Table of Contents
Prefazione. Poche parole sull’Italia
Capitolo 1 – Sulla piazza di Santa Croce
Capitolo 2 – Lo sbirro Michele del Tavolaccino
Capitolo 4 – Il Palazzo Riccardi
Capitolo 5 – I sospetti dell’Unghero
Capitolo 6 – La Colomba dell’arca
Capitolo 7 – Una scena di Bruto
Capitolo 8 – La cella di fra Leonardo.
Una notte a Firenze sotto Alessandro dei Medici
Alexandre Dumas
Pubblicato: 1868
Categoria(e): Narrativa, Storico, Moderna (<1799)
Fonte: Liber Liber
Alexandre Dumas padre è stato uno scrittore e drammaturgo francese. Maestro del romanzo storico e del teatro romantico, ebbe un figlio omonimo, Alexandre Dumas, anch’egli scrittore. È famoso soprattutto per i capolavori Il conte di Montecristo e la trilogia dei moschettieri formata da I tre moschettieri, da Vent’anni dopo e da Il visconte di Bragelonne.
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Prefazione. Poche parole sull’Italia
Noi siam per affermare una proposizione che a molte persone parrà uno strano paradosso.
Non è colpa de’ popoli se sono schiavi, la libertà e la schiavitù dipendono dalle diverse condizioni topografiche nelle quali sono nati.
Perché l’Indiano non è libero? Perché l’Egiziano non è libero? Perché il Russo non è libero? Perché le due Americhe sono state sì lungo tempo senza esser libere? Perché l’Africa è ancora un mercato di Negri?
Esaminate la configurazione della massa del loro territorio.
La libertà è lo spirito di Dio, e lo spirito di Dio, dice la Genesi, era portato sulle acque.
La schiavitù è dappertutto ove vi sono grandi spazi di terra che si possono percorrere senza passar acqua.
Essa è nelle Indie che si estendono da Calcutta al golfo Persico; nell’Egitto che s’estende da’ monti della Luna fino al Mediterraneo; in Russia che s’estende dal mar Caspio al Baltico; essa durò per lungo tempo nell’America del nord, per più lungo tempo ancora nell’America del sud, e nessuno può prevedere quando finirà in Africa.
Gettate uno sguardo sulla carