a me e a Linda i vini spillati direttamente dai tini di acciaio e poi dalle grandi – e splendide, antiche, fiere – botti: quello dai tini era comunque più fresco, alcuni stavano rifermentando, mentre le botti davano un piccolo – ma decisivo – bagaglio di morbidezza vellutata.
«Valentini mi diceva che la grandezza perfetta delle botti era venticinque ettolitri, ma non è che mi abbia mai spiegato il perché. La mia idea è di rispettare la vita del vino, di non snaturarlo. Dopo la vendemmia, che ormai facciamo non più a ottobre ma a fine settembre, perché il clima è cambiato anche qui, procediamo alla pressatura soffice delle uve raccolte, alla pulizia statica del mosto fiore a temperatura ambiente (al massimo una leggera refrigerazione) e poi aggiungiamo lieviti, quelli dello Champagne. Abbiamo provato con i lieviti indigeni, ma per ora senza troppi risultati: un po’ mi spiace, ma non è da lì che arriva la qualità.»
La spiccata acidità del Verdicchio porta molti produttori a effettuare la fermentazione malolattica. «Lasciamo che a decidere sia il vino, se la effettua, avviene naturalmente e non perché vogliamo noi. L’acidità è un bagaglio fondamentale per i bianchi, ancor più se concepiti con l’idea di invecchiare. La permanenza del Villa Bucci Riserva nelle botti grandi e nei tini d’acciaio, con frequenti travasi e délestages per movimentare le fecce nobili e accrescere struttura e longevità, è di diciotto-ventiquattro mesi. Ci sarà infine un ulteriore affinamento di un anno in bottiglia, prima della commercializzazione.»
Le bottiglie prodotte sono quindici-venticinquemila l’anno, il prezzo in enoteca di ventisette euro. La dicitura «Riserva», irregolare fino al 1995, è contemplata nel nuovo disciplinare. «Molti dei disciplinari marchigiani sono disastrosi. La Doc Esino è nata come pattumiera per tutti quei vini che non rientravano nelle Doc del Verdicchio: non la fa nessuno. Ne hanno create due nuove, Terre di San Ginesio e San Severino, per compiacere singoli produttori. La Doc Rosso Piceno è esageratamente ampia, parte da noi e arriva in fondo alle Marche, dove il clima e il territorio sono molto diversi. La Doc ha avuto grande successo e molti si sono accodati al treno, costringendo alcuni produttori a declassarsi – come per i Supertuscans – a Rosso Igt. Io preferisco tenermi la Doc per i rossi, all’estero si vendono meglio, inutile negarlo.»
E il disciplinare della Doc Verdicchio dei Castelli di Jesi? «Migliore di altri, per esempio il nome è geniale ed è stata idea dei legislatori, in realtà a Jesi non esistono castelli ma borghi e comuni “castellati”, circondati da mura. Ed è stato importante riportare la menzione “Classico”, per sottolineare la zona di produzione originaria e più antica, che esclude i territori alla sinistra del fiume Misa e i territori dei comuni di Ostra e Senigallia. I difetti, gravi, del disciplinare sono due. La resa, fissata allo sproposito di centoquaranta quintali per ettaro, e il permesso di imbottigliare al di fuori delle Marche. Noi, per il Villa Bucci Classico Riserva, adottiamo una resa di sessanta quintali per ettaro, ma è chiaro che le cantine sociali pagano al produttore non la qualità ma la quantità. Così però si consentono prodotti scadenti. Permettendo l’imbottigliamento fuori dalle Marche, poi, si autorizza il taglio e la mescola con altri vitigni. Quasi tutti i produttori seri lavorano ormai in purezza, ma non si è mai certi di cosa ci sia dentro. Penso alla versione Verdicchio Spumante, per esempio: nessuno mi farà cambiare idea sul fatto che dentro quei vini ci sia, più che altro, chardonnay.»
Ampelio Bucci si convinse a fare Verdicchio anche dopo l’ennesimo viaggio in Borgogna, alla fine degli anni Settanta, quando gli parve di riscontrare delle affinità tra un vecchio Meursault e un vecchio Verdicchio.
Secondo alcuni, a conferma della confusione dei nomi dei vitigni, il verdicchio non sarebbe altri che il trebbiano di Soave, secondo altri il simile trebbiano di Lugana. «Il Soave lo conosco bene, uno dei colleghi più cari che ho è Leonildo Pieropan, giustamente celebrato per il suo La Rocca. Il Soave ha un finale dolce, il Verdicchio – soprattutto quello dozzinale – è invece amaro. Una sensazione che, personalmente, non amo. Credo che, dei due, sia più simile al Trebbiano di Lugana, come sostiene peraltro Attilio Scienza.»
Ci sono delle similitudini anche con lo chardonnay – il grande corpo, che qualche vigneron friulano usa come taglio «nascosto» per dare muscoli ai suoi vini – e con l’auxerrois, un vitigno alsaziano usato in uvaggio con il pinot bianco per dare più struttura e grassezza, oltre che i tipici profumi (comuni anche al verdicchio) di mandarino e muschio.
È così anche per l’altra Doc marchigiana dedicata al Verdicchio, quella di Matelica, «un disciplinare politico, concesso ai tempi del potere di Enrico Mattei. Lui era un marchigiano di Acqualagna. Sfido chiunque a riscontrare delle differenze tra la nostra zona e la loro, dei tratti distintivi che giustifichino questa divisione, anche se c’è chi parla di un Verdicchio mediterraneo e di uno fragrante. La differenza non la fa la zona, ma la mano del produttore. Per questo, a distanza anche solo di pochi chilometri, un Verdicchio può essere diversissimo da quello del dirimpettaio».
Più che identità territoriale, il Verdicchio marchigiano rispecchia la personalità di chi lo fa. In parte è un peccato, non si sfrutta abbastanza il territorio. I terreni dove il verdicchio dà il meglio di sé sono unici per l’alternanza di argilla, gesso e calcare, creando un amalgama non dissimile da certe zone dello Champagne e della Borgogna. Le altitudini migliori sono comprese tra i 220 e 380 metri con esposizioni a est, sud-est e sud-ovest (come quelle di Bucci).
«Siamo la regione più campanilista del mondo, per un po’ ho provato a riunire i vignerons sotto una politica di fondo comune, ma ogni volta finiva con quello che parlava male dell’altro e allora ho rinunciato. Non siamo il Chianti né il Marsala, non abbiamo tradizioni secolari da rispettare. Questo potrebbe anche essere un vantaggio, potrebbe incentivare la sperimentazione e l’originalità, ma poi finisce con l’incentivare solo la confusione. Esistono tanti, troppi Verdicchio. E il consumatore non ne capisce la reale identità.»
Le Marche sono andate dietro alla densità d’impianto, alla barrique, ai vitigni internazionali, al vino perfetto, al gusto americano, ai rossi che si vendono meglio dei bianchi. «Tutte sciocchezze. Il vino “perfetto” è un vino senz’anima, non lo bevi mai con gusto. Gli americani sono volubilissimi, adesso cominciano a stancarsi del rovere, ma tra qualche anno cambieranno di nuovo idea. Inseguirli è un rischio. La storia dei rossi che vendono meglio dei bianchi l’ho seguita anch’io, per un po’. Ma è meglio non crederci troppo. L’anno scorso ho chiamato dei francesi e ho innestato del verdicchio su viti di sangiovese e montepulciano. Ho anche chiamato un vecchio della zona, noi lo chiamiamo “Testaguzza”, l’unico a saper fare bene l’innesto a spacco. I miei colleghi mi hanno guardato come fossi un pazzo, e lo hanno fatto ancora di più quando invece di espiantare le vecchie vigne ho investito su un nuovo sistema di palatura. Guai alle mode. Piuttosto è meglio rispettare l’ambiente. Le nostre colture sono biologiche e i cambiamenti li vedi anche nella fauna: prima le upupe se ne erano andate, ora sono tornate. Buongustaie.»
Anche le Marche hanno i loro supervini, rossi dai nomi esotici e spesso declassati a Igt: Barricadiero di Aurora, Tornamagno di Colonnara, A’nkon di Moroder, Il Maschio da Monte di Santa Barbara, Ludi di Velenosi, Kurni di Oasi degli Angeli (inconfondibile, quest’ultimo: vino biodinamico, appartenente al gruppo Vini Veri, eppure coloratissimo, concentratissimo, densissimo, estrema dimostrazione di quanto possa essere «naturalmente riempiente» un Montepulciano vinificato in purezza). «Tutti progetti nobilissimi. Certo, i prezzi a volte impauriscono e spesso il comune denominatore è il rovere che seppellisce il Montepulciano, oltre all’uso di molti vitigni internazionali come merlot e syrah. Mi sento vicino al gruppo Vini Veri, anche se non amo i fondamentalismi e per questo non ne faccio parte. Esistono vini veri buoni e vini veri pessimi. Credono nei vini bianchi con macerazione, cosa impossibile per il verdicchio, già “troppo” corposo di suo e con bucce non adatte al metodo Gravner, per intendersi. Certo, loro odiano la barrique ed è vero che molti rossi marchigiani, soprattutto della zona ascolana, sanno di temperamatite. Io, riguardo alla barrique, ho un’idea precisa: è come il parmigiano sulla pasta. Buono, buonissimo, capisco chi ce lo mette e chi lo ama. Però, poi, il gusto originario della pasta non esiste più.»
I concentratori sembrano aver fatto breccia anche qui. «Riconoscere un vino concentrato è facile. Basta sentire “il profumo di Amarone”, marmellatoso e surmaturo, in tutti quei vini che non sono Amarone. Di sicuro, in quei casi, sarà stato usato il concentratore.»
E i vini internazionali? «Non siamo la Toscana, e non possiamo copiarla vent’anni dopo. Penso al Pollenza, la tenuta ricchissima e lussuosissima del Conte Aldo Brachetti Peretti, il presidente del gruppo Api, la più potente compagnia petrolifera italiana dopo i Moratti. È tornato nella sua terra, a Tolentino, non badando a spese: ingenti capitali, altissima tecnologia, staff di professionalità indubbia e giusta rilevanza mediatica. Hanno chiamato anche Giacomo Tachis, convinti di poter fare pure loro il Sassicaia. Ci stanno provando con il cabernet, con il pinot nero. Hanno perfino fatto un vino dolce dedicato a Pio IX, e anche sul nome ci sarebbe da discutere. Va tutto bene, tutto fa movimento, ma non siamo e non saremo mai la Toscana.»
Bucci, La Distesa, Fattoria Coroncino, Fattoria Laila, Santa Barbara, La Monacesca, Bonci, Garofoli, Umani Ronchi, Belisario, Terre Cortesi Moncaro, Monteschiavo. Le ammiraglie del Verdicchio sono queste, ancora alle prese con la diffidenza del mercato estero. I giapponesi, che pure troverebbero nel Verdicchio un alleato perfetto di sushi e sashimi, sono così scettici da preferirgli il Pescevino, un vino marchigiano di qualità discutibile messo in bottiglie a forma di pesce: rosso, rosato (sangiovese e montepulciano), bianco (verdicchio e trebbiano). Ancora oggi il Pescevino è il vino marchigiano più famoso in Giappone, perfino più del Titulus, a forma di anfora, di Fazi Battaglia.
Oggi la critica enologica è concorde nel ritenere il Verdicchio, al suo massimo, uno dei più grandi bianchi d’Italia (e, quindi, del mondo). Il Villa Bucci Verdicchio Castelli di Jesi Classico Riserva, che si fa solo nelle annate migliori, è puntualmente e giustamente celebrato con ogni premio. Prima non era così: era accusato di immobilismo, di non stare al passo coi tempi (con la moda). «La critica, nel mondo del vino, ha un’importanza incredibile. Non solo in termini di vendita. Quando vado al Vinitaly, mi rendo conto che nessuno sa nulla del vino. Nemmeno i ristoratori: se dentro una bottiglia con etichetta importante ci metti un vino scadente, e ammetto che spesso mi sono divertito a farlo, li vedrai impegnati in recensioni esaltate e rapite. L’ignoranza è assoluta, per questo ogni libro o rivista possono servire.»
Le critiche negative fanno male? «Molto. La rivista “Il mio vino” mi arriva a casa, fa un’opera meritoria di divulgazione, ma non mi piace questo voler stroncare ogni volta un nome famoso. Quando lo hanno fatto con Valentini, il padre era morto da poco e l’eredità era passata al figlio. A cosa serve stroncare un ragazzo che ci sta provando? I “cinque grappoli” e i “tre bicchieri” fanno piacere e fanno vendere, sicuramente. Con noi è stato benevolo perfino Robert Parker, nonostante il nostro vino sia decisamente poco americano. L’ho incontrato una volta in America, stava presentando un suo libro sul Bordeaux, che ovviamente mi sono guardato bene dal leggere. Mi colpirono i capelli a chiazze, a ciuffi. Evidentemente si era fatto uno dei primi trapianti, alla Pippo Baudo. Ho visto qualche foto recente e adesso è passato ai capelli-tappeto, tipo Berlusconi.»
In America Bucci va spesso. «E ogni tanto capita che sia io a comprare da loro. Cosa? I miei vini. Mi spiego meglio. Il successo del Villa Bucci ha stupito anche me, e prima del 2001 – quando è stato eletto Miglior Bianco d’Italia – capitava che ne vendessi troppo all’estero e a me non rimanesse nulla. L’annata 1988 è diventata mitica, ma io ne ho poca. Così ogni anno compro un po’ del mio vino dagli americani, che poi vengono al Vinitaly a degustare le “loro” bottiglie del 1988, con ancora l’etichetta dell’importatore. Stranezze del vino.»
Ampelio Bucci è uno dei pochi vignerons capaci di mettere d’accordo Gambero Rosso, Associazione Italiana Sommelier e il cattivissimo Sandro Sangiorgi. «Lo conosco, è un personaggio bizzarro, anche fisicamente. Sempre un po’ pasticciato, scomposto, cicciottello. Un invasato vero. Durante una degustazione con me presentava i vini abbinandoci una musica che secondo lui raccontava quel vino. Un grande comunicatore e un pessimo carattere, non litigare con lui è impossibile. Ma capisce di vino come pochi altri e le cose migliori sul Verdicchio le ho lette su “Porthos”, oltre che su “Spirito diVino”.»
Secondo Bucci, come secondo «Porthos», esistono sostanzialmente due concezioni di Verdicchio: quello «dolce» e quello «legnoso». Il primo proviene da uve surmature, da una vendemmia tardiva, alla maniera dei vini alsaziani. L’idea è quella di iperconcentrare e di preferire la morbidezza all’acidità, ma quasi sempre si perde il bagaglio di freschezza appiattendosi su un prodotto che, al secondo bicchiere, stanca. Volendo imitare il modello alsaziano, i produttori di Verdicchio hanno poi dimenticato come l’auxerrois, il vitigno che più somiglia a quello marchigiano, sia uno dei pochi a non essere proposto come vendemmia tardiva (e un motivo ci sarà). Né il Verdicchio ha, per permettersi la surmaturazione, il corredo aromatico del Gewürztraminer.
L’altra corrente vuole un Verdicchio a volte nobilitato e più spesso seppellito dalla barrique. C’è un motivo preciso: come lo Chardonnay, il Verdicchio ha un corpo e una grassezza intrinseci tali da potersi permettere lunghe soste in barrique. Il modello sono i Meursault e più ancora gli Chablis, gli Chardonnay di Borgogna. Anche in questo caso, pur ammettendo che il Verdicchio è forse l’autoctono italiano bianco che più può permettersi il rovere, si incontrano spesso vini sbilanciati dal troppo burro e dal poco slancio.
C’è anche chi crede nei poteri taumaturgici del cru, del vino ottenuto da una sola vigna benedetta, ma l’exemplum del Villa Bucci sembra voler dire il contrario, essendo ottenuto non da un unico vigneto ma dal blend tra le migliori uve provenienti da tutte e sei le vigne dell’azienda, dislocate nel comune di Montecarotto, nelle contrade Villa Bucci e Cupo delle Lame, e nel comune di Serra De’ Conti, nelle contrade Baldo, San Sebastiano e San Fortunato, le cui viti hanno età comprese tra i quindici e i cinquant’anni.
La mutazione del clima, l’aumento di temperatura, sta provocando molte complicazioni, al punto che una delle annate migliori del Verdicchio resta il 1996. Poi, con l’arrivo delle annate calde, si è assistito a una diminuzione di freschezza e a un aumento spesso spropositato della gradazione alcolica. «Siamo arrivati a tredici gradi e mezzo, ed è già troppo così» riflette Bucci con la sua espressione simpatica. «Del resto i produttori devono essere bravi anche a adattarsi al clima. Nel 2003 il caldo era asfissiante anche qui, ma le viti vecchie sanno difendersi da sole, vanno in profondità a cercare l’acqua. Il trucco casomai era lasciare le foglie, affinché facessero ombra ai grappoli: sono molto fiero di aver fatto la Riserva persino quell’anno. Anche il 2006 è stato difficile: di sicuro un’annata particolare, non so se straordinaria. Il “base” lo abbiamo imbottigliato subito ed è sorprendentemente pronto, anche come mineralità. Non so se sia un bene: come sarà tra due anni, come evolverà? Vedremo se fare o no la Riserva.»
Proprio il Verdicchio «base» delle aziende spesso si rivela il più convincente, perché scevro da sovrastrutture e splendidamente schietto nella sua genuinità. Non tutti, del resto, possono emulare il Villa Bucci, per quanto comunque il livello medio rimanga sostanzialmente alto (e certo meritevole di riscoperta da parte di chi è ancora rimasto al Verdicchio da supermercato o al Pescevino).
L’incontro con Ampelio Bucci è stato uno dei più belli del viaggio. Il suo Verdicchio Villa Bucci, come pure il «base», mi ha confermato peraltro come la maniera migliore per capire se un vino è veramente «buono» non sta nel primo bicchiere, ma nel secondo.
Al ritorno, decido di tagliare le Marche prendendo strade strette che da Ostra Vetere mi conducano a Fossombrone e, da lì, ad Acqualagna.
Sono terre davvero sconosciute e meravigliose, quasi inaccessibili, qua e là ingentilite da qualche Country House, come l’Arca di Noè di Senigallia. Solo ora si assiste alla gara tra slow food, alla riscoperta del territorio, ma resta una sperequazione evidente tra costa ed entroterra, tra un Adriatico in diesis minore, quanto a vocazione ludica, e un dedalo di colline e grano, vallate e colori pastello che non pare eretico accostare a una Val d’Orcia in debito di visibilità.
Assecondo le curve, infinite curve, e sorrido pensando ai paroloni con cui Duemilavini ha benedetto il Villa Bucci Verdicchio Castelli di Jesi Classico Riserva 2004: «Temporeggia sul piacere olfattivo, ma intanto diletta l’occhio con lucentezza dorata e smeraldina. Pietra focaia, boisé e nocciola aprono il corteo, seguiti da pomacee, agrumi, fieno odoroso, camomilla, tiglio, ginestra. Da una punta di miele e dagli accenti minerali s’intuisce che il meglio arriverà con l’evoluzione. Apollineo, mai dionisiaco: la spiccata freschezza non genera tensione, ma conferisce un ritmo vitale che scandisce l’intera progressione gustativa. L’ampio retrolfatto chiude in armonia su mandorla, agrumi, note balsamiche e sapidità minerale». Una industriale quantità di parole in odor di «carciofino», atte a reiterare la perdurante recita della degustazione teatrale, dimenticandosi dell’aspetto forse più importante: che è un Verdicchio unico, così eretico da negarsi i profumi più facili – i «soliti» fruttati – per andarsi a cercare una dimensione che, forse, dà il meglio di sé alle alte temperature. Come fosse un rosso, senza però tradire la propria natura di bianco.
Ripenso alle parole di Bucci, mi rallegro che anche lui adori il Lambrusco e penso che se davvero proverà a fare vino in Liguria, come spera, gli verrà bene: «Mi piaceva il rossese, che però di veramente buono ha solo il nome. Troppo terroso, ignorante. Credo piuttosto che verrebbe bene la grenache, la Liguria è l’ideale prosecuzione di un vitigno che in Provenza come in Sardegna (dove lo chiamano cannonau) dà grandi prodotti».
C’è sempre un punto in cui Beppe Grillo, nei suoi spettacoli, lamenta la mancanza contemporanea di grandi industriali, di mitici inventori. Gli Olivetti di un tempo sono diventati Tronchetti Provera, i Piaggio hanno ceduto il passo agli Scaroni, e il gap è sconfortante.
Ampelio Bucci è mosca bianca, fiore raro. Con un cruccio: non aver trasmesso ai figli la stessa passione. Sarà eredità pesante.
Bucci è passato anarchico, presente luminoso.
La babele di Doc e Docg
La legge è ordine; e una buona
legge è un buon ordine.
ARISTOTELE
«Questo è una Docg, quindi è buono.» Chi non conosce il mondo del vino, si affida a tale regola empirica per valutarne la qualità. È un’affermazione comprensibile, che contiene la sua dose di verità, ma è lungi dall’essere un postulato.
Il mondo delle Doc e Docg italiano è una giungla inestricabile. In termini di preparazione per diventare sommelier, è lo scoglio più indigesto. Tutto il secondo livello è incentrato sulla classificazione e memorizzazione delle 35 Docg e più di trecento Doc.
Ricordarsele tutte è impossibile, anche perché ogni singola Doc racchiude al suo interno infinite tipologie. Se, per esempio, la Docg Brunello di Montalcino significa «solo» il rosso secco che tutti noi conosciamo (normale o Riserva), le Doc Valle d’Aosta e Doc Trentino racchiudono la produzione di un’intera regione: bianchi, rossi, rosati, passiti.
L’unica strada percorribile è ricordarsi tutte le Docg (sì, vanno sapute) e le Doc più importanti. Non è significativo sapere quante Doc ha la Toscana. È importante, per dire, sapere che la Doc Elba è nota anzitutto per l’Aleatico, o che la Doc Oltrepò Pavese – un’altra denominazione pluricomprensiva – è celebre principalmente per i vini frizzanti rossi (Sangue di Giuda) e più ancora per lo spumante Metodo Classico a base pinot nero.
È molto meglio, dunque, trattandosi di un esame per diventare sommelier e non notai, capire la geografia vitivinicola italiana, anziché mandare a memoria tutte le Doc. Al massimo, recitare come l’Ave Maria le sottozone del Valtellina Superiore, che per motivi insondabili prima o poi escono sempre fuori all’esame (recitiamoli di nuovo, allora: Grumello, Sassella, Inferno, Valgella, Maroggia).
Non è facile, ne convengo. E non lo è stato neanche per i legislatori. Il primo tentativo di dare un senso giuridico al grande caos che imperava in Italia è stato fatto nel 1963. Non fu che un uniformarsi alla legislazione europea. I francesi avevano le Aoc, noi le Doc. Resisi conto che la legge del 1963 non era che un palliativo e che rimaneva troppo facile ottenere una Doc (ecco il primo motivo della babele di denominazioni italiane), la legge 164 del 1992 provò a migliorare le cose, piantando paletti teoricamente più rigidi e codificando l’attuale classificazione piramidale: Vino da tavola (Vdt), vini a Indicazione geografica tipica (Igt), vini a Denominazione di origine controllata (Doc) e vini a Denominazione di origine controllata e garantita (Docg).
Doc e Docg rientravano nella macrofamiglia dei Vini di qualità prodotti per regioni determinate (Vqprd), a loro volta declinabili in frizzanti, spumanti e liquorosi. Pari pari la strada della Francia, con la differenza non piccola che i cugini d’Oltralpe sono partiti molto prima e non sono mai stati ugualmente generosi nel concedere le denominazioni.
A una Doc corrisponde una qualità certa? Una Docg è sempre il vino migliore d’Italia? Ebbene, la risposta è no. Senza se e senza ma.
Provo a spiegare. Le denominazioni sono il male minore. Nel senso che dovevano essere fatte, altrimenti il casino sarebbe stato insostenibile, ma un po’ il casino è rimasto. Le Doc sono una strada che andava percorsa, ma che alla fine si è divisa in troppi sentieri. E, al tempo stesso, ha finito quasi con l’appiattire l’evoluzione e la sperimentazione del vino.
Primo problema: le Doc sono troppe. Basti dire che ottanta Doc rappresentano, da sole, l’80% del vino italiano Doc. Questo vuol dire che le restanti 235 sono micro-Doc, frazioni di frazioni. Si guardi al Lazio: venticinque Doc, molte delle quali inattive o a rischio di estinzione. Quante ne conoscete, quante sono famose, quante indimenticabili? Poche, forse nessuna. Il Lazio è una regione che produce soprattutto vini bianchi, gli arcinoti e arcinormali bianchi della Doc Castelli Romani, ma il meglio lo dà nei pochi rossi. Per esempio, il Merlot della Doc Aprilia, l’autoctono Cesanese o il nettare dell’Aleatico di Gradoli.
La fama, del tutto immotivata, del banalissimo Est! Est!! Est!!! di Montefiascone è dovuta soltanto al grado alcolico del coppiere del vescovo tedesco Defuk, tale Martino, che nel XII secolo doveva scrivere – per conto del vescovo – la parola «est» sui muri dei luoghi dove aveva sentito un vino di particolare qualità. Probabilmente avvinazzato fino al midollo, questo Martino arrivò a Montefiascone, perse la testa per quel vino e scrisse «est, est, est». Come a dire che lì non facevano un vino buono: lì si produceva un capolavoro biblico. Può anche essere, ma era mille anni fa, e oggi il bianco di Montefiascone non è altro che uno dei tanti Trebbiani-Malvasia che inondano la penisola italiana.
Questo ci fa capire che alcune Doc sfruttano la fama leggendario-mitologica di vini antichi, e che da noi le denominazioni si danno troppo facilmente. Soprattutto se si abita vicino a Roma, il centro del potere. Ecco perché il Lazio ha così tanti titoli nobiliari e così pochi vanti oggettivi (non me ne voglia la Doc Zagarolo).
Secondo problema: le Doc, teoricamente, dovevano aiutare l’evoluzione qualitativa del vino, ma non sempre è accaduto. Prendete un altro bianco relativamente noto, quello della Doc Bianco di Pitigliano, in provincia di Grosseto. Un altro trebbiano toscano mediato con altri vitigni comuni (grechetto, malvasia toscana, verdello e qualche alloctono buttato là in percentuale varia). Un bianco beverino, piacevole ma comunissimo. Perché lo hanno fatto Doc? Perché, prima, i vignaioli locali vinificavano e conservavano il loro vino nelle grotte scavate nella roccia su cui sorge il paesino. Senza saperlo, applicavano la fermentazione a temperatura controllata, protetti com’erano dal freddo naturale delle grotte. Il vino che ne derivava, soprattutto per i canoni dell’epoca, era miracolosamente equilibrato, gradevole, fragrante. Poi la fermentazione a temperatura controllata l’hanno scoperta tutti (tranne i biodinamici, che l’hanno rinnegata, ma questo è altro affare) e il bianco di Pitigliano è diventato uno dei tanti. Non solo: la Doc ha allargato il territorio di produzione, si è cominciato a vinificare non più solo nelle grotte ma nei casali maremmani e nei capannoni di cemento armato. L’unicità di Pitigliano, paradossalmente, è stata uccisa proprio da colei che doveva esaltarne la tipicità: la Doc, appunto.
Terzo problema. Prima era più facile ottenere Doc e Docg. Accade anche per i cibi. Se il lardo d’Arnad è Dop e il lardo di Colonnata è Igp, non è perché il primo sia buono o nobile: è perché ha depositato prima la domanda. Questo significa che oggi esistono vini senza le stimmate del Vqprd, ma altamente meritevoli di tale titolo. E molto più interessanti di tante Doc italiane.
Quarto problema. Il disciplinare traccia regole e confini, ma non è detto che siano giusti. La «garantita» del Barolo ha escluso zone molto vocate, solo perché in quel momento nessuno coltivava quelle terre, e il disciplinare dell’Aglianico del Vulture non fa distinzione tra terreni collinari vulcanici, più nobili, e terreni pianeggianti, meno nobili. Ho riscontrato analoghe lamentele in tutte le regioni visitate, soprattutto Marche e Veneto.
Quinto problema. La differenza sostanziale tra Doc e Igt risiede nella rigidità del disciplinare. Chi è Doc, o ancor più Docg, ha (teoricamente) meno libertà, perché deve rispettare categoricamente un’infinità di regole ferree. Cosa comporta tutto questo? Da una parte, in via teorica, livella la qualità verso l’alto e fa sì che chi è Docg meriti effettivamente – cioè giuridicamente – di esserlo. Dall’altro, e qui sta il problema, finisce con l’omologare e standardizzare il prodotto. A febbraio ho partecipato alla presentazione del nuovo Nobile di Montepulciano: tutti bevibili, ma anche tutti un po’ uguali.
È così che sono nati i Supertuscans. Per scappare dalla normalizzazione, per cercare un gusto nuovo, alcuni vinificatori si sono volutamente declassati, impegnandosi in Vini da tavola (dove, di fatto, dentro puoi mettere di tutto) o in Igt (comunque più «tollerante» di una Doc). Anche il Sassicaia ha seguito un iter simile. Lo stesso Bricco Appiani di Roddolo, fino all’anno scorso, era un banalissimo Vino da tavola.
Per ovviare a tutto questo, il Piemonte ha intrapreso una strada particolare: ha rinunciato totalmente alle Igt, preferendo allargare un po’ le maglie di certe Doc meno titolate (per esempio la Doc Piemonte, macro-contenitore paragonabile all’Igt Toscana).
Per tutti questi motivi, dire che «un vino è Docg quindi è buono» è un azzardo. Una riduzione troppo semplicistica. E questo perché l’intento primario di una Doc non è garantire qualità ma tipicità.
È lo stesso, ancora, per Dop e Igp: la seconda può – eccome – essere più buona o pregiata della prima, ma la prima garantirà al consumatore il pieno rispetto (teorico) della «filiera». In un formaggio Dop, tutte le operazioni di produzione, dalla mungitura fino alle fasi ultime, vengono fatte nel luogo di elezione. In una Igp, la filiera è rispettata solo nella parte finale, nel senso che io consumatore sarò certo che il lardo di Colonnata è stato ultimato a Colonnata in provincia di Carrara, non che quel lardo provenga sicuramente da Colonnata.
Per le Docg è lo stesso: io sarò certo, sempre in via teorica, che il Brunello di Montalcino è stato fatto, in ogni sua fase, dalla vendemmia alla tappatura, nei terreni di Montalcino da uve sangiovese grosso, mentre di un vino da tavola – anche il migliore del mondo – non saprò assolutamente nulla: che vitigni ci sono dentro, da quali vigne proviene, dove è avvenuta la fermentazione, di quale annata è testimonianza.
Più che una certificazione di qualità, le Doc sono (sarebbero) dettagliate carte d’identità. Una espressione di piena tipicità territoriale, una salvaguardia contro la globalizzazione. Certo, le denominazioni hanno effetti anche sul mercato: la Franciacorta ha avuto il boom concreto nel 1995, quando è diventata Docg e ha così attratto il consumatore medio.
Le Doc e Docg offrono aiuti maggiori al consumatore anche nell’etichetta, che nei Vdt e Igt è quasi sempre un mezzo iconografico fantasioso e commerciale.
In una etichetta potreste trovare anche queste parole: Classico, Riserva, Novello, Superiore, Sottozona.
Classico è riservato ai vini non spumanti prodotti nella zona di origine più antica, ai quali può essere riconosciuta una regolamentazione autonoma nell’ambito della stessa Doc o Docg (per esempio il Chianti Classico).
Riserva è attribuito ai vini non spumanti sottoposti a un invecchiamento maggiore rispetto a quello previsto dal disciplinare (in genere non meno di due anni).
I Novello – non storcete la bocca inorriditi – devono contenere almeno il 30% di vino ottenuto con la macerazione carbonica di uva intera, il titolo alcolometrico deve essere almeno dell’11% e il residuo zuccherino non superiore a dieci grammi/litro. I Novelli non possono essere messi in vendita prima delle ore 00.01 del 6 novembre dell’anno di produzione delle uve.
Superiore viene utilizzato con due valenze: per quei vini con titolo alcolometrico di almeno l’1% superiore rispetto a quello minimo stabilito dal disciplinare; e, in alcuni casi, per quei vini che hanno conclamate caratteristiche qualitative migliori.
La Sottozona è una microzona, all’interno della Docg, dove (sempre in via teorica) si verificano particolarissime combinazioni legate al clima e al terroir. È il caso, per esempio, della Sottozona Cartizze per la Doc Prosecco di Valdobbiadene.
In linea di massima, più una regione ha Doc e Docg, più si sta muovendo per innalzare il livello qualitativo. Osservando le percentuali di vini Vqprd prodotti per regione, per esempio nell’annata 2001, salta all’occhio come il Sud resti indietro. La Sicilia è la terza regione italiana produttrice di vini, ma la sua percentuale di Vqprd è a malapena del 2,29%. La Puglia, che per produzione è seconda, non va oltre il 4,49%. In queste regioni, come in quella Calabria «dimenticata» dagli antichi Romani, c’è ancora il culto – e l’abitudine – della cantina sociale e del vino sfuso. Il vino non è ritenuto, non dalla maggioranza, prodotto di qualità ma di quantità.
Cambia tutto nel Veneto, massimo produttore di vino in Italia, che sale a un 20,68%. Il Piemonte è addirittura al 56,51, Lombardia e Toscana si attestano sul 60, il Friuli sfiora il 70. Il record è del Trentino-Alto Adige: 76,18% di Vqprd, cifra «spaventosa» dovuta soprattutto al fatto che nell’Alto Adige esistono solo vini Doc.
Di fronte a simili cifre, a una così drastica rottura tra Nord e Sud, verrebbe la voglia, vagamente calderoliana, di diffidare sempre dei vini del Sud, di per sé tacciati – un po’ a ragione e un po’ no – di essere troppo marmellatosi e alcolici. Sarebbe un’eresia inaccettabile.
Il mio regno – che peraltro non ho – per un Greco di Bianco calabrese, un Castel del Monte rosso. O per l’avvolgente abbraccio di un Moscato di Trani, bevuto fresco, in una spiaggia felicemente deserta.
Come bere un vulcano (Aglianico)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Aglianico del Vulture Don Anselmo 2001 – Paternoster
Musica di degustazione:
Vinicio Capossela, Ovunque proteggi
Mi è capitato di partecipare a una degustazione, alla cieca, di Aglianico. A un certo punto mi sono imbattuto in uno dei vini più strani che abbia mai assaggiato. Era come se fosse stato affumicato, sapeva distintamente di gomma bruciata, addirittura – secondo il mio vicino – «sembrava di bere speck».
Quel vino era un Terra di Lavoro, una delle bottiglie più celebrate del Sud italiano. 80% aglianico e 20% piedirosso, il vero outsider tra i vitigni rossi autoctoni campani.
Il Terra di Lavoro è il fiore all’occhiello dell’azienda Galardi, a San Carlo di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta: il cosiddetto Ager falernum, terra di vini mitici fin dall’antica Roma. È una creatura del maestro Riccardo Cotarella. L’annata 1998 è stata universalmente celebrata per il carattere, la severità, l’austerità.
A me, meno fortunato, in quella degustazione era toccato un 1999. Davanti avevo due degustatori americani (si incontrano sempre molti americani a Cortona: è qui che è ambientato Under the tuscan sun, libro e poi film – entrambi orridi – partoriti dalla non troppo fervida mente di Frances Mayes, che a Cortona vive e la cui casa – Bramasole – dà il nome a un Syrah Antinori).
Di fronte a quel vino, i due americani erano inorriditi. Non potevano certo trovarci la morbidezza, la concentrazione, l’estasi di rotondità e rovere che sono soliti inseguire. La cosa buffa, l’ho scoperto dopo, è che una delle fortune dei migliori Terra di Lavoro è quella di somigliare ai tagli internazionali, come se dentro non ci fossero aglianico e piedirosso ma merlot e cabernet sauvignon.
Devo dire, a onor del vero, e pur rischiando in questo modo l’accusa di americanismo, che quel vino non aveva convinto neanche me. Sembrava davvero spremuta di speck.
Stiamo parlando di un vino che in un’enoteca costa quaranta euro e in un ristorante difficilmente ti apriranno per meno di settanta. E anche questo conferma l’assoluta soggettività del concetto di gusto.
Ciò nonostante, per settimane mi sono sentito un vile plebeo che non capiva nulla della peculiarità dei vitigni autoctoni. Poi, un bel giorno, in mio soccorso è venuto un vecchio numero di «Porthos». La rivista di Sangiorgi ha dedicato due retrospettive all’Aglianico, tutte molto ben fatte e tutte ricche di terminologie squisitamente lisergiche (le mie preferite? «Naso aereo, tenero, vivo e sottilissimo»; «naso puntuto e promettente»; «naso struggente di mineralità e calore, intenso nella varietà olfattiva che comprende origano, spezie, pietre, liquirizia, fiori secchi e visciole»).
Il mio naso non è né aereo né promettente, men che meno struggente (come fa, poi, un naso a essere struggente?). Qualcosa avevo però intuito, di quel Terra di Lavoro 1999, se anche «Porthos» lo aveva definito «naso un po’ bruciacchiato, la frutta nera è infatti combinata con sentori di carbonella davvero singolari: escono, a distanza, note animali, di gomma e di rovere dolce. Una delle delusioni più cocenti, soprattutto rispetto alla fama che lo accompagna e alle prove molto belle del 1998 e del 2000».
Da questo aneddoto si capiscono tre cose. Che l’aglianico è un vitigno difficile. Che, quando sentite un vino che sa di speck, dovete dire che «il naso è bruciacchiato e la frutta nera è combinata con la carbonella». E che, per una volta, la diffidenza degli americani per l’autoctonia italica non era immotivata.
Sempre stati grandi bevitori gli antichi Romani. E, prima di loro, i Greci. Entrambi avevano per la Campania un’attenzione particolare. Orazio, Virgilio, Plinio il Vecchio, Petronio Arbitro: sono loro a parlarci di Caecubo, Falernum. I coloni greci diffusero qui la coltivazione della vite a partire dall’VIII secolo a.C.
La famiglia campana che più ha fatto per la vitivinicoltura regionale è la Mastroberdino, oggi scissa in più aziende. Per Paolo Mastroberdino, figlio di Walter, titolare di Terredora a Montefusco (Avellino), l’aglianico ha almeno settemila anni di storia. L’aglianico del Vulture, quello del Taburno e quello dell’Irpinia avrebbero matrice unica. Le diversità dipenderebbero solo dal terroir.
L’aglianico è un vitigno misterioso fin dal nome. Certo, sembra rimandare a ellenico, l’antica uva greca. Ai tempi del dominio aragonese era un’uva coltivata in pianura, che si dice llano. Nell’idioma spagnolo «ll» si diceva «gl», ecco forse il perché di aglianico.
Oggi, non tutti sono d’accordo, e Giuseppe Murolo ha ricordato come nei testi antichi latini non c’è traccia del vitigno hellenico, anche perché i Romani usavano il termine «elleni» per definire genericamente i barbari.
Aglianico potrebbe piuttosto derivare dal greco aglaós, che vuol dire «splendido», con chiaro riferimento al colore del succo, non nero come l’antico Lacrima (l’attuale Piedirosso) ma – citando Andrea Bacci, il medico di papa Sisto V, che nel 1596 scrisse la prima «guida» enologica – «un succo rubicondo e leggermente rosso».
L’Aglianico è detto spesso il Nebbiolo (o il Barolo) del Sud. Esistono senz’altro analogie. La spiccata tipicità, la maturazione tardiva. La delicatezza. Il crescere soltanto in zone limitate. La propensione (e anzi l’esigenza) a invecchiare. La distinta durezza, data dalla ricchezza in tannini e – più del Nebbiolo – acidità. Perfino i profumi si somigliano: liquirizia, prugna, erbe medicinali.
Eppure l’Aglianico è molto più radicale del Nebbiolo. Un Sangiovese può essere mediato, forse persino un Nebbiolo. L’Aglianico non ha mezze misure: o grandissimi vini o grandissime delusioni. Senza un giusto equilibrio e rapporto tra alcol, estratto e acidità, non ha chance.
Perché cresce bene al Sud, specificamente in Campania? L’88% del totale nazionale di aglianico – dati Istat 2000 – è campano. Il motivo risiede soprattutto nella maturazione tardiva. La vendemmia raramente inizia prima di metà ottobre e spesso si inoltra fino a novembre. L’aglianico del Vulture è l’ultima uva italiana a essere vendemmiata (tra quelle destinate a vini secchi), insieme a quella di Valtellina. Tutto questo tempo è necessario all’aglianico non per sovramaturare, ma per maturare. Senza il giusto calore, in climi freddi o dall’insolazione insufficiente, non completerebbe la maturazione e deborderebbe in acidità.
Certo, il molto sole vuol spesso dire anche grande alcolicità e, peggio, uva surmatura, ma è il prezzo che a volte si deve pagare.
E qui entra in gioco il grande problema dell’Aglianico. La poca storia alle spalle. Che è un paradosso, se si pensa all’antichità del vitigno e alle illustri recensioni che già aveva ai tempi di Plinio il Vecchio, ma che qui vuol dire mancanza di conoscenza scientifica e di conoscenza empirica.
Fino a pochi anni fa zone vocate alla coltura di aglianico, come quella beneventana del Taburno, erano dominate dalle cantine sociali e le uve si usavano come taglio. Tuttora la più grande azienda è la Cantina del Taburno, che ha però elevato il range qualitativo (mi si perdoni per l’uso disinvolto della parola range).
I produttori contemporanei sono perennemente a metà strada tra il desiderio di rispettare la tipicità di un vitigno senz’altro scontroso, ma dalle potenzialità uniche, e la voglia di prendere la solita scorciatoia del gusto industriale e dell’abuso di barrique. Qui non siamo in Franciacorta, qui non c’è progettualità irreprensibile: si procede spesso a tentoni e tastoni.
Una misurata mediazione è ritenuta indispensabile: lasciato così com’è, «troppo» rispettato, l’aglianico sarebbe così duro da risultare imbevibile. E c’è anche chi, forse per giustificare le troppe pratiche di cantina, vuol convincersi che l’aglianico sia il progenitore del cabernet, e come il cabernet tolleri con particolare resistenza e ispirazione la barrique. In altre parole, l’aglianico, proprio per la sua esagerata personalità, resiste più di altri vitigni all’invadenza della barrique e del rovere, che invece seppellisce vitigni meno caratterizzati. Una verità che può diventare un alibi.
Guardato oggi, l’aglianico non è fortunato. Le sue caratteristiche principali sono acidità e tannicità, ovvero i due aspetti meno ricercati – e anzi ottusamente detestati – dal gusto globalizzato.
Capita così, anche per l’aglianico, che l’astringenza data dai tannini venga attenuata con la sovramaturazione, l’uso del rovere e della gomma arabica. Che si finisca col rinunciare all’acidità in nome della ben nota morbidezza, non considerando che è proprio l’acidità ciò che ci fa venire voglia di ri-bere (non bere soltanto) un vino. E che si vanifichi il patrimonio di sapidità – che vuol dire «lunghezza» e «tensione» di un vino – in nome del volume, della secchezza e di una concentrazione tanto eclatante quanto innaturale.
L’Aglianico è un vino difficile, che rispetto al Nebbiolo è ancora più netto sull’esigenza di essere aspettato. Un Aglianico bevuto giovane è un ossimoro, soprattutto se si prendono in esame le zone più nobili: Taurasi, Vulture.
Per niente facile (pure lui), ma qualcosa si muove. Qualcuno si è dato alla biodinamica, altri hanno imparato ad ascoltare il territorio. L’aglianico raggiunge la piena maturazione fenolica otto giorni dopo aver raggiunto la massima concentrazione zuccherina. Ne consegue che una vinificazione di uve leggermente sovramature smorza l’astringenza innata e permette un maggiore estratto (e minore acidità). Si effettua la sfogliatura, affinché gli acini risultino più piccoli e la superficie venga investita da una luce maggiore. Per controllare il bilancio nutrizionale della pianta, in maniera tale che l’attività vegetativa non sottragga linfa al frutto, si praticano le cimature e le sfemminellature («l’asportazione dei rami anticipati improduttivi» mi spiega «Porthos»).
I produttori cercano di essere attenti anche sotto il profilo dei prezzi, proponendo una gamma di prodotti a scala verticale, dall’Aglianico base (da supermercato) a bottiglie più impegnative. L’Aglianico del Taburno è ritenuto uno dei vini più convenienti come rapporto qualità/prezzo, e la cosa vale anche per il Vulture e la zona dell’Agro Falerno (un po’ meno per il Taurasi, spesso troppo caro).
L’aglianico non è – paradossalmente – un vitigno esigente dal punto di vista geopedologico. Si adatta ai terreni sciolti e a quelli argillosi, come pure a quelli calcarei. Sfrutta anche la particolarissima situazione del Taburno, in cui – nella zona di Torrecuso – il terreno è caratterizzato da uno strato gessoso simile alla craie dello Champagne. Dà però il meglio di sé nei terreni vulcanici, leggeri e ricchi di minerali.
Vitigno dei vulcani, l’aglianico. Questo lo ha salvato dalla fillossera, che non attecchisce in zone sabbiose, ricche di zolfo o appunto vulcaniche. In Campania e Basilicata le viti arrivano ad avere centocinquant’anni, in alcuni casi addirittura più di duecento. Una situazione rarissima, con le viti che si presentano antiche e spettacolari. Non solo alla vista: più ancora, sul piano dei risultati.
Dalle viti a piede franco nasce tutto migliore: il colore della buccia, la consistenza, il sapore dei vinaccioli (qui fondamentali), il rapporto tra polpa e pellicola. Il vino nascerà «da solo» più incline alla dolcezza, alla morbidezza.
Le radici delle vecchie viti sondano il terreno con capillarità, distribuendo su trenta-quaranta chili per pianta una qualità rara. È il caso della zona del Vulture come dell’Irpinia, dove ancora si pratica la coltura del «quadrato avellinese».
Vitigno di vulcani, già. Sarà il Vulture in Basilicata, il Vesuvio in Irpinia (la terra del Taurasi) e il Roccamonfina – l’unico vulcano ufficialmente spento in Italia – nel Casertano. Sono questi gli aglianico più inclini all’invecchiamento.
Il vitigno si coltiva anche in zone per ora non ugualmente interessanti, per esempio a Campobasso (l’aglianico molisano) e nel salernitano (la zona del Cilento, quella con più margine di miglioramento perché più lenta a svecchiarsi).
È però il Beneventano l’altra grande zona dell’aglianico. In termini quantitativi è il vero polmone del vitigno. Qui, verosimilmente, il clone ellenico dovrebbe avere attecchito per primo. L’influenza del basalto vulcanico non è forte come nel Vulture, nell’Irpinia o nel Casertano. La zonazione è diversa: sabbie, argille, calcare debole e altri minerali. Il vino nascerà inevitabilmente diverso. L’evoluzione sarà meno ambiziosa, ma i prezzi più accessibili e il gusto per certi aspetti più facile, più penetrabile, più comprensibile.
L’Aglianico del Taburno, zona da poco emancipatasi dal gioco delle cantine sociali e delle uve da taglio, è ritenuto l’Aglianico del futuro. Pure qui, vedi il caso, il futuro somiglia al passato.
L’Aglianico, infatti, non è nato come vino da invecchiamento, austero e radicale, ma come vino beverino, popolare, leggermente frizzante e con un residuo zuccherino. Ecco spiegata la densità di ceppi per ettaro, la più alta di tutta Europa. La motivazione è storica: le proprietà erano minuscole, il coltivatore cercava di metterci il maggior numero possibile di piante per ricavarne il massimo guadagno. Una sorta di anticipazione della iperdensità teorizzata dai francesi.
L’Aglianico nasce su terre di bellezza intatta, colline poco sotto i vulcani, all’ombra di boschi di ippocastani.
La forza di queste terre sta nella bellezza e nella unicità. La Campania è una delle regioni più ricche di vitigni autoctoni (più di venti). Alcuni, come il pallagrello e il casavecchia, sono detti autoctoni di seconda generazione, perché riscoperti di recente, da quattro o cinque vendemmie. Più si punta sugli autoctoni, meno ci si adagia sul rassicurante gusto dei vitigni internazionali. Non è un caso che la Campania sia l’unica Igt italiana che vieta l’uso di vitigni internazionali in purezza.
È come se queste terre dicessero: o ci prendete per come siamo, o andate altrove. Perlomeno tale sembrerebbe l’approccio, che non è però universale, perché in tanti fa breccia la tentazione di mascherare l’aglianico come un cabernet meridionale. Sarebbe il solito errore. Lo stesso aglianico, con i suoi molti cloni, invita ad ascoltare la sua polifonia. Molti i biotipi: l’aglianico di Taurasi, in provincia di Avellino; l’aglianico amaro, nel Beneventano e in parte nel Casertano (Roccamonfina), anche detto aglianico del Taburno; l’aglianichello, a Napoli; l’aglianico del Vulture, diffuso nella zona omonima in Basilicata; infine, l’aglianicone o aglianico bastardo, in provincia di Salerno (il Cilento), probabilmente identificabile con il ciliegiolo, cultivar della Toscana centrale.
Ognuno ha le sue caratteristiche. Il Taurasi è poco vigoroso e a grappolo serrato, molto soggetto all’attacco della Botrytis cinerea. Il tenore zuccherino è più alto di quello dell’aglianico amaro, più vigoroso e con un’acidità maggiore.
Taurasi è anche stata la prima Docg del Centro-Sud (1993). Merito, ancora, della famiglia Mastroberardino, che sull’Aglianico punta fin dal 1754 (così attesta il catasto borbonico).
Il Taurasi, per la maggiore ricchezza di antociani e la povertà dei tannini nei vinaccioli, presenterà una propensione all’invecchiamento maggiore rispetto all’Aglianico del Taburno, che, per la spiccata acidità e concentrazione di tannini catechici (quindi non nobili), a lungo andare risulta più instabile nel colore e più soggetto all’ossidazione.
Il profilo olfattivo varierà inesorabilmente, con qualche costante: note fruttate con dominante di frutti rossi (mirtillo, mora, fragola, ciliegia), sentori di radice (soprattutto liquirizia), aromi balsamici, chiodi di garofano, pepe nero. Più il vino sarà evoluto, più si incontreranno profumi particolari e «violenti»: sangue, cuoio, forte mineralità.
L’Aglianico più pregiato è quello del Vulture. La Doc è nata nel 1973. Comprende quindici comuni in provincia di Potenza. Il disciplinare parla di Aglianico in purezza, titolo alcolometrico minimo di 11,5 per lo spumante e 12,5 per il vino secco, un affinamento minimo di dodici mesi. Esistono le tipologie Vecchio (tre anni di affinamento), Riserva (cinque anni) e Spumante. Il terreno è a base tufacea, con silicio e potassio. Si arriva a seicento metri sul livello del mare a Vulture e cinquecento a Venosa. Forti escursioni termiche, grandi profumi. Un tempo si coltivava ad alberello, tipico modus greco: oggi si predilige il filare basso, anche per salvare la vite dai forti venti. I riconoscimenti olfattivi saranno minerali, fruttati, di erbe aromatiche: a Rionero e Barile (una delle zone più vocate) incontrerete sentori animali, ad Acerenza la pelle e il cuoio.
I nomi che contano, in questa terra incomprensibile e dimenticata, sono D’Angelo, Cantina del Notaio (a Rionero), Cantina di Venosa (nel comune omonimo) e Paternoster (a Barile).
Ho scelto quest’ultimo perché la storia della famiglia Paternoster è quella classica: tutto nasce con il nonno Anselmo, personaggio tipico del territorio, e tutto viene trasformato – in chiave moderna – da suo figlio Giuseppe. Oggi il titolare è il figlio di quest’ultimo, Vito, mentre il fratello Sergio è l’enologo. Il loro vino di punta è il Don Anselmo. Un vino da ventotto euro in enoteca, premiato anche quest’anno con i «cinque grappoli» nonostante l’annata difficile del 2003. Secondo la guida Duemilavini, il vino Don Anselmo sa di vulcano, grafite, pietra lavica, aneto, rabarbaro, cioccolatino alla menta (si noti il «cioccolatino», non cioccolato), marasca, liquirizia dolce. Matura in botti e barrique per venti mesi.
Paternoster rappresenta al meglio il dilemma di chi fa Aglianico. A fianco del radicale Don Anselmo, definito da «Porthos» «vivido punto di incontro tra flemma levantina e ventosa severità», la tentazione della modernità ha portato alla produzione dell’Aglianico del Vulture Rotondo, dove il new style potrebbe equivalere all’uso/abuso della barrique.
Modernizzazione o tradimento? «Non è esattamente così» racconta Vito Paternoster, responsabile della promozione e commercializzazione. «La mia famiglia fa vino dal 1925, ha iniziato nonno Anselmo, vignaiolo, a cui non a caso abbiamo dedicato il nostro vino più prestigioso. Inizialmente produceva un vino che, imbottigliato con un alto residuo zuccherino, rifermentava in bottiglia. Ancora oggi ci divertiamo a produrre in piccola quantità uno spumante da uve aglianico, lo chiamiamo Antico. A capire le potenzialità dell’aglianico e modernizzare la cantina fu mio padre Giuseppe, il primo tra di noi a studiare enologia a Conegliano Veneto. Ogni generazione ha gestito l’eredità di quella precedente. Adesso siamo pronti per la quarta generazione Paternoster. Facciamo tutto in famiglia, non abbiamo né enologi né winemakers esterni. La nostra è la tipica storia dei vignaioli del Vulture, in un certo senso fungiamo anche da chioccia per le nuove cantine.»
E le quasi undicimila bottiglie di Rotondo? Una scorciatoia per rendere l’Aglianico più mainstream? «No, la dimostrazione che Paternoster non si impigrisce né vive di glorie passate. Siamo fedelissimi all’Aglianico e lui è fedele a noi, c’è complicità reciproca, lo rispettiamo e sappiamo che la sua forza è proprio la sua unicità. Se lo normalizzassimo, lo tradiremmo. Il Rotondo è un Aglianico classico, con l’unica variante di una gestione moderna della malolattica per dare più morbidezza. L’idea è quella di renderlo più accattivante, meno scorbutico anche nei primi anni di vita, ma parliamo comunque di un Aglianico in purezza, che non è sepolto dai sentori legnosi della barrique nuova.»
La tipicità dell’Aglianico è croce e delizia. «La sua personalità è spiccata: vino austero, di stile nordico, con una bella acidità e grande eleganza: capisco chi dice che sia un vitigno che baroleggia, certe affinità con le Langhe ci sono.»
Ma non è un vino facile da commercializzare. «Per una serie di motivi. Manca, anche qui, una linea guida. Ci sono i tradizionalisti chiusi nelle loro stanze, quelli come noi che provano a comunicare con le aziende nuove meritevoli, ma anche freschi produttori che non sanno nulla di vino e non rispettano vitigno e territorio. Poi però sul mercato ci presentiamo con lo stesso nome, e il consumatore non sempre è in grado di poter scegliere bene. La stessa produzione complessiva di Aglianico del Vulture è limitata, tre milioni di bottiglie in tutto. Nulla rispetto alle grandi cifre.»
L’Aglianico, a parte la zona del Taurasi, è ritenuto uno dei vini migliori per rapporto qualità/prezzo. «È abbastanza vero, ma la scarsa conoscenza ha portato anche a un allargamento della forbice tra prezzi bassi e prezzi alti. I nuovi produttori, che hanno meno scrupoli e meno spese, possono andare sul mercato a un prezzo molto più basso del nostro. Il nostro vino di punta, il Don Anselmo, in enoteca si trova a ventotto euro. Al supermercato si trovano Aglianico ben più economici: certo, sono peggiori, meno legati al territorio, ma non tutti sono in grado di capirlo. E la differenza aumenta.»
Una soluzione potrebbe essere elevare l’Aglianico del Vulture a Docg, creando una «ricaduta» sulla Doc dedicata a tutti quei produttori che vinificano in zone meno vocate. «Il disciplinare attuale consente indiscriminatamente di produrre Aglianico del Vulture in collina come in pianura, ma il vino finale è diversissimo. L’Aglianico di Venosa, una zona pianeggiante, è senz’altro dignitoso, ma ha caratteristiche diverse da quegli Aglianico “veri” che nascono dalle zone collinari e vulcaniche. Penso a Barile, dove abbiamo la fortuna di lavorare noi, ma anche a Nero Ginestra.»
La forza dei migliori Aglianico del Vulture risiede nel microclima. Si tende a pensare ai vini del Sud come a prodotti genericamente marmellatosi, troppo alcolici, condannati a tale status da abitudini vitivinicole volte anzitutto a sfruttare al massimo le esposizioni assolate e l’alto contenuto zuccherino. «Le zone collinari e vulcaniche del Vulture sono diverse. Parliamo di vigne vecchissime, salvate dalla fillossera grazie ai terreni vulcanici. Siamo sui 450-600 metri di altezza, quindi meno insolazione, ottima ventilazione, drenaggio perfetto, bella mineralità e grande escursione termica giorno/notte, che renderà più fini i profumi. Anche per questo ci possiamo permettere di assecondare la maturazione tardiva dell’aglianico. Nessuno, tranne la Valtellina, vendemmia tardi come noi: ai primi di novembre. Per noi la maturazione anticipata è a fine ottobre, quando gli altri stanno fermentando da un bel pezzo.»
Impossibile delineare un generico quadro d’insieme dell’Aglianico. «Quello del Vulture sarà diverso dal Taurasi, dal Sannio, dal Beneventano o dagli ultimi tentativi di vinificare Aglianico in Puglia. Ci sono dei tratti in comune, certo, come la propensione all’invecchiamento, ma la personalità è sempre forte.» Così forte da divenire un boomerang. A partire dai voti che si trovano nelle guide.
Se l’Aglianico più commerciale prova a farsi il maquillage somigliando per colore e impenetrabilità al Montepulciano d’Abruzzo, il Don Anselmo «è una fuga all’indietro, l’anima irrequieta della nostra famiglia, il desiderio di non perdere un patrimonio di espressività e sentimento. Il Don Anselmo nasce da un blend di uve provenienti da vigneti ad alberello e spalliera, di almeno trent’anni, con basse rese di grappoli piccoli e spargoli. Provenendo da vigneti diversi, sarà ogni volta diverso anche il vino, non solo per la differente annata. Le uve sono raccolte a mano, le viti così vecchie da non avere neanche bisogno di essere potate: arrivata a una certa età, la vite sa regolarsi da sola».
I vigneti, il macarico e il titolo, sorgono su due valli che scendono dall’antico vulcano, il Vulture. Spiccata componente lavica, forte presenza tufacea. Il vino che ne nasce ha una vita lunghissima, in bottiglia e nel bicchiere. Una volta versato, il vino si esalta e «continua», evolve, è dinamico. Non oso dar torto a «Porthos» – né, in questo caso, avrei motivo per farlo – che di questo vino ha scritto: «La sua mineralità è lava e tufo, con riverberi di brezze marine. La sua passionalità è sangue vivo, il tartufo gli dà sensualità». Uno dei migliori vini d’Italia, uno dei più celebrati e coerenti Aglianico del mondo, insieme – per dirne un altro di queste zone – al Canneto di D’Angelo. «Eppure il Don Anselmo non ha mai preso i “tre bicchieri”. I “cinque grappoli” sì, i “tre bicchieri” no. Non è un nostro particolare cruccio, ma è la dimostrazione che la degustazione alla cieca ci penalizza. L’Aglianico di per sé, e il Don Anselmo in particolare, non è mai pronto. Quando arriva il momento di degustarli, gli altri vini sono in splendida forma, l’Aglianico chiede invece di essere aspettato ancora un po’. Ma non c’è tempo, non per chi recensisce. Qualche volta capita addirittura che i degustatori lo riconoscano proprio perché non è pronto: “Questo vino non si concede nell’immediato,” dicono “quindi deve essere il Don Anselmo”. Magra consolazione.»
Se vi capita di incontrare sulla vostra strada un Don Anselmo, non curatevi delle guide e consegnatevi a lui interamente. È uno dei pochissimi vini che, quando lo bevi, ti fa venire voglia di usare davvero parole che, nel 99% delle degustazioni, suonerebbero ridicole. Di fronte al Don Anselmo, anche il «carciofino» ammetterebbe verosimilmente deroghe.
Il vino fa bene, il vino fa male (la sbornia)
È assurdo il detto popolare che
vuole un uomo trasformato
dall’ubriachezza.
Al contrario, i più
sono trasformati dalla sobrietà.
THOMAS DE QUINCEY
Uno dei libri dedicati al vino che ritengo irrinunciabili è lungo meno di cento pagine, lo ha scritto Giuseppe Sicheri e si intitola Il vino: 100 domande e 100 risposte (Hoepli). Adoro, in particolare, la domanda 76, anzi la risposta alla domanda 76.
«Quanto vino si può bere al giorno?» La domanda è questa. La risposta fa così: «Non c’è unanimità di vedute circa la quantità di vino che si può ingerire giornalmente, tuttavia la maggior parte degli studiosi ritiene valida la dose di un grammo di alcol per chilo di peso corporeo». Una cifra strepitosa, almeno per me. Peso, più o meno, 80 chili, e se questa è la regola ho diritto a bere una bottiglia di vino al giorno. Una pacchia. Poi purtroppo il libro fa dei distinguo, soprattutto per le donne, i bambini e gli anziani, ma nelle prime due categorie non rientro e per la seconda c’è tempo.
Più realistica mi pare la risposta contenuta in un altro libro pregevole, Enciclopedia del vino (Boroli Editore), che citando una relazione del 1997 dell’Istituto Nazionale della Nutrizione afferma che «la dose quotidiana di alcol considerata accettabile corrisponde a circa 0,6 grammi per chilo di peso corporeo. La dose-soglia da non superare assolutamente è stata invece individuata in circa un grammo di alcol per chilo di peso corporeo». I grammi di alcol presenti in una bottiglia si ottengono moltiplicando il grado alcolico per 7,9.
Come tutte le cose buone, anche il vino ha le sue controindicazioni. Quella che fa più paura si chiama alcol. Quella che va quasi di pari passo si chiama calorie. Il vino, se troppo assimilato, fa male e fa ingrassare. Il primo sintomo: la pancetta, che viene anche se sei magro (ma a uno che beve birra o superalcolici viene molto di più).
Negli ultimi anni, parallelamente alla scoperta in massa del vino come prodotto qualitativamente alto e culturalmente chic, si è sviluppata una dotta corrente medico-filosofica per la quale il vino ha, anche a livello salutistico, più effetti positivi che negativi. Sorridete: è tutto vero. Il vino, è il caso di dirlo, se saputo gestire, fa più bene che male.
L’alcol e gli acidi del vino, anzitutto, aiutano la digestione. L’alcol aumenta la secrezione salivare di ptialina, che prepara il cibo all’attacco dei succhi gastrici. Gli acidi aumentano l’acidità del bolo, in maniera tale che gli enzimi si trovino nella condizione ideale per demolire il cibo. L’alcol aumenterà anche la secrezione di succhi gastrici, gli acidi stimoleranno le contrazioni dell’apparato digerente e l’apertura del piloro.
Il vin brûlé (leggo sempre dal prezioso libello di Sicheri) è da sempre indicato per raffreddori e crisi respiratorie. Jack Masquelier, uno dei massimi studiosi mondiali delle relazioni tra vino e salute, ritiene il vino «un agente profilattico eccezionale nel campo dell’igiene alimentare». Il vin brûlé, nello specifico, sfrutta l’azione vasodilatatrice provocata da alcol e polifenoli.
Il vino secco, cioè privo di zuccheri, è tollerato dai diabetici. Non solo: l’alcol fornisce calorie che un diabetico non può ricavare dallo zucchero, così che il suo fabbisogno calorico può essere soddisfatto senza bisogno di ricorrere all’insulina. Grazie all’alcol contenuto, il vino esplica un’azione definita ipoglicemizzante, cioè abbassa il contenuto degli zuccheri nel sangue.
Se entrate in una farmacia in Germania, troverete esposte bottiglie di «vino per diabetici». Cosa contengono? Barbera d’Asti e Cortese di Gavi. Ma potrebbe essere un Rosso Piceno come pure un Taurasi.
L’alcol, di per sé, è un alleato dell’uomo. In America è definito «lo spazzino delle arterie», che, a pensarci bene – come molte cose americane – vuol dire tutto e il contrario di tutto: a piccole dosi ripulisce il sangue dalle impurità, a grandi dosi spazza e distrugge tutto. Di sicuro facilita la formazione di sostanze (Hdl lipoproteine) che effettuano il trasporto del colesterolo dalle arterie al fegato (dove il colesterolo è reso innocuo).
I vini rientrano nelle diete. Si chiamano «vini di regime» e sono destinati – per le loro caratteristiche energetiche o eccitanti – a integrare gli elementi biochimicamente attivi. Esiste in merito una tabella, molto affascinante. Il vino bianco secco è indicato per le malattie del ricambio. Il rosato per le coliti da stitichezza, il rosso da tavola per le coliti con diarrea (interessante: se ne deduce che, se uno ha la colite, tanto vale prenderla con l’optional della diarrea, così berrà un vino migliore).
Il rosso importante è benefico per le gastriti, il vino molto alcolico per le convalescenze. I frizzanti per le nevrosi depressive, gli spumanti per le malattie febbrili acute (meno bollicine per i depressi, più anidride carbonica per chi ha febbre da cavallo).
Al vino ci si dovrebbe avvicinare con gradualità. Gli studiosi – quelli più innovatori, almeno – consigliano di cominciare ad aggiungere piccole quantità di vino all’acqua a partire dai sette-otto anni di età. In questo modo l’organismo si abitua, impara a fraternizzare con il vino. Dai dodici-sedici anni si può aumentare fino a due dita per bicchiere d’acqua. Dopo i diciotto anni è consentito un bicchiere e mezzo a pasto (lo so, in realtà si comincia molto prima, e quasi mai col vino). Dai venti-ventuno anni la dose è, o dovrebbe essere, quella magica di un grammo di alcol per chilo di peso corporeo.
I nostri nonni hanno sempre bevuto (almeno) un bicchiere di vino a pasto, ci hanno sempre detto che faceva bene e sono arrivati a un’età considerevole sfoggiando una forma fisica che noi buonanotte. E, quando eravamo piccoli, ci facevano fare merenda con una fetta di pane imbevuta di vino, con lo zucchero sopra. Le madri inorridivano, ma le madri sbagliano quasi sempre.
I nonni sapevano «d’istinto» che il modo migliore per avvicinare un bambino al vino era la gradualità, e intuivano che il male dell’alcol non era la sua esistenza ma la sua abbondanza.
Tutto questo ci dice che, in ogni campo della vita, non solo nel microcosmo enologico, una buona regola empirica è ritenere altamente percorribile la strada dei nonni (sì, anche questo è elogio dell’invecchiamento).
Certo, i nostri avi non avevano mai sentito parlare del resveratrolo. Ebbene sì, è questo il nome del polifenolo magico, contenuto nelle bucce dell’uva, che spiega i poteri curativi del vino. Non si trova solo nell’uva. È contenuto in una settantina di piante: arachidi, grano saraceno, lamponi, gelso. Ma nessuna pianta ha tanto resveratrolo quanto la vite.
Di cosa si tratta? Di un polifenolo appartenente alla famiglia chimica degli stilbeni. Nella vite ha funzione di fitoalessina, ovvero di protezione dagli attacchi di agenti patogeni come funghi e batteri. È contenuto principalmente nella buccia e nei semi. Il suo tenore varia in funzione della varietà (ne è particolarmente ricco il Negroamaro) ma solitamente è compreso tra uno e tre milligrammi/litro. La sua presenza può essere incrementata con opportune scelte varietali e tecniche colturali, per esempio nei vini poco sottoposti a trattamenti tecnologici e nelle uve maturate in collina, ottenute da viti poco concimate chimicamente (è una delle molte frecce nell’arco dei biodinamici).
La forza del resveratrolo è quella di essere un antiossidante. Lo si è scoperto analizzando ciò che era chiamato «paradosso francese» (french paradox). Ovvero: i francesi mangiano grassi (anzitutto formaggi) come in nessun altro paese, ma hanno un’incidenza relativamente bassa di arteriosclerosi nella popolazione. Che, notoriamente, consuma vino in abbondanza (a differenza degli americani che mangiano grassi e bevono grassi, sposando una spietata coerenza masochistico-alimentare). L’abitudine al vino ha così involontariamente salvato i transalpini.
Anche dal «paradosso francese» (e dal «paradosso emiliano»: tanti grassi, tanto Lambrusco, poca arteriosclerosi), si è avuta conferma che il resveratrolo è una sostanza dotata di attività antinfiammatoria e anticoagulante. Ne è stato dimostrato anche un effetto inibitore sulla formazione di tumori indotti da sostanze cancerogene negli animali da esperimento.
Queste doti sono più spiccate nei rossi che nei bianchi, per la semplice motivazione – ormai dovremmo saperlo – che i rossi effettuano la macerazione mediante contatto del mosto con le bucce e i bianchi no; il resveratrolo, trovandosi soprattutto nelle bucce, nei bianchi passa di meno.
Anche il bianco, però, fa bene. Secondo una recente ricerca congiunta del Dipartimento di Anatomia Umana dell’Università di Milano con il Cardiovascular research center dell’Università del Connecticut, il consumo di vino bianco protegge il cuore dalla ischemia-riperfusione, cioè dall’infarto. I tre vini bianchi in esame (due Tocai e un Verduzzo della zona di Cormons) erano stati in grado di diminuire il danno alle funzioni ventricolari e di ridurre significativamente l’area dell’organo colpita dall’infarto sperimentalmente indotto. L’azione protettiva di uno dei tre vini (non è dato sapere quale) si era rivelata addirittura paragonabile a quella del vino rosso: tale effetto non era dovuto all’alcol, in quanto i tre vini erano stati in precedenza privati della componente alcolica, ma solo dai polifenoli.
La scoperta del french paradox ha rotto la diga delle teorie che «assolvono» e anzi «benedicono» il vino anche da un punto di vista salutistico.
Ho fatto qualche ricerca (per esempio nei siti Enotime e Vino-salute.com) e ho constatato che, secondo queste teorie, i dati forti sono i seguenti. Quaranta grammi di alcol al giorno (più o meno mezza bottiglia) per l’uomo e venti grammi per la donna fanno diminuire di oltre il 30% il rischio di coronaropatie. Il rischio di infarto del miocardio e attacchi cardiaci nei consumatori abituali diminuisce addirittura del 75% negli uomini e del 61% nelle donne che hanno consumato nelle ventiquattro ore precedenti bevande alcoliche. L’alcol fa diminuire l’aggregazione piastrinica del sangue, limitando la formazione di coaguli o trombi all’interno dei vasi sanguigni. Ciò è valido soltanto per i consumatori abituali, perché gli effetti appena citati sono a breve termine (ventiquattro-quarantotto ore), dopo le quali in alcuni soggetti si verifica addirittura un effetto contrario, cioè aumenta il rischio di coaguli ematici. Da ciò si evince che bere solo nel fine settimana o in rare occasioni fa più male che bene.
La scoperta della presenza del trans e del cis resveratrolo è del 1993. È certo che combatta arteriosclerosi e iperlipemia, e già da molti secoli è impiegato nella medicina tradizionale orientale.
Alcuni tannini derivanti dal vino ultimamente vengono usati anche nelle creme per sciogliere i muscoli dopo l’attività sportiva o semplicemente per rilassare le gambe.
Il resveratrolo è maggiormente presente nelle uve di media e alta collina che godono di un corretto soleggiamento e sono più esposte ai raggi ultravioletti.
Studi effettuati su gruppi di gemelli anziani, dei quali solo uno consumava regolarmente uno-due bicchieri di vino al giorno, hanno dimostrato che quest’ultimo possedeva una miglior capacità di ragionamento rispetto al fratello (astemio o forte bevitore): da questa considerazione sono partiti alcuni studi volti a stabilire le correlazioni positive tra un consumo moderato di vino e l’insorgenza del morbo di Alzheimer.
Le persone anziane che hanno consumato regolarmente vino durante la loro vita hanno una maggiore densità ossea rispetto agli astemi e conseguentemente presentano un rischio minore di osteoporosi.
I consumatori moderati tendono a essere meno depressi sotto l’effetto di uno stress in rapporto agli astemi e ai forti bevitori.
Il vino è un antibatterico non per merito dell’alcol, ma di altre sostanze in esso contenute. Tra i fumatori, quelli che consumano vino regolarmente e con moderazione sono molto più resistenti ai ceppi di virus dell’influenza.
Il consumo costante di bevande colorate come alcuni sidri, tè e vino rosso fa diminuire il rischio di cancro. Ciò è dovuto ai polifenoli contenuti in molti frutti a bacca rossa (ribes, fragola, mirtillo).
Per dimagrire un po’, il vino non guasta, anzi rientra in una dieta controllata; uno o due bicchieri possono essere presenti benissimo anche in una dieta ipocalorica.
Tra gli effetti benefici del vino consumato in modica quantità c’è anche il potenziamento della memoria e dell’apprendimento.
Ho poi appreso come, secondo molte indagini epidemiologiche, l’astemio sia maggiormente soggetto a rischio di morte da malattia delle coronarie rispetto al bevitore moderato.
Non per nulla mio nonno diceva che «il vino fa sangue, l’acqua fa ruggine».
Giunti a questo punto, il rischio sarebbe quello di un entusiasmo eccessivo. Non vorrei che, per colpa di questo capitolo, qualcuno credesse o volesse credere che il vino fa solo bene.
Magari.
Il vino ha molte calorie. Un bicchiere di bianco secco ne ha circa cento, uno di rosso secco centoventi, uno di vino dolce centocinquanta. Quando faccio cinque chilometri di corsa, a velocità sostenuta, alla fine sono stremato e il bruciacalorie del tapis roulant segna centotrenta calorie: praticamente mi sono sfiancato per abbonarmi la miseria di un bicchiere di vino.
Soprattutto: l’alcolismo fa più danni della tossicodipendenza, anche in Italia. Provocatoriamente, una volta Eugenio Finardi mi disse che «sarebbe ora di dedicare le vie alla canapa e ritenere le canne una scelta culturale, visto che fanno molti meno danni ma sono più criminalizzate del vino e non godono della stessa divinizzazione del Barolo».
Dice il proverbio: un bicchiere al giorno toglie il medico di torno. Appunto: un bicchiere, non quindici. Il vino ha effetti unicamente positivi solo se non se ne abusa.
Tutti noi abbiamo provato, almeno una volta (magari fosse stata solo una), l’ebbrezza: prima adolescenziale e pseudo-virile, poi matura e post-virile.
La sbornia è un desiderio primario dell’uomo, qualcosa che da sempre lo affascina. Un momento – più o meno lungo, più o meno controllato – di trip in cui, spesso, i freni inibitori partono e la mente è (o sembra) capace di creare pensieri geniali, scritti durevoli, opere immortali.
Non starò a ricordarvi le lodi che ne hanno fatto gli scrittori, eviterò di citare il solito Baudelaire (anche perché l’ho già fatto). Mi limiterò solo a dire, limitandomi all’hic et nunc della contemporaneità, che un disco straordinario come Ovunque proteggi, Vinicio Capossela, senza vino, non avrebbe mai potuto scriverlo (e questo, da solo, mi basta per difendere tutta quella galassia allegra di sbornie non moleste, prese per il puro gusto di prenderle).
Ciò che è tremendo è il dopo. L’apocalisse del giorno dopo. Gli occhi pesti, i vulcani di couperose sulla pelle, l’acidità di stomaco. L’hangover. Quello stesso cervello che la notte prima ti era sembrato parente stretto della materia grigia einsteiniana ora non pare altro che una massa gelatinosa buona al massimo per una macedonia nei talk-show del prime time di Rai Due.
Mi piace bere, ho una tolleranza al vino di cui vado fiero. Gli amici mi detestano perché non sono ubriaco quasi mai, non mi è quasi mai «riuscito», neanche quando ero più giovane, ma se capitasse non ne farei un dramma.
Ciò che detesto non è il rischio di scoprire il giorno dopo che ho detto e fatto cose non esattamente meritorie, ma quel senso di schifo che solo sa darti l’alcol nel day after. Il vino eleva e sotterra. E quando sotterra, non ha pietà. Non esistono regole da seguire per evitare gli hangover, se non l’adagio del bere poco e con moderazione.
Ci sono però delle tracce che possono venire utili. Le mie sono dedotte dall’esperienza, più o meno personale. Chiamatele i «Dieci Comandamenti anti-hangover».
Primo: non esagerare per esagerare, ma bere per piacere. Nulla è più triste di uno che a inizio cena si è vantato per la sua capacità di reggere l’alcol, e alla fine ha abbandonato il tavolo portato a braccia dagli amici (direzione bagno). Si tenga sempre a mente che, per ogni cena, ci sono nove bevitori su dieci che sognano di «sdraiare» il decimo. E se accade, non hanno pietà. Non nel senso che non lo aiuteranno: nel senso, più sottile, che quella «figuraccia» gliela rinfacceranno vita natural durante. Ricattandolo con foto che testimoniano la veridicità delle loro parole.
Secondo: bere qualche bicchiere in più solo se non si guida o comunque non si devono fare lunghe camminate. I riflessi, anche nei più allenati all’alcol, inesorabilmente si appannano. Arriva il sonno, la lentezza, la stanchezza.
Terzo: non mischiare troppo. Va bene la progressione Champagne/Bianco/Rosso, ma già con i vini dolci si entra nel regno della digestione difficile (e la notte vi servirà il conto). Il dramma vero restano i superalcolici. Una cena a base di solo vino, magari dello stesso colore, magari della stessa etichetta e annata, molto difficilmente lascerà tracce nefaste (a meno che il vino non sia scadente o palestrato). La grappa o il whisky, anche a piccole dosi, sono la classica goccia che fa traboccare il vaso. Soprattutto se quel vaso era già colmo.
Quarto: i cocktail lasciateli alle discoteche e agli happy hour. L’aperitivo è un’americanata gioiosa, piace a tutti, ma chiedete anche lì vino. Un Prosecco vale dieci Negroni, uno Chardonnay non potrà mai tradirvi (non più di un Americano, almeno). I cocktail sono stati creati con l’unico intento di compiacere l’ego deviato dei baristi e demolire l’apparato digerente dei clienti. Se proprio siete in vena di masochismi, datevi al trampling. Si gode di più.
Quinto: mai, mai il vino della casa. Mai. Il vino della casa è «il male». Okay, costa poco, ma se costa poco c’è un motivo (nella tipologia vino della casa non rientra quello del contadino, ma spesso sono parenti stretti: i contadini che sanno fare vino, alle soglie del 2010, o hanno aperto un’azienda o se non l’hanno aperta c’è un motivo). Scegliete vini di qualità, magari non costosissimi ma comunque di provenienza e doti relativamente certe. Di un vino si paga anche la digeribilità.
Sesto: le donne reggono meno l’alcol. Non è una frase maschilista: questione di organismi. In compenso sentono gli aromi del vino molto meglio degli uomini (e comunque, se vogliono, gestiscono l’alcol con adorabile civetteria).
Settimo: attenti alla solforosa, i famosi solfiti segnalati nell’etichetta. Sono presenti in tutti i vini, ma a volte se ne abusa (è una delle iatture dei Sauternes e di molti vini francesi). La legge non fa distinzione sulla quantità nella bottiglia, obbliga solo a segnalarne genericamente la presenza. Il mensile «Il mio vino», nelle recensioni, pubblica anche la quantità di solforosa presente: sotto i settanta milligrammi/litro è bassa, settantuno-novanta media, novantuno-centodieci alta. Un vino naturale o biodinamico avrà meno solforosa, ma di per sé il vino produce in fermentazione quantità (pur minime) di solfiti. L’effetto della solforosa, sul corpo umano, è solo negativo.
Ottavo: fate attenzione ad abusare dei bianchi. Vini spesso splendidi e sottovalutati, ma con un difetto/pregio: hanno una spiccata acidità. È la loro forza, perché a un bianco si chiede anzitutto di dissetare, quindi di far salivare: esattamente ciò che provoca una presenza spiccata di acidità fissa (la somma di acido tartarico, malico e citrico). Il problema è che non tutti gli acidi hanno uguale acidità. L’acido tipico dell’uva è il tartarico, il più presente. Il più «ruspante» è il malico, che proprio per la sua alta acidità viene tramutato in acido lattico attraverso la fermentazione malolattica. L’acido lattico è più «morbido» e rende tale il vino. La fermentazione malolattica si fa nella primavera che segue la vinificazione, e non è sempre un processo spontaneo (non tutti sono come Ampelio Bucci), bensì indotto dall’uomo tramite l’impianto di colture selezionate di batteri lattici, che trasformano l’acido malico in acido lattico e anidride carbonica. La fanno tutti i vini? No, solo la maggior parte dei rossi (soprattutto quelli destinati all’invecchiamento) e qualche bianco importante. Un bianco base, però, non la fa. Quindi ha una presenza spiccata di acido malico. Quello che fa salivare di più. Quello che «buca» lo stomaco. Quello che si digerisce con minor facilità.
Nono: non bevete mai a digiuno, l’organismo in quel momento non ha difese e il vino sta bene in compagnia.
Decimo: bevete lentamente, sorseggiate. Alternate il vino al cibo. Quando avevo diciotto anni andava di moda quella pratica pienamente idiota del «bere alla goccia», ovvero svuotando velocemente il bicchiere. Non c’è nessun motivo per macchiarsi di una simile crudeltà (verso se stessi e il vino). Nessuno.
Esistono altre regole empiriche. Una è quella di annaffiare il vino con l’acqua: fatelo solo se avete più di settant’anni e ve l’ha ordinato il dottore. In qualsiasi altro caso, non avrete alibi di fronte al Tribunale di Fufluns.
C’è poi una curiosa regola empirica, per la quale prima di una grossa sbronza andrebbero ingeriti due cucchiai di olio di oliva. Non l’ho mai fatto, ma dicono che funzioni. In apparenza non se ne conoscono i motivi. È un po’ come quando ti si inchioda il computer: tu, inetto, a quel punto lo resetti; e al riavvio, magicamente, il computer funziona. Non si sa perché, o, per meglio dire, tu non lo sai, ma il computer (e il vino) sì.
Verosimilmente il cucchiaio d’olio pre-vino provoca l’effetto tappo: fa da «diga» allo stomaco, proteggendolo dai fiotti di vino che di lì a poco pioveranno. Funzionerebbe anche un cucchiaio di panna da cucina, o in genere tutto ciò che è denso. La controindicazione più evidente è che, oltre a rovinarti il palato con alimenti non esattamente neutri, in nome del salva-sbornia avrai accettato un considerevole surplus calorico. E poi, preoccuparsi dell’hangover prima di cominciare a bere è un po’ come avviare le pratiche di divorzio prima di sposarsi.
Il giorno dopo la sbronza, le cose da fare sono poche: evitate accuratamente il cappuccino, al massimo fare colazione – se avete voglia di farla – con tè zuccherato o un altro tipo di infuso. Fate una doccia calda, seguita da un bagno tonificante con i sali, terminando con una spruzzata di acqua fresca. Mangiate leggero, evitando accuratamente, oltre agli alcolici, bevande eccessivamente eccitanti (una spremuta d’arancia va benissimo). Il non plus ultra sarebbe mezz’ora di sauna, la sola cosa capace di rimettervi immediatamente in sesto. Sfortunatamente le saune non sono a buon mercato.
I miei «Dieci Comandamenti anti-hangover» contemplano anche una postilla, che è forse più giusto chiamare «Anatema delle Terga di Bono Vox».
Tra le mode salutiste di questi anni, c’è anche la vinoterapia. Poggia sull’assioma, mai dimostrato a dire il vero, che il vino faccia bene alla pelle. Non il vino bevuto: il vino-impacco.
Non sapendo come spendere il loro patrimonio, molti vip hanno rivelato di fare il bagno nel vino. Letteralmente: ordinano centinaia di Doc e Docg per rovesciarle nelle loro Jacuzzi e usarle come sciacqua-ascelle. Il motivo? Il vino rosso, se usato come idratante, non farebbe invecchiare.
A pensarci bene, non è che la rilettura riveduta e corretta del vampirismo. «Buttarsi a piedi pari nella vasca del Campari» canta Capossela. A Dracula il sangue, a Bono Vox il Brunello.
Ebbene, la mia umile postilla recita così: evitate, se non metaforicamente, di fare il bagno nel vino. Da che mondo è mondo, da che storia è storia, il vino ha sempre avuto compiti e ruoli nobili.
Non è certo nato per detergere le lattiginose terga di un rocker irlandese.
Il mito dei miti (Sassicaia)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Bolgheri Sassicaia 2003 – Tenuta San Guido
Musica di degustazione:
Neil Young, Harvest Moon
La parola Supertuscans, un tempo, aveva un significato preciso. Racchiudeva un numero non proprio ristretto, ma neppure così sconfinato, di etichette che avevano reagito all’empasse del Chianti lavorando di immaginazione e sperimentazione.
Imbottigliato nei fiaschi, protetto da un disciplinare antico che risaliva sostanzialmente ai tempi di Cosimo III, benedetto da un passaparola centenario, il Chianti era un prodotto così facile da vendere che, più o meno nei Sessanta e Settanta, si appiattì su una produzione stanca e monotematica. Il disciplinare autorizzava l’uso di uve a bacca bianca, principalmente trebbiano e malvasia del Chianti, che nei secoli passati servivano per rendere il vino particolarmente bevibile e facile, quasi «diluito», ma che giunti alla fine del XX secolo costringevano perfino i Chianti più vocati a pagare puntualmente un gap notevole nei confronti dei vini di qualità italiani e francesi.
Il disciplinare, rigido, non autorizzava altre strade. Così, non senza un certo paradosso, per migliorarsi, il vino toscano dovette declassarsi, riducendosi prima a semplice Vino da Tavola (Vdt) e poi a Indicazione Geografica Tipica (Igt). Presto questi vini apparentemente comuni, almeno a giudicare dall’etichetta, risultarono superiori alle Doc e Docg italiane. Cominciarono a costare tantissimo, pur avendo qualifiche proletarie. Un ossimoro che colpì il mercato, anzitutto americano, che coniò appunto la parola Supertuscans – a farlo fu probabilmente James Suckling, direttore di «Wine Spectator» – per descrivere quei vini che si erano emancipati dagli involuti disciplinari per rinnovare il vino toscano e sperimentare, incentivando l’uso di vitigni in larga parte alloctoni: merlot, cabernet sauvignon e cabernet franc, syrah, petit verdot, carmenère, malbec (e non solo).
Oggi la supernova dei Supertuscans è una galassia di difficile lettura, sostanzialmente detestata dai puristi vinoveristi e certamente caratterizzata dal peggior rapporto qualità/prezzo. Il mito è arrivato a tali livelli che a qualsiasi produttore toscano basta immettere sul mercato un blend Igt, anche il più banale, per giustificare un prezzo esorbitante.
Perfino il mercato giapponese, solitamente non avaro, è diventato diffidente. Omologazione del gusto, costi esosi, incapacità di raccontare e rappresentare una chiara identità territoriale: sono questi i difetti dei Supertuscans.
Li si può grossolanamente dividere in tre gruppi. Quelli a maggioranza sangiovese, o addirittura in purezza, tipici della zona del Chianti Classico tra Firenze e Siena. Sono i più lodati dalla critica autoctona, perché in questo caso il Supertuscan non è inteso come fuga all’estero, ma come valorizzazione del vitigno principe toscano (e italiano: è il più coltivato dell’intera penisola). Di fatto si tratta di Chianti che rinunciano alla Docg per dichiarare la propria fede assoluta nel sangiovese. Bottiglie pregiatissime, produttori venerati che godono spesso (non sempre) dei terroir benedetti del Chiantishire. Fontodi, Montevertine, Castello di Monsanto, Tenuta di Valgiano, Poggiopiano, Isole e Olena, Argiano, Fattoria Petrolo, il Tignanello di Antinori e tanti altri.
Il secondo gruppo vede ancora il sangiovese protagonista, ma tagliato e reso più facilmente leggibile – è un vitigno che sa essere scontrosissimo – dalla presenza dei soliti vitigni internazionali, anzitutto cabernet e merlot. Sono prodotti ibridi, fatti in tutta la Toscana, ora Igt e ora Docg (gran parte dei Chianti, oggi, si ingentilisce con vitigni alloctoni più o meno dichiarati).
Il terzo gruppo è il più famoso e il più copiato. Il boom è nato negli anni Novanta, ma qualcuno ha cominciato a farli fin dagli anni Cinquanta. Sono i Supertuscans fatti con un blend di vitigni internazionali, dichiarata risposta – o emulazione – ai vini di Bordeaux. Cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot (il taglio bordolese) più, all’occorrenza, syrah, petit verdoc, malbec. La zona d’elezione di questa tipologia di vini è la costa toscana, principalmente la zona di Bolgheri, in provincia di Livorno. Terra cara a Giosue Carducci. Ricca di miti, leggende, nobiltà.
I Supertuscans hanno un padre dichiarato, un antesignano irripetibile, per quanto eternamente imitato: il Sassicaia.
Il sogno di un uomo, Mario Incisa della Rocchetta.
Bolgheri è terra di casati importanti, come i Gherardesca, che qui bonificarono, costruirono, rinnovarono. Quello che oggi è ritenuto uno dei più straordinari biotipi dell’Europa mediterranea, un immacolato cru a cielo aperto, era un tempo terra in fermento, paludi e marine su cui sventolavano le bandiere corrusche dei Gherardesca. Costoro, alla fine del Settecento, bonificarono e restaurarono, affidandosi, per i rifacimenti, all’architettura un po’ pasticciata di Tito Bellini, che intorno al 1890 scolpì, come oggi li vediamo, il Castello di Bolgheri, quello di Castagneto e Villa Il Poggio.
Il viale che collega la via Aurelia al paese è noto per i cipressi che lo impreziosiscono. Erano sentieri cari a Carducci, nuovamente celebrato nel 2007 a Castagneto Carducci e Bolgheri per il centenario della sua morte.
La famiglia Incisa della Rocchetta, di origini antiche, deve il nome a un comune della provincia di Asti, Incisa, sulla riva destra del fiume Belbo, e a Rocchetta Tanaro, casato piemontese spostatosi a Bolgheri quasi controvoglia. Il marchese Mario Incisa della Rocchetta, uomo non facile e per forza di cose mitizzato, si trasferì a Pisa per studiare Agraria e qui conobbe i Gherardesca e i duchi Salviati. Il 18 ottobre 1930 sposò Clarice della Gherardesca; testimone di nozze dello sposo fu Umberto di Savoia.
La vita di colui che Luigi Veronelli chiamava «Divino Marchese» si divise tra due passioni: l’ippica e il vino. Recuperò uno dei possedimenti più vasti e trascurati dei Chigi, la famiglia di sua madre Eleonora: l’Olgiata, nell’Agro Romano. Qui, collaborando con Federico Tesio, creò la razza Dormello-Olgiata, dai nomi delle tenute in cui i cavalli soggiornavano (Dormello è sulle rive del Lago Maggiore). La scuderia, ancora oggi esistente, tra il 1944 e il 1966 vinse tutto. Molti i cavalli divenuti mitici: Donatello II, Nearco e soprattutto Ribot, «il cavallo del XX secolo».
Tesio è stato uno dei più grandi studiosi di purosangue. «Il mio obiettivo» scrisse al suo esordio nel 1899 «è allevare un cavallo da corsa che, su qualunque distanza, sia in grado di portare il maggior peso nel minor tempo possibile.» Morì nel 1954, senza poter vedere la striscia di sedici vittorie di Ribot, la King George VI and Queen Elizabeth Stakes e l’apoteosi all’Arc de Triomphe.
Il sogno del marchese era però il vino. Forse aveva ereditato la passione da un antenato, Leopoldo Incisa della Rocchetta, nato il 17 febbraio 1792. Ventotto anni di carriera amministrativa presso il Magistrato Camerale dell’Imperial Regio Governo del Lombardo-Veneto, poi una grave paralisi. Fu allora che Leopoldo decise di coltivare la sua passione per la vitivinicoltura. Scrisse saggi, elaborò le Nozioni generali, redasse un Catalogo prima nel 1862 e poi nel 1869. Centosettantacinque varietà di uve recensite, la 93 è il cabernet sauvignon e la 145 il cabernet franc. Le uve care al pronipote.
Mario Incisa della Rocchetta è morto nel 1983. L’azienda è stata ereditata dal figlio Nicolò, che alla scomparsa del padre aveva quarantasette anni. Un’eredità pesante, saputa gestire.
Avevo letto che vestiva sempre in modo impeccabile, che era introverso. Prima di accettare l’appuntamento, cosa di per sé rara (così dicono a Bolgheri), si era informato sul mio lavoro e sulla veridicità del fatto che davvero stesse per uscire un libro sul vino italiano.
L’incontro era negli uffici dell’Acetaia, sul viale dei Cipressi, a sinistra del bivio per Castagneto Carducci. Naso generoso, alla Bartali, modi inizialmente diffidenti e poi cordiali, come di chi – a dispetto di quanto si pensi – non è vergine di stroncature sui giornali. Vestiti quasi da lavoro, auto normale (o almeno lo era quella su cui sono salito, una jeep). Impeccabile educazione, poche parole, lente e precise.
È da lui che è giusto farsi raccontare la storia del mito dei miti, del vino più famoso d’Italia, della sua genesi e del suo Mago Merlino.
Non che non si sappia. Tanti libri sono usciti sul Sassicaia (uno, splendido, mi è stato regalato dal marchese Nicolò: Sassicaia, di Marco Fini, Edizioni Centro Di). Anche nelle lezioni per diplomarsi sommelier gli insegnanti non possono esentarsi dall’accennare alla favoletta sul vino nato «contro tutti» e divenuto leggenda. Lo stesso Bolgheri, oggi, è un paese griffato che esplode di enoteche, degustazioni con bottiglie sotto azoto (ci sono anche sulla via del Chianti, paghi una tessera dieci euro e degusti finché ce n’è: è il caso della macelleria Falorni). La più fornita è l’Enoteca Rognoni, sorta di museo (con prezzi onesti) di tutte le etichette Bolgheri. «Abbiamo avvertito un calo solo nel 2003-04, quando i tedeschi hanno comprato di meno. Sono persone previdenti, intuivano una crisi che poi non c’è stata, per questo smisero di spendere. Adesso è passata, e gli americani, sì, quando acquistano non badano a spese.»
Nei bar vendono perfino una Torta del Rosso, nient’altro che un normalissimo biscotto (fatto peraltro a Carpi) a base di farina di castagne, burro, uova, zucchero, farina di mais e cacao. Ottanta grammi per turisti, forse attratti dal sottotitolo A fantastic partner to a Great Red Wine, un emozionante abbinamento ai Grandi Vini Rossi. Ovvio che, in realtà, la concordanza tra vino e biscotto sia qui disastrosa e quasi oltraggiosa, ma non importa. A Bolgheri tutto è vino, lusso, e marketing. Auto da centomila euro, centro storico immacolato e più enoteche che bagni pubblici.
Nulla di tutto questo sarebbe esistito, senza il «Divino Marchese». Non avresti incontrato enoteche, panini a prezzi da usura, ristoranti quasi mai indimenticabili e quasi sempre pieni, forbice apertissima tra sfarzo autoctono e manovalanza extracomunitaria. «Le bottiglie che non riusciamo a vendere sono quelle tra i quindici e i trenta euro, quelle intermedie. Le persone normali vogliono prezzi bassi, i ricchi non guardano alla cifra. Non esiste più il ceto medio, per capirlo basta venire a Bolgheri» mi dice la signora Tognoni (e me lo dice, forse, a sottolineatura del fatto che sono in minoranza anche nello shopping, considerato che gran parte delle bottiglie che avevo appena acquistato rientravano nel range quindici-trenta euro).
Tutto, o quasi, si sa, della leggenda Sassicaia, ma è da chi l’ha vissuta in prima persona, da chi è riuscito nella ciclopica impresa di gestire e monetizzare un mito, che la genesi va ascoltata. «Mio padre aveva il mito del Cabernet, il vino della nobiltà e dei vini di “bordò”. Quando si trasferì a Pisa per frequentare Agraria, rimase molto colpito dal Cabernet che i duchi Salviati facevano nelle vigne di Vecchiano. Non era un Cabernet perfetto, per la produzione si usavano anche altri vitigni, a bacca bianca e bacca rossa, come era d’uso all’epoca. Lui, però, ne rimase affascinato. E si convinse che a Bolgheri poteva nascere un Cabernet di qualità.»
Oggi la zona di Bolgheri è ritenuta genius loci, immagine che gli scienziati usano per inquadrare le particolarità che rendono unico un terroir. Nel suo contributo al libro Sassicaia, Alessando Petri elenca le caratteristiche peculiari di questa zona. I vigneti del Sassicaia, in particolare, «sono ubicati in terreni che provengono da cicli di stratificazione marina alternati a sedimentazioni fluviali, sono cioè agglomerati ciottolosi (le sassicaie, appunto), dotati di scheletro, di buona profondità, ricchi di elementi minerali originati dal disfacimento delle rocce di provenienza ligure e dai metalli presenti in zona, in particolare dalle concrezioni di ferromanganese indispensabili ai vini rossi di pregio».
Petri ricorda la pendenza con orientamento ovest-sud- ovest, l’insolazione ottimale, la vicinanza marina che agisce da equilibratore termico, il regime delle piogge sublitoranee e i rilievi montuosi – a ridosso dei terrazzi – che trattengono le nubi provenienti dal mare e assicurano una regolare piovosità primaverile.
«I vigneti del Sassicaia» racconta il marchese Nicolò «beneficiano di un microclima favorevole, dato per esempio dalle aree boschive che li difendono da libeccio e maestrale, garantendo la giusta escursione termica giorno/notte e favorendo l’accumulo degli aromi più fini. Sono vigneti volutamente non molto estesi, né troppo accorpati. Scegliamo solo superfici che riteniamo ottimali per la viticoltura, vuoi per morfologia e vuoi per ubicazione. Basta una barriera naturale come un bosco, un corso d’acqua o un rilievo montuoso per generare differenze sostanziali nel microclima di terreni confinanti tra loro. È proprio questa “nicchia ecologico-climatica”, per dirla con Petri, ovvero la favorevole combinazione di clima, terreno e vitigno, che consente al Sassicaia di avere sempre una spiccata personalità rispetto a tutti gli altri prodotti. Ed è sempre per questo che anche nelle annate mediocri, per esempio il 1981, abbiamo avuto Sassicaia eccezionali. Solo in casi di annate particolarmente sfavorevoli, come il 1969 e il 1973, si è rinunciato alla produzione.»
Questo, però, è il dopo. Nei primi anni del marchese Mario Incisa della Rocchetta, Bolgheri non era genius loci ma brughiera arsa dal sole. La Tenuta San Guido, la parte «agricola» dell’eredità Gherardesca, toccata alla moglie Clarice, andava anch’essa ristrutturata: seicentocinquanta ettari tra Castiglioncello e il mare, quaranta poderi tenuti a mezzadria che producevano – poco e male – grano, olio e foraggio.
La cosa peggiore era il vino dei maremmani, con cui il marchese si scontrò spesso. Era un vino salmastroso, che sapeva di mare, poco «serbevole», fatto con il tradizionale «governo alla Toscana» (la doppia fermentazione) da vitigni sangiovese e trebbiano. Un vino cattivo, ma che rappresentava perfettamente il gusto dell’epoca. «Mio padre era reputato un eccentrico, e in effetti nulla di quei terreni sembrava giustificare l’idea che lì potesse nascere un grande cabernet.»
Il marchese era però convinto che ci fosse una somiglianza tra le Graves bordolesi e le sassicaie di Bolgheri. «Piantava viti “strane” in terre aride, ciottolose, dove non cresceva nulla. I contadini lo guardavano storto e si chiedevano perché, con tutta la terra che aveva, doveva piantare proprio lì.»
Tra il 1930 e il 1935 il marchese fece qualche prova di invecchiamento in botticelle di un vino a base pinot nero. All’esperimento si interessò Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica, ma il progetto andò male, «per la coincidenza con la dilagante popolarità del volgarissimo perché produttivissimo e nerborutissimo Barbera» (così scriveva il «Divino Marchese») e perché il pinot si adattava meglio in Italia settentrionale.
«Mio padre affinò la conoscenza dei vini francesi e scelse il cabernet. Inizialmente era soprattutto franc, poi sauvignon. Il bouquet che cercava era tipico del Cabernet. Scelse un appezzamento a trecentocinquanta metri di altezza, al riparo dal salmastro, ed esposto a sud-est, perché così aveva letto che facevano nella Côte d’Or e nel Médoc. Recuperò qualche marza dalla vecchia vigna dei Salviati, quelle che lo avevano colpito, e le innestò su legno bolgherese. Collocò le pianticelle a una distanza, tra loro, di un metro per un metro, ad alberello basso.»
Mario Incisa si mostrò lungimirante, fin troppo avanti come inventiva. «Anticipò pratiche oggi ritenute quasi scontate, come la cimatura precoce, ovvero il taglio della gemma che sboccia all’apice del tralcio per impedirne lo sviluppo in altezza. Capì che la pietra, i ciottoli collaborano con la rugiada e mantengono in vita viti che altrimenti intristirebbero nel terreno arido. E impose la potatura bassa, ispirandosi ai grandi cru bordolesi. Inorridiva alla vista dei “vignoni” di pianura. Prediligeva piccole aree sassose, isolate, marginali, a declivio. La potatura bassa, che costringeva i contadini a piegarsi e faticare il doppio durante la vendemmia, comportava una produzione modestissima e un vino più colorato e a maggiore gradazione alcolica.»
Non c’era invece grande scientificità riguardo all’igiene. «La pulizia di cantina e attrezzi era inesistente, le barriques perdevano da tutte le parti, spesso l’acidità volatile andava oltre i limiti. Le bottiglie stesse, rigorosamente bordolesi, erano troppo nere o troppo verdi, riempite irregolarmente e tappate male. In più, merli e cinghiali devastavano le barbatelle, mio padre pagava i ragazzi perché li prendessero a schioppettate. Lui credeva però nel progetto, era così fissato che per la smania di schiarire il vino si intestardì nel farsi costruire un frustino flessibile per frullare il bianco d’uovo.»
Quando i maremmani assaggiarono quel vino, lo trovarono orrendo. «Non erano abituati al gusto erbaceo, tipico del Cabernet giovane. A Bolgheri il vino era già ritenuto pronto nel marzo successivo alla vendemmia, mentre quello di mio padre imponeva un lungo invecchiamento. Rimase però così piccato dai commenti negativi dei maremmani, con cui non legò mai fino in fondo, da dimenticare il vino di Castiglioncello.»
Dieci anni dopo, all’inizio degli anni Sessanta, fu il figlio Nicolò a contribuire alla rivalutazione di quel «vinaccio». «In cantina erano rimaste alcune bottiglie del 1949 e 1950. All’insaputa di mio padre, lo feci assaggiare a Gherardo della Gherardesca, per mio padre “l’unica bocca buona” della famiglia di mia madre. Gherardo assaggiò quel vino e lo trovò splendido. Stringemmo un patto: ogni anno gli avremmo dato venti bottiglie di quel vino, in cambio di una forma di pecorino che lui faceva a Pisa, nella fattoria della madre.»
Il vinaccio di Castiglioncello era diventato un vino denso, quasi un liquore. Mario Incisa si convinse che c’erano davvero le potenzialità per fare un grande vino da invecchiamento, per intenditori veri, «anche se il suo sogno era creare il “suo” vino, non gli interessava venderlo. Scese di quota da trecentocinquanta a cento metri, innestò le barbatelle in due ettari di un vecchio oliveto devastato dal gelo. Passò dal sistema ad alberello al cordone speronato. L’insolazione era da nord a sud».
Il marchese non era interessato alla vendita, i cugini Antinori sì. «Il prodotto della nuova vigna destò il loro interesse, ci accordammo per la commercializzazione nel 1972 mettendo in vendita l’annata del 1968. Era un vino fatto ancora con metodi artigianali, senza particolari attenzioni, precauzioni e interventi. Per questo, anzitutto, ci affidammo a Giacomo Tachis, l’enologo storico degli Antinori.»
Furono scontri. Il marchese era abituato a gestire da solo il proprio vino, Tachis cercava di trasformarlo in prodotto che potesse anche vendere. «A volere Tachis fui anche io. Come tutti, inizialmente era scettico. La prima volta che venne a Bolgheri aveva ventisette anni. Mio padre era molto preparato in tecniche di coltivazione, Tachis stesso dice che “nel lavoro sul campo” era più bravo di lui.»
Il marchese faceva il vino alla francese: fermentazione in tini aperti, invecchiamento in barriques di rovere. «Tachis intervenne sulle molte sbavature. La macerazione era forzatamente breve, alcuni caratelli malandati. Il suo fu un intervento anzitutto sanitario, tecnico. Gli si chiedeva di produrre un vino sano, pulito, e di decidere quali erano le annate meritevoli di essere commercializzate. Ovviamente non si limitò a questo. Quando il vino cominciò a essere venduto, decisero di fare nuove piantagioni. Erano d’accordo sull’invecchiamento in barriques, non sulla durata. Per Tachis, il vino di mio padre rischiava di sostare troppo nel rovere, di arrivare snervato in bottiglia. Il vero dissenso era sul luogo della fermentazione: mio padre non ne voleva sapere dell’acciaio, mentre il più modernista Tachis garantiva che era quella la soluzione migliore. E anche riguardo alla potatura, perfino Tachis la reputava troppo spinta.»
Il cabernet franc diventò cabernet sauvignon, Tachis e Nicolò riuscirono a passare dal 30% di franc al 15%. «Il franc ha splendidi profumi ma meno struttura del sauvignon, e per Tachis il corpo vale più del naso. Adesso, riguardo alle rese, ci siamo assestati sui quaranta-quarantacinque quintali per ettaro.»
Il vigneto a cento metri di altezza sul livello del mare, vitato nel 1965 e reputato il più promettente, dà il nome Sassicaia. La prima etichetta Incisa-Antinori è del 1968.
Nel 1972 muore Ribot. L’agricoltura va in crisi, i redditi extra-aziendali cessano del tutto. Puntuale, arriva il successo planetario del Sassicaia. Uno dei primi a tesserne le lodi è Luigi Veronelli, per il quale era un vino che andava bevuto nella Coppa di Nestore. Nel 1978, in una degustazione alla cieca organizzata dalla rivista inglese «Decanter» sui più importanti Cabernet, l’annata 1972 del Sassicaia viene eletta miglior Cabernet al mondo. Quando, il 4 settembre 1983, il marchese Mario Incisa della Rocchetta muore, il Sassicaia è già mito dei miti, anche se forse, agli occhi del suo inventore, non era ancora perfetto (o forse lo era diventato troppo).
Eredità pesante, pesantissima. La sorella Orietta aveva deciso di dedicarsi ai cavalli dell’Olgiata-Dormello, il fratello Enrico aveva preferito realizzare un centro di allevamento nello Yorkshire. Il marchese Nicolò aveva studiato in Svizzera, al Rosey; tra i suoi compagni di studio c’erano Winston Churchill Jr, l’Aga Khan e Vittorio Emanuele di Savoia. Si era laureato nel 1959 a Ginevra in Scienze Economiche. Per un po’ aveva lavorato in un’agenzia di broker.
«No, non avevo studiato per fare vino, anche se avevo sempre seguito l’attività di mio padre. Mi ero reso conto che a Bolgheri c’era come una magia. Per un po’ avevo coltivato bulbi di gladiolo e tulipano per il mercato floreale olandese, e crescevano benissimo. Negli stessi anni un coltivatore di Modena aveva piantato fragole, reputate le migliori d’Italia. Evidentemente Bolgheri è unica. In termini commerciali, ci rendemmo conto che la vera attività di successo era il vino. E mi sono dedicato solo a questo, cercando di non tradire mio padre.»
Quando morì Mario Incisa della Rocchetta, «mi resi conto che non si trattava solo di salvare l’azienda, ma di salvare Bolgheri. Mio padre l’aveva valorizzata, aveva creato l’oasi naturale. Le sue erano scelte dettate da criteri estetici, di conservazione dell’ambiente naturale. Con l’oasi aveva salvato tutto, boschi e poderi, piste e padule, al costo però di vincolare tutto e renderlo sostanzialmente improduttivo. Nel 1983 c’erano pressioni per fare campi da golf, per organizzare turisticamente la macchia sul mare e le dune. Alcuni vecchi proprietari cedettero alla speculazione, io stesso per un attimo pensai alla scorciatoia più facile, un villaggio residenziale in una zona ai margini del cuore verde di Bolgheri. Fortunatamente mi fermai in tempo».
Era stato Nicolò a convincere il padre a rivolgersi al cugino Piero Antinori per commercializzare il Sassicaia, e sarà ancora lui, quasi vent’anni dopo, a porre fine alla collaborazione. «Reputai che era giusto correre da soli. La mia idea era ed è quella di un vino che non sia né troppo raro, né troppo comune. Il sogno di molti produttori è di realizzare il Petrus italiano, il vino di élite. Io preferisco una produzione in cui la qualità sia nel giusto rapporto con la quantità.»
I vigneti della Tenuta San Guido si estendono su una superficie complessiva di settantacinque ettari, suddivisi in varie zone a diversa altitudine, composizione ed esposizione. «Analoghe tenute bordolesi producono il doppio di noi, i prezzi sono costanti nel tempo senza oscillazioni esose.»
Una bottiglia di Sassicaia 2004, l’ultima messa in commercio (centottantamila bottiglie), costa centotrenta euro in enoteca. L’annata migliore è ritenuta quella del 1985, per molti il vino più buono del mondo (alle aste verrebbe pagata cifre inimmaginabili).
Il 60% delle vendite va all’estero. Fino al 2000 il Sassicaia era l’unica bottiglia dell’azienda. «Poi abbiamo varato il Guidalberto, dal nome del mio quadrisnonno, l’uomo che piantò i cipressi nel viale caro a Carducci. È un vino che costa un terzo del Sassicaia, un desiderio di coprire altre fasce di mercato e di valorizzare un vitigno non utilizzato nel Sassicaia, il merlot.»
C’è un terzo vino, Le Difese, il «base» della Tenuta San Guido. Ogni produttore di Bolgheri concepisce una produzione a scala, dal prodotto di punta (costosissimo) a quello più accessibile, del valore di quindici-trenta euro, solitamente proveniente da vigne più giovani, da terreni meno vocati o da vitigni che a Bolgheri non danno il meglio. «Come il sangiovese, che è alla base del Difese. Michele Satta sa fare un grande Sangiovese, che è comunque diverso da quello della zona del Chianti.»
Michele Satta è uno degli altri grandi produttori di Bolgheri. Quelli «storici», affacciatisi tra il 1978 e il 1984: Piero Antinori (Guado al Tasso), Ludovico Antinori (L’Ornellaia, ora ceduta ai Frescobaldi con decisiva mediazione di Mondavi), Michele Satta, Pier Mario Meletti Cavallari (Grattamacco), Le Macchiole.
Il successo dei vini di Bolgheri è stato tale da imporre un tardivo disciplinare, varato una prima volta nel 1983 ma così miope da non contemplare la tipologia Bolgheri Rosso. Il vino più noto era il Rosé Bolgheri Antinori, oggi Scalabrone. Nel 1994, finalmente, la Doc Bolgheri è stata aggiornata contemplando la tipologia Rosso Bolgheri (anche Superiore) e soprattutto la sottozona Sassicaia: il primo e unico caso italiano di Doc «singola» a uso e consumo di un unico produttore (in Francia accade con il celebratissimo Romanée Conti).
«Il disciplinare ci ha aiutato come movimento, più che come azienda singola. Impone un periodo minimo di affinamento di ventisei mesi, di cui almeno diciotto in botti di rovere. Gradazione alcolica minima dodici gradi.»
Il tema della gradazione è caro al marchese Nicolò, che in questo sostiene tesi quasi «sangiorgiane». «Con il Sassicaia siamo sempre stati attenti a mantenere una gradazione costante nel tempo. Il troppo alcol è uno dei grandi difetti degli epigoni di Bolgheri, dei molti/troppi ultimi arrivati. Per evitare un’eccessiva alcolicità anticipiamo la vendemmia, garantendoci un patrimonio significativo di acidità che sarà decisivo nell’invecchiamento. E sono contrario anche all’eccessiva concentrazione.»
Sarà anche per questo essere poco americano, che ultimamente il Sassicaia – a fianco degli immutabili «tre bicchieri» e «cinque grappoli» – sta collezionando stroncature. «“Wine Spectator” e “Wine Avocate” amano ridimensionarci, non so perché. In ogni valutazione, il Sassicaia esce con cinque o sei punti di meno rispetto ai concorrenti, e queste recensioni vogliono dire molto in termini di vendita. Sia Robert Parker che James Suckling, all’inizio, ci stimavano. Poi, con l’avvento dell’Ornellaia, hanno cominciato a scrivere che il vero Bolgheri era quello di Ornellaia. Ci sono giornalisti americani che in ogni articolo citano il Sassicaia per deriderlo e dire che “non è più come un tempo”. Perché lo fanno? Per antipatia personale, per “vicinanza” con i nostri competitors, per andare controcorrente. Hanno attaccato pesantemente anche Giacomo Tachis, definendolo un manipolatore di vini. E anche in Italia ogni tanto esce qualcosa contro di noi. Nel primo numero, “Il Mio Vino” strillò in prima pagina La caduta degli dèi, dentro c’era una demolizione del Sassicaia. Quattro mesi dopo ci chiesero se volevamo fare pubblicità sul loro giornale.»
Queste stroncature un po’ lo feriscono e un po’ lo onorano. «Potrebbero aiutarci a renderci più simpatici anche a quella parte di critica purista che mai ci ha amato.»
La critica maggiore riguarda il fatto che il Sassicaia, come tutti i Bolgheri, non riflette il territorio e ha poco di italiano, perché si affida a vitigni internazionali. Neanche a farlo apposta, uno dei paesi più vicini a Bolgheri si chiama La California, e in effetti un po’ sembra di stare a Napa Valley. «È un’accusa che ci viene fatta spesso, quella del Sassicaia vino “non” italiano. Io credo che i grandi vini siano come i cavalli migliori, sempre un incrocio di razze. Sassicaia sarà sempre italiano, forse più di altri vini autoctoni, perché per primo ha capito la natura del terroir di Bolgheri. In provincia di Livorno è nata da poco una nuova Doc, Terratico di Bibbona. I produttori stanno già pensando di uscirne e continuare con gli Igt, perché il disciplinare impone un uso “eccessivo” di sangiovese. Inutile obbligare all’uso di autoctoni, se quella terra è più adatta ai vitigni bordolesi.»
Vero, però a Bolgheri si sta esagerando. Si piantano viti ovunque, perfino in riva al mare, dove è difficile che il terroir sia adatto a vini di pregio. «Certo, si rischia l’esagerazione, ma di questo non può rispondere un vino come il Sassicaia che ha sempre avuto la sua identità e che, anche a costo di recensioni negative, non si è mai piegato alle mode, ai concentratori, alle sofisticazioni.» E la barrique? Mario Incisa della Rocchetta è un po’ ritenuto lo sdoganatore italiano del rovere. «Fino a quindici anni fa usavamo barriques italiane, a volte anche esauste, e nessuno si è mai lamentato. Poi c’è stata l’esaltazione eccessiva delle barriques, per colpa di Michel Rolland e Robert Parker, e anche qui a Bolgheri tutti hanno usato barriques, perfino per la fermentazione. Noi usiamo un terzo di barriques nuove, un terzo di secondo passaggio e un terzo di terzo passaggio. La usiamo perché è perfetta per i bordolesi, ma non ne abusiamo. Non è certo la panacea di tutti i mali.»
Ricordo che il marchese Nicolò Incisa della Rocchetta mi ha fatto vedere la «barriquaia», sconfinata anche se – fortunatamente – non ordinatissima né asettica, come mi è capitato di vedere per esempio nella Tenuta Il Borro di Ferragamo, dove a colpirti è più l’architettura fantascientifica che il valore qualitativo del vino.
Ricordo che il figlio del «Divino Marchese» mi ha fatto assaggiare un giovane, eppure potenzialmente unico, Sassicaia 2005, spillandolo dai grandi tini d’acciaio, durante il travaso.
Ricordo che abbiamo parlato dei suoi amici Sanjust di Petrolo (altro Supertuscans celebrato/criticato, il Galatrona) e della mia Cortona, altra realtà vitivinicola che guarda dichiaratamente alla Francia come fa Bolgheri, solo che noi abbiamo syrah e viognier e loro cabernet e merlot.
Mi è allora venuta in mente l’idea di chiedere al marchese se è giusto che i vini possano costare così tanto. Poi però mi sono fermato: era una domanda stupida, di cui entrambi conoscevamo la risposta, verosimilmente non collimante.
Ho così ripiegato su un ricordo legato alla mia conoscenza – desunta dai libri – di suo padre. A ciò che Marco Fini ha chiamato «grazia perfida delle battute, snobismo alla rovescia, perfezionismo estetico, essere padre padrone e padre insieme liberale e dispotico».
Ho ripensato a quando, di fronte alla solita richiesta di inviare due lepri al banchetto della mostra mercato dell’uccellagione, Mario Incisa della Rocchetta scrisse al fido fattore Giuliano Gabellini: «Non mi piace né il vino né la compagnia… detesto l’uccellagione, disapprovo la mostra, aborro l’idea della pappardella e deploro che autorità vi prendano parte; perciò preferirei che tu non consegnassi le due lepri già tacitamente considerate come concesse».
Ho pensato che il marchese Nicolò non ha forse preso né la spigolosità dei pionieri propria del padre né l’attitudine classificatoria dell’avo Leopoldo, ma da entrambi ha ereditato, reinterpretandoli, la passione per la vigna, l’amore per la natura, il rispetto per il vino.
Incisa della Rocchetta, Biondi Santi, Valentini. La storia del vino è anche storia di dinastie, di padri geniali e figli chiamati a tenere il passo. Ora è possibile e ora no.
Il Parlamento del vino
La politica è schifosa e fa male alla pelle.
GIORGIO GABER
«La mortadella è comunista, il salame socialista, il prosciutto crudo democristiano, la coppa liberale, la finocchiona è radicale. Il prosciutto cotto è fascista.» Lo sosteneva Francesco Nuti in Caruso Pascoski di padre polacco.
È una sequenza cinematografica che ho sempre trovato geniale. Mi piace credere che ogni alimento, ogni prodotto, sottintenda un’inclinazione ideologica. Che sia espressione della propria terra, che abbia deciso di «venire» così, come lo mangiamo o beviamo.
Nulla è più politicizzabile del vino. E non parlo della bottiglia in sé o del vetusto dibattito – tipico di una certa vetero-sinistra – per il quale discernere di vino, come una volta di calcio, equivale all’essere filofranchisti. Parlo, più esattamente, del vitigno. Se l’Italia è per varietà il più grande parco ampelografico del mondo, possiamo immaginare il terroir come uno sterminato Parlamento, un’immensa aula dove ogni vitigno ha la sua ideologia.
Ricordo che, durante i pleonastici Mondiali di calcio del 2006, Gianni Mura si divertì su «la Repubblica» ad accostare ogni giocatore della nazionale italiana a un vino. Fu un atto crudele, di cui non credevo Gianni potesse essere capace: nessun vitigno, per quanto cattivo, potrà mai meritarsi di essere paragonato a Marco Materazzi. Però l’idea era carina.
Ogni bottiglia che scegliete è un’ideologia che sposate. Ogni gusto che vi comunica il vino non è casuale: è perché la vigna, il frutto e il vinificatore hanno voluto così.
Nulla è lasciato al caso. Tutto, o quasi, è rivendicazione di una piena autonomia organolettica e – oserei dire soprattutto – di una ponderata posizione concettuale. La vigna è una pianta-cane, la migliore amica (ma anche nemica) dell’uomo. Somiglia a chi la accudisce.
Ogni volta che andate al ristorante, ogni volta che scegliete un vino in un’enoteca o al supermercato (ve ne sono ormai di fornitissimi), provate ad associare al vino anche la sua ideologia. È un giochino divertente che, se tenuto a mente, aiuta anche nella scelta. E, per una volta, siate bipartisan (o trasversali, come direbbero gli editorialisti politici).
Se ogni vitigno ha una ideologia, il più facile di tutti è il pinot nero. Il prediletto da Giamatti, il vitigno «Kiarostami» (o Kaurismaki, o il 99% dei registi premiati ai festival): non lo capisco, quindi mi piace. Ebbene, nel Parlamento enologico, il Pinot Nero è l’anarchico. Rifiuta qualsiasi imparentamento elettorale, e a dirla tutta non riconosce neanche il potere elettorale. Esige di essere vinificato in purezza e mal sopporta il cugino povero spumantizzato o addirittura vinificato in bianco, cacciato dall’enclave anarchica come i trotzkisti dalla Terza Internazionale (o era la Quarta?). Cresce solo a latitudini elevate, attorno al 50° parallelo, e non riconosce altra realtà territoriale. Propaganda la libertà totale, la rottura piena degli schemi. È incostante, elitario, intellettualoide. Ritiene indegno colui che cataloga il suo bouquet con un triviale «sentore da pollaio». Se fosse uomo, il Pinot Nero sarebbe un Bakunin scagliato contro la modernità.
Il Nebbiolo è sabaudo, monarchico. Al referendum del ’46 non avrebbe votato la Repubblica, e in più di sessant’anni non ha mai cambiato idea. Non segue la moda, è diffidente del nuovo e se avesse parola manderebbe al confino coloro che in nome della «guerra del Barolo» ne hanno messo in discussione la propensione – anch’essa ideologica – all’invecchiamento.
Il Sangiovese, non me ne voglia, è democristiano. Ha sempre la maggioranza, in tutta Italia. Piace a tutti, lo trovi ovunque e il suo governo (alla Toscana) non cade mai, a conferma del vecchio detto per il quale moriremo democristiani. Come i reduci scudocrociati, dopo Tangentopoli – che per il vino è stato Metanopoli, annus domini 1986 – si è scisso in partiti e partitini. Il Sangiovese toscano, a sua volta spezzettato in vari tronconi (Brunello, Morellino, Nobile…), si è diviso tra Partito Popolare (Chianti Classico) e Forza Italia (i Supertuscans imparentati con Cabernet e Merlot). In Umbria, più tannico, più austero, meno disposto al dialogo, sarà un teodem associato a Rocco Buttiglione (mi scusino gli amici dell’ottimo Torgiano Rosso Riserva). Nelle Marche, più aggraziato, si sposerà con il Montepulciano d’Abruzzo per garantirsi un allargamento della base elettorale, come il partito di Pier Ferdinando Casini.
Dicono che ormai anche il Sangiovese americano sia competitivo, degno: se così è, sarà il Follini dei Sangiovese, spensierato e trasversale, buono per ogni uvaggio e crisi di governo.
Il Merlot, facile, è conformista. Cade sempre in piedi, non litiga con nessuno, insuperabile nel salire sul carro del vincitore. Non ha quasi mai una sua identità, una sua idea e per questo i moralisti lo detestano. Lui non se ne cura: gli interessa solo il profitto, la bella vita, il non sporcarsi mai. Dagli scandali esce più immacolato di prima.
Il Lambrusco è proletario. Più che un vitigno (anzi, più vitigni), è la versione vegetale della base del vecchio Pci, quella che per decenni si è fatta il mazzo nelle cucine della Festa dell’Unità col sorriso sulle labbra e gli zebedei che smulinavano per via del salario. Il Lambrusco fa l’operaio da una vita, crede ancora negli scioperi. E si illude che l’Emilia sia rimasta ai tempi del Novecento di Bertolucci (o che D’Alema, prima o poi, dirà qualcosa di sinistra).
Il Cabernet Franc è verde, ecologista. Nessuno come lui ostenta fin dai profumi l’appartenenza alla terra, la sua matrice vegetale, le «note verdi». Il suo profumo nettamente erbaceo, quasi selvatico, è il suo modo – ben più aggraziato – di dire no alla Tav. Non gliel’ho mai chiesto, ma credo che il Cabernet Franc sia il vino preferito da Beppe Grillo.
Il Prosecco è leghista, danaroso, poco incline alla multirazzialità. Va d’accordo solo con un’altra etnia, il verdiso, che ne è comunque solo il portaborse (senza portafoglio). Sia ben chiaro, il Prosecco è leghista pensando ad Alberto da Giussano, non all’ampolla di Bossi o alla maglietta di Calderoli: per essere Prosecco, anche se non sembra, ci vuole il fisico. Provateci voi, in ogni parte del mondo, a soddisfare la richiesta di essere «il» vino da aperitivo, colui a cui è demandato il ruolo mai facile di cominciare un pasto, un ricevimento, un incontro.
Il Carignano è secessionista. Crede, come ebbe il tempo di credere Fabrizio De André a furia di frequentarlo (lui e il suo fratello Bianco Vermentino), che i sardi siano gli indiani d’Italia. E non è tanto una legittimazione del Partito sardo d’Azione, quanto un desiderio di legittima autonomia. O forse solo un invito a rispettarlo, a sforzarsi di capire la differenza – spesso enorme – che passa tra un isolano e un continentale.
L’uva di Troia è il re dei mediani. Il nome della sua Doc è Cacc’e mmitte, che in pugliese vuol dire «togli e metti», cioè – nello specifico – un continuo ricambio e addizione di uve al mosto in fermentazione. È un altro vitigno operaio, che non ha mai smesso di lavorare in miniera e che si sente dimenticato dal Nord. Per questo, alle elezioni, non vota.
Il Primitivo è mastelliano. Lo so che è forte come associazione, ma il primitivo è un vitigno facile e un po’ bagascia, ingentilito, che non si capisce cosa voglia fare da grande, che a seconda del luogo – e della discussione – cambia nome e schieramento: Zinfandel, Plavac Mali. Non so perché ma il Primitivo, il Merlot degli autoctoni italiani, secondo me era d’accordo con l’indulto.
L’Aglianico è borbonico. Così come il Nebbiolo, è rimasto alla monarchia, solo che è una monarchia diversa. Spesso non lo capiamo, non ne apprezziamo abbastanza il gusto e l’olfatto: è colpa nostra, siamo andati troppo avanti nel tempo e lui lo abbiamo perso per strada. Quando lo si beve, si deve accettare di salire nella macchina del tempo con Michael J. Fox. È un’esperienza temporale, più che sensoriale, bere l’Aglianico.
Il Syrah è di destra e non ha mai digerito la svolta di Fiuggi. È un vitigno nazionalista, patriottico, che vota Alleanza Nazionale in mancanza di meglio. Quello del Rodano, dell’Hermitage, della Côte Rôtie, in particolare. Virile, austero. È un balilla cresciuto, è il cuoco di Salò.
Il Negroamaro è missino, per pura associazione semantica.
Il Picolit, malato com’è di acinellatura, di aborto spontaneo, non può che essere radicale. Sempre in minoranza, sempre tra pochi, sempre pro aborto.
Il Piedirosso è comunista italiano, ma solo perché Cossutta si è fatto fregare dal nome (avesse letto per’e palummo, come lo chiamano in Campania, avrebbe forse scelto il Refosco dal Peduncolo Rosso).
Il Pignolo è dell’Italia dei Valori, cocciuto come Di Pietro.
Il Müller Thurgau vota Forza Italia. Nato da un esperimento di laboratorio, per mere esigenze personali (di un ricercatore, in quel caso), non è né carne né pesce. Non ha il fascino del Riesling, né la rusticità del Sylvaner. Non è buono, non gode di buona critica. Sul suo passato più di qualcuno solleva dubbi. Nessuno dice di berlo. Ma tutti lo bevono.
Il Tocai Rosso è Rifondazione Comunista. Un vitigno sufficientemente elitario (cresce solo a Vicenza) per piacere a Bertinotti. Quando però si è saputo che non era altro che un Cannonau veneto, e che la produzione non era tale da garantire lo sfondamento del 10% su scala nazionale, in sede ci sono rimasti male.
Il Trebbiano è qualunquista, la politica non la segue perché l’è ’na roba brutta e sporca. Tanto tutti rubano alla stessa maniera. Tanto ogni Trebbiano è bello a mamma sua.
L’Uva Rara, lo Schioppettino e il Tazzelenghe sono il gruppo misto al Senato, le minoranze etniche, quelli di cui ci si ricorda solo quando va eletto il presidente della Repubblica o salvato un governo di centrosinistra.
Il Moscato è di sinistra, la Malvasia di destra. Lo Chardonnay rigorosamente di centro.
La Barbera ha fatto il Sessantotto e nell’invecchiare si è fatta assumere da Italia 1.
Il Cabernet Sauvignon è presidente della Camera, il Sauvignon Blanc (quota rosa) presidente del Senato.
La democrazia italiana? Un Novello, un Beaujolais. Giovane, ineffabile, ballerina. Pétillant. Senza pretese.
Dell’arte di invecchiare (Brunello)
Vino da sorseggiare durante la lettura:
Brunello di Montalcino Riserva 1983 – Biondi Santi
Musica di degustazione:
Johnny Cash, Unhearted
Il vitigno più coltivato in Italia è il sangiovese. Settantamila ettari spalmati in diciassette regioni e settantatré comuni. Concorre a 158 Doc e Docg, spesso con un ruolo di primo piano, quando non in purezza.
Cresce ovunque, ma non ovunque dà analoghi risultati. I californiani si stanno assestando su livelli medio-buoni, certamente migliori degli altri sangiovese del Nuovo Mondo.
Presente in innumerevoli cloni e biotipi, in Italia non ha quasi mai la stessa identità. «Facile» o comunque meno propenso all’invecchiamento nel litorale adriatico (con le ovvie eccezioni), usato – sempre meno – come vitigno migliorativo del Montepulciano nelle Marche, in Umbria si presenta particolarmente tannico (per esempio la Docg Torgiano Rosso Riserva).
La sua patria dichiarata è la Toscana, dove concorre a tutte le Docg rosse della zona. Chianti, Chianti Classico, Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano, Carmignano e, ultima nata, Morellino di Scansano. Vini molto diversi tra loro, non solo perché derivati da biotipi diversi (il prugnolo gentile per il Nobile di Montepulciano, il morellino per il vino omonimo, il sangiovese grosso per il Brunello).
Per il Carmignano, fatto nella provincia di Prato, c’è sempre stata la tradizione di abbinare al sangiovese vitigni internazionali, prassi che di fatto ha anticipato la moda degli ultimi anni.
Il Chianti Classico è la zona dove è nato il vino probabilmente più famoso al mondo, imbottigliato – un tempo – nei caratteristici fiaschi. Settantamila ettari divisi tra le province di Firenze e Siena. E il Chianti, con le sue sette sottozone (Colli Aretini, Fiorentini, Senesi, Colline Pisane, Montalbano, Montespertoli e Rufina) nella sua versione «normale» era il vino di tutti i giorni, di pronta beva: per questo, al sangiovese, si affiancavano uve autoctone rosse (canaiolo, colorino, mammolo) e bianche (trebbiano, malvasia del Chianti).
Il sangiovese non è un vitigno facile. Ha maturazione medio-tardiva, si esprime al meglio solo se insolazione, microclima e altitudini sono perfetti.
È riguardo al sangiovese toscano, e alle sue tre «garantite» più importanti (Brunello, Nobile, Chianti Classico), che si è forse manifestata appieno la dialettica tra modernità e tradizione. La discussione, in particolare, si è incentrata sull’autosufficienza qualitativa del sangiovese: se, in altre parole, il vitigno possa permettersi di correre da solo o se, per dare origine a prodotti importanti, debba per forza di cose lasciarsi aiutare dai soliti alloctoni o comunque sottoporsi al maquillage della barrique.
Il fatto che, nella zona del Chianti Classico, la maggior parte delle aziende proponga molti vini alternativi internazionali, oltre alla propria Docg, racconta ampiamente l’importanza – e la rivoluzione – imposta dai Supertuscans. Vini nati come risposta alla pigrizia dei produttori delle «garantite», adagiati sugli allori, che con il loro successo hanno indotto (o costretto) molte aziende storiche a correre – spesso maldestramente – ai ripari, nel disperato tentativo di compiacere il mercato (e, ça va sans dire, la critica americana).
Può, da solo, il sangiovese dare vini di grande struttura e longevità? C’è chi ne dubita. Nell’arco di costoro ci sono non poche frecce: l’eterogeneità dei biotipi presenti nei vigneti, lo stadio arretrato di selezione e perfezionamento clonale, la differenza di comportamento nel processo di maturazione fenolica rispetto alle altre uve internazionali e le maggiori difficoltà date in fase di estrazione e macerazione. Non senza un certo paradosso, la zona del Chianti Classico è quella vitivinicola toscana in cui il sangiovese, soprattutto ad alte quote, fatica a maturare completamente.
Il sangiovese rende particolarmente difficile l’estraibilità di antociani e la gestione dei vinaccioli. Ha una vigoria spiccata, produce «troppo», a discapito della qualità. Se in purezza ha un colore scarico, «alla Barolo», i suoi profumi sono irruenti, terrosi, sanguigni. In più ha tannini accentuati, che in giovane età risultano insopportabilmente «verdi» (quello dei Colli Aretini è più gentile, ma anche per questo meno adatto a invecchiare).
Alcune pratiche enologiche hanno migliorato le cose, come la macerazione prefermentativa a freddo e la microssigenazione (uno dei cavalli di battaglia di Michel Rolland). Il professor Mario Bertuccioli dell’Università di Firenze, in collaborazione con i Vivai Cenaia di Pisa, ha lavorato a un progetto denominato «Chianti Classico 2000» per l’individuazione di biotipi di sangiovese migliorati, che sembrano dare buoni risultati: buccia spessa, acini piccoli, struttura spargola.
Un passo avanti è stato fatto giocando la carta della densità d’impianto, anche se quasi sempre la scorciatoia più percorsa è il ricorso – ora dichiarato e ora no – a un 15% di taglio con vitigni internazionali: cabernet, merlot, syrah.
Il problema si è proposto anche per il Nobile di Montepulciano, una Docg che dopo le recensioni esaltate ed esaltanti dell’annata 1997 è stata da più parti accusata di essersi fermata e anzi involuta. In una delle molte sue filippiche, già nel 2002 «Porthos» scriveva, non senza lungimiranza, che «quello che non ci convince è il fatto che in questi vini il territorio risalta con minore evidenza rispetto al passato: rare e spesso tenui le sensazioni floreali, uno dei tratti che da sempre rendono inconfondibile questa tipologia, troppo maturo il frutto – invece della classica amarena o del lampone prevalgono i frutti neri maturi, ciliegie, prugna, perfino la mora. Anche la terrosità, il legame viscerale con il territorio, risulta in molti casi soffocata dal legno e dalla ricerca di frutto, di calore e di immediatezza».
Si ripropone il dilemma di sempre: da un lato una modernizzazione che diviene globalizzazione, dall’altra – ahi noi – un rispetto della tradizione che non di rado viaggia di pari passo con un certo dilettantismo. Così, quei vini toscani tradizionali che includono la presenza di vitigni fortemente locali come il colorino e il mammolo, spesso alla degustazione risultano non equilibrati, poco puliti e con uno spiccato tannino «verde».
Di nuovo, non è solo una questione di gusto, ma di ideologia. Il bevitore occasionale sarà fatalmente attratto dalla Braccesca di Antinori, un Nobile che rinuncia totalmente alla spigolosità a vantaggio di un frutto «dolce» dato dal merlot, mentre il purista (e puritano) scoprirà magari, non senza imbarazzo, che della giornata passata a Vagliagli da Dievole, un’azienda da sempre leader nel marketing e nelle strategie di mercato, la cosa che più gli è rimasta in mente – oltre alla spaventosa bellezza del paesaggio – è la produzione minore, quei Rinascimento (con sangiovese) e Divertimento (senza sangiovese) che nascono volutamente poveri, poco carichi e molto bevibili, come i Chianti del tempo che fu: null’altro che la rivalutazione di vitigni minori come canaiolo, ancellotta, foglia tonda, barsaglina, mammolo, colorino e ciliegiolo.
Chi più ha subito l’empasse, data da un successo di dimensioni quasi inquietanti, è il Brunello di Montalcino. L’arrivo, negli anni Settanta, della superpotenza Banfi apre il mercato all’America. Nel 1980 giunge la Docg. La vendemmia del Novanta è giudicata «del secolo» e la fama esplode. Con essa, i prezzi: alla fine degli anni Settanta un ettaro costava cinque milioni di lire, oggi cinquecentomila euro.
Attualmente gli ettari autorizzati per la Docg sono milletrecento, divisi per duecento produttori e undici milioni di bottiglie. Boom del turismo, dopo i vini è arrivato il merchandising dell’olio e del pecorino delle crete senesi. L’università Bocconi di Milano ha stimato in duecentocinquanta milioni il valore del marchio «Montalcino».
I mezzadri che negli anni Sessanta comprarono le vigne dei padroni, e che oggi possono vendere a cifre esose il loro vino, non sono certo stimolati a migliorare la qualità, a investire, a sperimentare. Manca la coscienza produttiva, ed è per questo – vedi, per esempio, l’Amarone – che negli ultimi anni la critica, non solo integralista, ha espresso serie perplessità sul livello medio delle ultime annate (di per sé difficili) del Brunello.
Nel suo Il tempo del vino, Paolo Massobrio ha recensito con un «ni» il Brunello, e «Porthos» ha esortato i consumatori a smetterla «di ostentare bottiglie di Brunello, comportamento di per sé anacronistico. Montalcino non è riuscita a gestire il successo, perdendo gli stimoli e cadendo in una inevitabile crisi d’identità».
Sotto accusa ci sono produttori malamente attratti dai Supertuscans e un disciplinare quantomeno maldestro (uno dei tanti). Il lungo affinamento obbligatorio è stato accorciato di anno in anno, perché il mercato ha fretta e non c’è mai tempo di aspettare una bottiglia di vino. Là «guerra del Barolo», qui «battaglia di Montalcino»: ed ecco che i quarantotto mesi di affinamento in legno sono scesi a ventiquattro, la metà esatta, con l’ulteriore autorizzazione di aggiungere vino di annate più recenti per rendere più piacevole il Brunello.
Non solo: la tipologia «Riserva» si differenzia ormai solo per il fatto di uscire un anno dopo, e il produttore «furbo» che non ha venduto tutto il Brunello «base» può venderlo l’anno dopo a prezzo raddoppiato spacciandolo per Riserva.
Un’analisi del territorio non è mai stata fatta: non si fa distinzione tra zone più o meno vocate del terroir ilcinese, uno dei più affascinanti del mondo per la spiccata propensione a dare vini di qualità. Il Consorzio di tutela, secondo alcuni, non svolge appieno la sua funzione: troppo permissivo, ha autorizzato che i produttori uscissero con la Riserva in un’annata infelice come il 1996. E la Commissione non ha attrezzature per scoprire la presenza di altri vitigni (esistono sistemi di analisi che in base al contenuto polifenolico possono risalire alla natura dei vitigni) o per smascherare tracce di tannini in polvere e glicerina aggiunta.
Manca, pure qui, identità produttiva; il Brunello di Montalcino è tutto e il contrario di tutto. L’unica costante è il prezzo. Per il resto, sempre più produttori snaturano un vino nato per invecchiare con versioni monstre, caratterizzate da immediatezza e fruttuosità che con la storia del Brunello non c’entrano nulla.
Invece di imporre il territorio al consumatore, si è piegato il vino al mercato. Ecco perché, come da altre parti, esistono due distinti Brunello. Quelli ancorati alla tradizione, al vino che affina solo in grandi botti, alla bottiglia che deve invecchiare; e quelli «moderni», feticisti della colorazione e della concentrazione, del vino «pronto subito», di una morbidezza che non lascia spazio all’acidità e di una barrique dittatoriale.
Capostipite della linea modernista è Casanova de’ Neri, creatura del celebratissimo enologo Carlo Ferrini. Il suo Brunello (proposto in tre versioni) è il classico vino di Pinocchio. «Wine Spectator» ha eletto il Tenuta Nuova 2001 «miglior vino del mondo», con facilmente immaginabili effetti sui prezzi e su una rinnovata – ma traviata – fama di Montalcino. Per nulla stupefacente, poi, che dei tre Brunello di Casanova de’ Neri, il guru James Suckling abbia premiato quello più legnoso, più vanigliato, sepolto da una coltre boisé: come una spremuta di lapis.
Roberto Cipresso, che a Montalcino vive, ha individuato nella ricerca e nella sperimentazione la strada maestra per salvare (qualitativamente, perché come vendite va benissimo) il Brunello. Per lui il terroir ilcinese è una delle poche vere «zolle» miracolose, come la Borgogna e le Langhe. Non tutto Montalcino, però, è uguale. Occorrerebbe individuare – anche legislativamente – cru e sottozone, approcciarsi in maniera scientifica allo studio dell’ignorante sangiovese grosso (detto a Montalcino «brunello», di cui la «garantita» chiede un uso rigorosamente in purezza e senza tagli migliorativi).
Secondo Cipresso, che al contrario di Sandro Sangiorgi ritiene salvifico un uso (moderato) della barrique e (meno moderato) di concentrazione antocianica e malolattica, bisognerebbe lavorare su cloni meno vigorosi, con acini e grappoli non grossi. E incentivare altri sistemi di allevamento oltre al cordone speronato (per esempio, il guyot basso o l’alberello in parete). La densità d’impianto andrebbe aumentata. Le tecniche colturali «canoniche», secondo il winemaker, non ricorrono abbastanza a prassi altrove consuete come inerbimento, cimatura, diradamento e irrigazione artificiale.
L’aumento della temperatura, resosi palese dal 1998 a oggi, ha portato anche qui nuove problematiche, anzitutto l’anticipo della maturazione fenolica, che non dà il tempo alle uve di sintetizzare gli aromi e ai tannini di evolversi. Il limite di produzione dovrebbe, infine, essere ulteriormente diminuito. I grandi del vino, nel rispettare la proporzione tra parete vegetativa e quantità di grappoli, hanno una resa per pianta non superiore al chilo, più spesso cinquecento grammi. A Montalcino, mediamente, ogni pianta produce due chili d’uva.
Me ne rendo conto, la mia è una ricognizione che suona desolante, una sorta di filippica un po’ cassandrica che forse – come altre parti del libro – risente troppo dei dettami di «Porthos» e dell’effetto Mondovino. Oltretutto sono toscano, e così non faccio certo una grande pubblicità a quello che dovrebbe essere il «mio» vino (dico dovrebbe, perché, l’ho ammesso all’inizio, ho inclinazioni enologiche spiccatamente piemontesi).
Non tutto, ovviamente, è male. La Braccesca piace anche a me (Casanova de’ Neri meno, ma è un problema mio) e basta un Pergole Torte di qualsiasi annata per capire quanto straordinario possa essere un sangiovese (o sangioveto) in purezza coltivato nella zona del Chianti Classico, quel Chiantishire che riempie gli occhi ai turisti e fa la fortuna della Ryan Air.
Occorre però partire, anche qui, dai pionieri. Ogni vino mitico ha un suo inventore, un creatore ora eccentrico, ora compassato, conservatore o rivoluzionario, marchese o mezzadro.
L’inventore del Brunello o, per meglio dire, «il gentleman del Brunello», come l’ha chiamato Kerin O’Keefe nella sua biografia edita da Veronelli Editore nel 2005, si chiama Franco Biondi Santi. È nato al Greppo, isolato borgo di Montalcino, nel 1922 (l’annata di José Saramago e Kurt Vonnegut: grande annata). Si è laureato in Agraria all’Università di Perugia nel 1948 con una tesi sul Brunello. Nel 1999 ha festeggiato nella Cappella del Greppo le Nozze d’Oro con la moglie Boba, da cui ha avuto due figli, Jacopo e Alessandra.
La creatura di Jacopo è il Fontalloro di Felsina Berardenga, uno degli Igt più noti di Toscana. Dal 2006 corre da solo, troppo «moderno» per accettare la meravigliosa coerenza del padre. Il figlio è uscito anche dal Cda della Biondi Santi Spa, che commercializza i vini della Tenuta Greppo e quelli di Villa Poggio Salvi, di proprietà dell’ingegnere Pierluigi Tagliabue, nobilitati da un enologo giustamente famoso: Vittorio Fiore, il «maestro» di Stefano Chioccioli.
Alto, slanciato, fiero nei suoi ottantacinque anni, portati con dignità rara e garbo innato, Franco Biondi Santi vive dove crea, al Greppo. La sala di degustazione è uno studio con finestra sulle crete senesi; sulle tovagliette bianche ci sono due piccoli cerchi dove va poggiato il bicchiere: uno per il Brunello di Annata (il 2001, nel mio caso) e l’altro per la Riserva (il 1998, sempre nel mio caso).
Un giubbotto giovanile poggiato sulle spalle, foulard al collo e, in tasca, un mazzo di chiavi che custodisce con religiosa attenzione. Quelle chiavi aprono i sacri sepolcri delle bottiglie più antiche, mitiche, del 1888 e 1891. Le ho viste, intatte e polverose, dal colore quasi rosato, con la «camicia» di depositi sulle pareti e la fossetta nel fondo (si chiama picure) molto pronunciata.
Non ci sarebbe Brunello senza Biondi Santi. «In azienda c’è solo un tipo di vitigno» mi racconta con una voce che è testimonianza orale di molte epoche, ere, guerre. «Si tratta del sangiovese grosso, proveniente da una selezione massale iniziata da mio nonno, Ferruccio Biondi Santi, sul finire del 1870, quando individuò un clone particolare di sangiovese nelle sue vigne disastrate da crittogame e fillossera.»
Biondi Santi è una famiglia importante, gloriosa. «Clemente Santi, mio trisavolo, era viticoltore, enologo e uomo di cultura. Ebbe premi all’Esposizione di Londra del 1856 per il suo Moscato, al tempo il vino storico ilcinese (si continua a fare, è la Doc Moscadello di Montalcino) e nel 1867 per un Vino Rosso Scelto da uve Brunello. Un tempo, brunello era il nome del vitigno, non del vino: lo si chiamava così per il colore bruno della buccia: scuro, con riflessi quasi violacei.»
Fu il nipote Ferruccio Biondi Santi a ideare l’attuale Brunello. «Innestò tutte le sue nuove vigne con le gemme tratte dalle viti selezionate di sangiovese grosso e ne trasse il vino che oggi conosciamo come Brunello di Montalcino. Anche il ministero di Agricoltura e Foreste, con un documento del 1932, lo riconobbe come inventore del Brunello.»
Il figlio di Ferruccio, Tancredi, tipizzò il Brunello creandone le basi per il futuro disciplinare, che arrivò nel 1964. «Era un grande enologo, prestò la sua consulenza al Lugana, al Chianti, al Fiorano dei Boncompagni-Ludovisi, al Cirò calabrese. Non fece mai parte del Consorzio del Brunello perché i nuovi produttori non accettavano la distinzione tra Rosso, di fatto una ricaduta, e il Brunello.»
La prima annata è del 1888, la più mitica è il 1955. «Il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, quando nel 1969 si recò in visita ufficiale a Londra, al pranzo di addio alla regina Elisabetta presso l’Ambasciata italiana fece servire un Brunello Biondi Santi del 1955.» E proprio la Riserva 1955, sulle pagine di «Wine Spectator», viene definita nel 1999 «uno dei migliori dodici vini prodotti al mondo nel XX secolo». Della classifica facevano parte sette vini francesi, due americani, uno portoghese e uno australiano. L’unico vino italiano era il Biondi Santi.
Franco Biondi Santi, figlio di Tancredi, ha accolto con piacere l’eredità pesante. «Sono cresciuto tra le vigne, il vino era la mia vita. Sono l’agronomo e l’enologo dei miei vini.»
Vini rari, ferocemente ancorati alla tradizione, tra i più longevi al mondo. Siamo agli antipodi dei Brunello moderni. Niente barriques, niente vitigni internazionali (che, per quanto vietati, ogni tanto entrano di nascosto in bottiglia). Vigne vecchie, botti di rovere da cento e più ettolitri, in legno di rovere di Slavonia. E rispetto estremo del territorio, espressione assoluta della tipicità del vitigno.
«Non ho fatto che proseguire la strada di mio padre. Le innovazioni sono state poche, solo qualche apparecchiatura e un rispetto maggiore per l’igiene. Il Brunello viene bene da sé, basta assecondare la natura e il territorio. La tecnologia di cantina non presenta particolari problemi. Da sempre usiamo solo lieviti naturali, selezionati naturalmente in cloni particolari, vendemmia dopo vendemmia, da uve provenienti dalle stesse vigne e vinificate negli stessi ambienti con la stessa tecnologia, decenni dopo decenni.»
Quale? «Controllo della temperatura di fermentazione, svinatura dopo circa quindici giorni, in relazione alla presa di colore del vino nuovo, temperatura degli ambienti di diciotto-diciannove gradi centigradi per favorire la degradazione dell’acido malico, che comunque si affina in una cantina sotto tetto dove il vino nuovo passa la prima estate. Ripetuti travasi. La primavera successiva alla vendemmia, il vino viene travasato nelle grandi botti dove sosterà dodici mesi il Rosso e trentasei il Brunello.»
Il nuovo disciplinare è sceso a ventiquattro mesi. «Io continuo a fare il vino come prima, la riduzione del disciplinare è stata una concessione a chi crede nella barrique, che per me è l’eroina del vino.»
Come tutti i produttori di Montalcino (e non solo loro), la produzione è a scalare: Brunello Riserva, Brunello Annata, Rosso di Montalcino. «Le differenze di tipicità fra i tre vini le abbiamo sempre individuate in base all’età delle viti e alla natura del terreno. Il Rosso proviene dai vigneti che hanno meno di dieci anni di età, il Brunello Annata dai vigneti di oltre dieci anni, fino a venticinque circa, il Brunello Riserva da quelli che hanno più di venticinque anni di età. La Riserva esce solamente nelle annate eccezionali. Esiste poi il Rosso di Montalcino “Fascia Rossa”, prodotto nelle annate in cui non faccio Brunello. Accade quando l’andamento stagionale non ottimale dà un vino con caratteristiche organolettiche che non ritengo sufficienti per la qualità standard del mio Brunello.» Un’altra decisione in controtendenza, perché a Montalcino si imbottiglia anche – soprattutto? – quando non si deve.
L’Azienda Agricola del Greppo ha una superficie totale di 153 ettari, di cui 23 destinati al Brunello. «Le restanti superfici sono investite a oliveti, seminativi e boschi. La produzione è di circa ottantamila bottiglie, tutte numerate, ogni anno. Per i vigneti scarto anzitutto i terreni fertili, preferendo i terreni malestrosi con esposizione da sud-ovest a Levante.» I motivi sono molteplici. «I migliori terreni sono quelli sassosi, perché la vite ha modo di cercare umidità sotto le pietre, e per la gestione del calore. Lo scasso, nell’immediato secondo Dopoguerra, era effettuato con materiale bellico. Le esplosioni con ordigni della Seconda guerra mondiale sviluppavano anche azoto, necessario per nutrire la pianta. Le viti più vecchie hanno quasi settant’anni. Il sistema di allevamento è a controspalliera con cordone orizzontale speronato, venticinque-trentamila gemme a ettaro. Gli impianti molto vecchi hanno poco più di duemila viti a ettaro, i nuovi vigneti, quattromilacinquecento.»
E l’esposizione? «Fondamentale. L’importanza delle differenze climatiche è evidenziata per il Brunello da disparità di circa quindici giorni fra un territorio e l’altro per le stesse fasi enologiche delle viti. I vini che provengono dai vigneti del versante sud-ovest sono molto ricchi di alcol, colore, polifenoli, ma bassi di acidità totale e alti di pH. Vini di grande struttura e qualità, per carità, ma diversi da quelli che provengono dai vigneti del versante nord-est, come quelli del Greppo, che sono meno strutturati ma più ricchi di acidità totale e con pH più basso: quindi più longevi. Anche in questo il disciplinare è lacunoso, perché non fa distinzione. I poveri produttori del Morellino di Scansano stanno peggio di noi: la zona autorizzata raccoglie quasi tutta la provincia di Grosseto e di fatto si possono usare tutte le uve esistenti. Più che un vino è un minestrone. Riguardo al disciplinare del Brunello, già nel 1996 chiesi al ministero dell’Agricoltura la creazione di una sottozona Greppo per il disciplinare del Brunello, un po’ come la sottozona Sassicaia per Bolgheri. Attendo ancora una risposta.»
Una vittoria legislativa, intanto, è stata ottenuta. «Il mantenimento dell’obbligo del cento per cento di sangiovese grosso per il Brunello. Un mio merito. C’era chi negli ultimi anni voleva usare anche altri vitigni per facilitare il prodotto finale.»
È la spiccata acidità del Brunello di Biondi Santi a permettere una straordinaria propensione all’invecchiamento. «Per il Brunello Annata “garantisco” una longevità di quarant’anni, per la Riserva di almeno sessanta. Il 28 settembre 1994 organizzai una verticale delle mie Riserve, alla presenza di sedici degustatori scelti tra le testate giornalistiche più note al mondo. Dal 1988 al 1888. Nicolas Belfrage, della rivista inglese “Decanter”, dette 10/10 alla Riserva 1891. Il massimo dei voti a un vino che all’epoca aveva 103 anni.»
L’esaltazione «a tutti i costi» dell’acidità ha portato, in alcune annate, a vini incredibilmente longevi ma non sempre bilanciati. Franco Biondi Santi ha ben chiara la sua idea di vino: «È quello che faccio io, quello che sta bevendo. Un vino di corpo: il giusto corpo, non eccessivo. Il colore deve essere quello naturale del sangiovese grosso, pazienza se è un po’ scarico. Deve essere equilibrato, anzi armonico. Deve vantare una piena armonia tra freschezza, tannini e la giusta sapidità. Quest’ultima è la spalla ideale per una grande persistenza. E senza acidità, la longevità che desidero è negata».
Il riconoscimento dei profumi, la liturgia teatrale cara al degustatore televisivo sono ridimensionati. «Tutte cose molto soggettive, i profumi. Dipende molto da cosa hai mangiato prima, se hai digerito o no, se sei allegro, se hai litigato con la moglie. Nelle mie degustazioni non mi soffermo quasi mai sul nome da dare ai sentori, i fattori oggettivi discriminanti sono altri.»
Dal 2006 è stato messo in commercio anche un Biondi Santi Rosato. «Sempre da uve sangiovese, ma vinificato in bianco. Il motivo tecnico è la procedura del salasso, che da una parte dà maggior colore al Brunello e dall’altra stimola le attuali tremila bottiglie di Rosato. Inoltre c’era la voglia di soddisfare mia moglie, che è astemia. Si lamentava sempre di come i rossi macchiassero la tovaglia. Un bianco da sangiovese potevo farlo tecnicamente con il carbone vegetale, ma significava snaturare il vitigno e non potevo. Il rosato era la giusta mediazione. In Toscana non ha grande successo, ma le bottiglie fatte sono comunque poche. Se un giorno ci sarà il boom di rosati, la produzione rimarrà questa, perché se aumentassimo la resa, diminuirebbe la qualità. Al massimo aumenteremo i prezzi, abbiamo sempre fatto così.»
E sono prezzi (al pubblico) molto impegnativi. 70 euro per l’Annata, 220 per la Riserva più «giovane» (si perdoni l’ossimoro). Le Riserve più lontane sono il sogno dei collezionisti. Sogni non alla portata di tutti: la Riserva 1997 costa 430 euro, la mitica Riserva 1990 arriva a 930 euro, l’ancor più mitica Riserva 1955 sfiora i 5000 euro (il prezzo della Riserva 1945, l’ultima reperibile alla Biondi Santi Spa).
Franco Biondi Santi ha ereditato dal padre anche il rito della ricolmatura. «Le grandi riserve del 1888 e del 1891 sono state ricolmate tre volte. Nel 1927, da mio padre. Nel 1970, alla presenza, tra gli altri, di Luigi Veronelli e Mario Soldati, che al nostro vino ha dedicato pagine splendide (in Vino al vino, recentemente ristampato da Mondadori). E, la terza volta, nel 1985, più ravvicinata perché nel frattempo era aumentata la produzione di vino nel mondo e con essa era peggiorata la qualità del sughero.»
Le ricolmature sono indispensabili alla longevità del vino. «Il vino deve avere una grande struttura, un buon tenore di polifenoli, un giusto estratto secco (sopra i trenta grammi/litro), un’acidità totale mai sotto i sei grammi/litro e un pH basso. Deve essere sapido, persistente, equilibrato, armonico, senza eccessi di calore. Ma deve anche avere un buon tappo. Mai, nelle nostre cantine, abbiamo trovato vini difettosi o decrepiti. Nel 2000 ho dato la possibilità di ricolmare le bottiglie anche dei clienti possessori del nostro Brunello di Montalcino Riserva. Ho fatto un Bando e un Regolamento di Ricolmatura, nei quali l’aspetto più importante era l’accettazione da parte del cliente del risultato del nostro “expertice”. Il 12% è stato declassato, su un totale di 1684 bottiglie. Si trattava di vini mal conservati, di bottiglie tenute verticali al sole, nelle vetrine o negli scaffali. Anche per questo ho fatto creare delle bottiglie fac-simile, verniciate di rosso scuro, con la nostra etichetta, vuote ma perfette per essere esposte: non posso permettere che vini concepiti per invecchiare si deteriorino a causa della loro esposizione.»
Le bottiglie difettate non venivano ricolmate e ritappate con tappi anonimi: di fatto, non erano più commercializzabili come Brunello di Montalcino Riserva Biondi Santi. I vini più fortunati sono stati colmati con grammi di vino della stessa annata, conservati nella tenuta del Greppo. All’epoca costava 7500 lire al grammo. In media si perdono dodici grammi di vino ogni vent’anni: 138.000 lire di scolmatura, in cambio di una bottiglia colma e nuovamente certificata.
Nell’azienda c’è un’attenzione certosina ai sistemi di stoccaggio e al condizionamento delle bottiglie nei locali. «Cantine a temperatura costante sui tredici-quindici gradi centigradi e senza rumori, umidità relativa molto alta (attorno all’85%), posizione orizzontale delle bottiglie, buio completo e controllo a campione dei livelli del vino nelle bottiglie. A lungo andare il tappo si imbeve di vino, perde lentamente elasticità, non aderisce più perfettamente al vetro del collo della bottiglia e quindi il livello del vino cala. Di conseguenza aumenta la bolla d’aria e quindi si accelera il processo di invecchiamento. Ogni cinque-dieci anni vanno controllati i livelli: se sono troppo bassi, bisogna stappare e ricolmare le bottiglie.»
L’evoluzione del vino ha le sue stazioni ed è ben chiara al creatore. «Già nel primo periodo si hanno grandi trasformazioni, nel vino nuovo appena svinato il profumo e sapore di castagna lessa sparisce quando termina la fermentazione alcolica. Successivamente, nelle botti grandi, si ha la perdita quasi completa del fruttato e dell’unghia violacea e, molto lentamente, la presa di profumo con sentori di vaniglia e giaggiolo. Questo è dovuto all’età centenaria di alcune botti in rovere di Slavonia, fatte fare a fine Ottocento dalla ditta Garbellotto di Conegliano Veneto: la migliore per le botti grandi, mentre per le barriques dovresti rivolgerti sempre alla Francia, anche se quelle di Gamba, a Castell’Alfero in provincia di Asti, sono oneste.»
Le trasformazioni, non meno significative, proseguono nella bottiglia. «In quell’ambiente ridotto si creano gusti e profumi particolari. Il mio Brunello, quando ha quindicivent’anni, evidenzia un profumo di catrame, di goudron; dopo altri venti-trent’anni si aggiunge la pietra focaia; quindi, ancora più avanti, un sentore di vin santo molto corposo, glicerinoso, con un tocco perfetto di tabacco da pipa melassato.»
Su questi temi, sulla tipicità e longevità dei vini, Franco Biondi Santi ha tenuto una lettura presso l’Accademia dei Georgofili, il 16 gennaio 2002. Ne custodisco il testo.
Biondi Santi ha ricevuto molte recensioni, quasi tutte entusiastiche. James Suckling, riguardo all’annata 2001, è stato invece critico, poco attratto dalla coerenza della cantina: secondo lui ormai si trattava di un Brunello normale, da bere subito (mentre il Casanova de’ Neri era il vino della vita: che bizzarri gli americani!).
Franco Biondi Santi è rimasto molto legato a un articolo scritto da Camillo Langone su «Il Foglio», nel gennaio 2007. Langone, riprendendo tra le mani Vino al vino di Mario Soldati, decideva di degustare le annate 2001 e 1999. «Anche quando a Montalcino si cominciò a sperimentare maldestramente, producendo vini sempre meno tipici e sempre più nauseanti, i Biondi Santi rimasero fedeli all’elegante ricetta originaria: sangiovese in purezza (senza addizioni di sorta), lentissimo affinamento, niente diserbanti e soprattutto niente barrique.»
Biondi Santi tiene molto alla conservazione e alla piena valorizzazione del suo vino. Esige che durante le spedizioni le bottiglie siano tenute in verticale, per non agitare il contenuto e muovere la «bolla» che si crea quando la bottiglia sta in orizzontale. Consiglia caldamente che le bottiglie, sia quelle vecchie che quelle più giovani, siano stappate e scolmate un poco, almeno otto ore prima della degustazione (le mie bottiglie erano state aperte diciotto ore prima, per sua volontà).
La mescita deve essere svolta direttamente dalla bottiglia: niente decanter. «Lo sconsiglio nella maniera più assoluta. Certo, nei casi più disperati è comunque un modo per ottenere velocemente una minima armonia del vino, ma è una pratica brutale. Il vino si ossigena troppo violentemente, i profumi più eleganti se ne vanno.» Non un difetto da poco: dei Brunello di Biondi Santi ti colpisce, anche dopo un lungo invecchiamento, la perfetta riconoscibilità dei profumi primari, i chiari sentori floreali (la viola appassita, per esempio).
Il rispetto di Franco Biondi Santi per i suoi vini è tale che chiede ai ristoratori di aprire ai clienti i suoi Brunello solo su prenotazione. «È una cosa che va scritta sulla carta dei vini. Il cliente si incuriosisce e la volta successiva prenota e si fa aprire otto ore prima la bottiglia: se la si apre al momento, è uno spreco.»
Nell’articolo, Langone seguiva alla lettera i consigli di Biondi Santi. Scopriva che aveva ragione. E scriveva cose verissime, che da sole bastano a far capire – ulteriormente – quanto discutibili siano le guide e quanto aleatori i concorsi. «Per seguirne l’evoluzione le abbiamo assaggiate in quattro fasi: subito stappate, tre ore dopo, sei ore dopo, venti ore dopo. Il Brunello appena aperto era durissimo e ostile e questo basta a sbugiardare le guide dei vini. Delle due l’una, o non sono veri i voti o non è vero il metodo, gli alti punteggi del Biondi Santi non possono scaturire da una prestazione cieca e alla pari, necessitando di essere stappato molte ore prima degli altri Brunelli. Le nostre bottiglie sono migliorate da un assaggio all’altro, mentre tannini e acidità (elisir di lunga vita) si armonizzavano con le altre componenti. Via via che le bottiglie si svuotavano di liquido, si riempivano di nostalgia e per poter continuare ad annusarli non abbiamo lavato i bicchieri per due giorni.»
Li capisco.
Credo che il tempo affini non solo i vini buoni, ma ingentilisca i conservatori e, di contro, smascheri i finti guevaristi (come pure i vini-Muccino).
Credo che ci siano uomini irripetibili, non meno delle loro creazioni. Persone discrete che mai dimenticano l’eleganza, la finezza, la solenne educazione. Uomini ancorati alla memoria, refrattari al marketing, a ciò che è apparenza: menti illuminate e non classificabili che sparigliano le carte, vanificano i sondaggi, non assecondano gli Uffici Relazioni Esterne (Gianmichele Grieco, responsabile della Biondi Santi Spa, ne sa qualcosa).
Credo che esistano uomini in grado di gestire il crepuscolo, destini che sposano la longevità. Un amico mio li avrebbe chiamati, mi pare, Anime Salve.
Credo che il Brunello di Montalcino Biondi Santi Riserva 1983 lo aprirò il giorno in cui sarà tutto perfetto. Forse domani, forse mai.
Credo che avrò sempre ben chiaro, nitidissimo, il tintinnare delle chiavi che portavano all’annata 1888, il foulard, la finestra alle spalle – che paesaggio! –, quel buffo giubbotto verde, adagiato su spalle indomite, e quegli occhi antichi.
Credo che invecchierò. Non credo bene come il Brunello di Biondi Santi. Non credo bene come Biondi Santi.
Credo che raccontare un vino sia raccontare il passato, comprendere il presente, scrutare (non senza sgomento) il futuro.
Credo che elogiare l’invecchiamento sia una buona rivoluzione.
Credo che il vino sia, come la musica, uno splendido cavatappi per le emozioni.
Credo, sempre di più, che nell’eterna lotta tra figli e padri, gli unici a vincere siano i nonni. A distanza. Con discrezione. Quasi immortali, certo indimenticabili.
Le dieci cose che penso sul vino
dopo questo libro
1. Diventare sommelier è una cosa molto seria, ma non necessariamente equivale a capire di vino (e comunque Antonio Albanese che li imita continua a farmi ridere).
2. I vini non costano sempre troppo, ma spesso sì.
3. I sommelier che vanno in tv continuano a rimanermi (quasi sempre) pesanti, come tutti i comici involontari.
4. Il sommelier è un appassionato di vino che, dopo aver molto studiato e molto bevuto, si trova inesorabilmente davanti a un trivio: o me la tiro (e imparo a parlare come quelli in tv); o mi ingesso (e prendo come Sacre Tavole i «tre bicchieri»); oppure continuo a cercare. Mi piacerebbe appartenere alla terza specie.
5. Un vino può, eccome, sapere di goudron, cherosene o merde de poule; il guaio è che è sempre più difficile incontrarne uno.
6. Ogni volta che faccio una degustazione e mi esce dalla bocca una parola come «opulento», un po’ mi viene da ridere e un po’ benedico il fatto che Nanni Moretti non sia nei paraggi.
7. Quando un ristoratore mi chiede se voglio bere un vino biodinamico, penso che quel ristoratore forse mi somiglia.
8. Le guide dei vini le compro tutte, ma quella puntata di «Report» la riguardo spesso (e già che ci sono ripasso anche qualcosa di Mondovino).
9. Un vino di classe lo riconosci non al primo bicchiere, ma al secondo.
10. Gli astemi continuano a farmi paura.
Fonti
I punti cardinali di questo libro, volutamente opposti, sono stati i volumi didattici dell’Associazione Italiana Sommelier e i numeri (tutti) del trimestrale alternativo «Porthos», diretto ottimamente da Sandro Sangiorgi.
Molto utili si sono rivelate anche le riviste enoiche, soprattutto «Spirito diVino», «Il Mio Vino», «Civiltà del bere», «Decanter», «Wine Spectator» e «Wine Avocate» (di queste ultime due ho parlato quasi sempre male, non senza un sottile piacere).
Tra le mie letture preferite ci sono sempre state (grandi) firme legate al vino: penso a Luigi Veronelli, Mario Soldati, Gianni e Paola Mura, Paolo Massobrio, Roberto Cipresso.
Per quanto discutibili, le guide hanno avuto la loro utilità e ogni anno procedo puntualmente al loro acquisto: Gambero Rosso, Duemilavini Ais, Espresso, Veronelli, Gambero Rozzo e Golosario su tutte, senza dimenticare le proletarie Guida al vino quotidiano di Slow Food e Il vino in tavola del Touring Club Italiano.
Di film sul vino, ciclicamente, ne escono di belli e di brutti. Fanno parte della prima categoria Mondovino e Sideways, della seconda A good year (le gambe di Marion Cotillaud fanno storia a sé).
In rete si trovano siti (e forum) molto attendibili legati al mondo del vino. Alcuni sono i portali delle riviste (o delle associazioni) più importanti del settore, altri sono amatoriali (ma non per questo meno meritevoli). Mi piace, qui, (ri)citare Vinoinrete, Enotime, Vino-salute, Vino-biologico e il sito ufficiale di Rudolf Steiner.
I dati relativi ai disciplinari sono aggiornati, più o meno, al giugno 2007. Tenuto conto che Doc e Docg mutano di continuo, mi scuso fin d’ora per eventuali imprecisioni.
Le musiche di degustazione sono solo un piccolo gioco. Più che altro mi andava di ricordare quei dischi che mi hanno accompagnato nella scrittura. Del resto, come scriveva Anton Cechov: «Il vino e la musica sono sempre stati per me un magnifico cavatappi». E ancora, citando Clement Freud: «Se decidi di smettere di fumare, di bere e di fare l’amore non è che vivi più a lungo: ti sembra più lunga».
Dovrei dire grazie a molte persone. Anzitutto ad Arnaldo Rossi della Bottega del vino di Cortona, alla sua squisita competenza e al suo bel gruppo di degustatori in direzione ostinata e contraria. E poi: Marco Molesini dell’Enoteca di Cortona. Il Comanchero Franco Caneschi, inimitabile Kit Carson italiano. Il buon Marco Sensitivi della Bottega del vino di Castiglion Fiorentino; Caterina e Simone della Tana degli orsi di Pratovecchio; Massimo della pizzeria La Capanna di Falciano. La Delegazione di Arezzo dell’Associazione Italiana Sommelier. Maurizio Robaldo di Cravanzana (grazie per l’eresia di Gigi Garanzini) ed Emilio Banchero del Bunet di Bergolo (sì, il Dolcetto di Edoardo Sobrino mi ha convinto). Francesco Anzelmo, Beppe Cottafavi, Edmondo Berselli, Giulio Anselmi, Massimo Gramellini, Raffaella Silipo. Tutte le persone intervistate in questo libro. E tutti gli altri.
Come ogni mio libro, anche questo non sarebbe nato senza Linda, che ha saputo accompagnarmi e quasi sempre sopportarmi; mio padre; la mia famiglia; Tavira, la nostra labrador nera a cui saltuariamente chiedo consulenze per i riconoscimenti olfattivi dei vini; gli amici di sempre: Massimiliano Bertozzi, Alberto Rambino Fucci, Gianluca Dejan Gori e Gabriele Mori.
Chi volesse contattarmi, può farlo tramite il sito www.andreascanzi.it.
Di seguito, riporto una lista parziale delle fonti, sperando di non averne dimenticate troppe.
AAVV, Vini. Conoscere e riconoscere i vini, i vitigni e le cantine migliori d’Italia, Novara, De Agostini, 2002.
AAVV, Il piacere del vino. Manuale per imparare a bere meglio, Bra, Slow Food Editore, 2003.
AAVV, Il vino Italiano. Panorama vitivinicolo attraverso le denominazioni di origine, Milano, Ais, 2003.
AAVV, Il vino italiano. Vitigni, enografia e gastronomia regionale, Milano, Ais, 2003.
AAVV, La degustazione, Milano, Ais, 2004.
AAVV, Enciclopedia del vino, Milano, Boroli Editore, 2004.
AAVV, Il libro del vino. Manuale teorico & pratico, Roma, Gambero Rosso, 2004.
AAVV, Il libro del vino. Manuale teorico & pratico, Roma, Gambero Rosso, 2004.
AAVV, Il mondo del Sommelier, Milano, Ais, 2004.
AAVV, Tutto vino. Guida completa ai vini d’Italia. Produttori, degustazione, abbinamenti, Firenze, Demetra Giunti, 2004.
AAVV, Spumanti e vini rosati, Savigliano, Gribaudo Editore, 2005. AAVV, I vini dolci. Muffati e passiti, Savigliano, Gribaudo Editore, 2005.
AAVV, Il cibo e il vino, Milano, Ais, 2006.
Bay Allan, Cuochi si diventa. Le ricette e i trucchi della buona cucina italiana di oggi, Milano, Feltrinelli, 2003.
Biondi Santi Franco, Tipicità e longevità dei vini di «grandi riserve», Firenze, Accademia dei Georgofili, 2003.
Cipresso Roberto, Il romanzo del vino, Casale Monferrato, Piemme, 2006.
Conti Paolo C., La leggenda del buon cibo italiano (e altri miti alimentari contemporanei), Roma, Fazi Editore, 2006.
Donà Massimo, Filosofia del vino, Milano, Bompiani, 2003.
Fini Marco, Sassicaia, Firenze, Centro Di, 2004.
Hiort Af Ornas Catarina, L’universo del vino. Geografia, immagine e cultura delle regioni vinicole del mondo, Vicenza, Enosis Meraviglia, 2001.
Ippolito Clara, Sangiorgi Sandro, Oro rosso. Impara a scegliere e degustare il vino rosso, Roma, Fratelli Spada, 2004.
Joly Nicolas, Il vino tra cielo e terra. La viticoltura in biodinamica, Roma, Porthos, 2004.
Massobrio Paolo, Il tempo del vino. Diario di vigna e di passioni, Milano, Rizzoli, 2006.
Morganti Paolo, Sangiorgi Sandro, L’Amarone della Valpolicella, Verona, Morganti Editore, 2003.
O’Keefe Kerin, Franco Biondi Santi, Bergamo, Veronelli Editore, 2005.
Paolini Davide, Il mestiere del astronauta, Milano, Sperling & Kupfer, 2005.
Pozzali Marco, Graziani Federico, Grandi vini di piccole cantine, Milano, Food Editore, 2007.
Sangiorgi Sandro, A scuola di vino, Roma, La Biblioteca, 2004.
—, Il matrimonio tra cibo e vino. Teoria e pratica di una scelta nobile, Roma, Porthos, 2005.
Sicheri Giuseppe, Il vino: 100 domande e 100 risposte, Milano, Hoepli, 2003.
Soldati Mario, Vino al vino, Milano, Mondadori, 2006.
Veronelli Luigi, Viaggio in Italia per le città del vino, Milano, Sperling & Kupfer, 1998.
Veronelli Luigi, Echaurren Pablo, Bianco, rosso e Veronelli. Manuale per dissidenti e gastroribelli II, Roma, Nuovi Equilibri, 2005.
Zanfi Andrea, Le Marche… l’orto del vino, Poggibonsi, Carlo Cambi Editore, 2006.
Le dieci cose che pensavo sul vino prima di questo libro
Con i vini ci mangio quel che mi pare
A ognuno il suo Champagne (Metodo Classico)
Come diventare sommelier in cento mosse
Fascino, opulenza, crepuscolo (Amarone)
Il grande sottovalutato (Lambrusco)
Mi piace, non mi piace: il vino <<buono»
Il vino Kiarostami (Pinot Nero)
Guida galattica per enostoppisti
Terra di liberi pensatori (Verdicchio)
Come bere un vulcano (Aglianico)
Il vino fa bene, il vino fa male (la sbornia)
Dell’arte di invecchiare (Brunello)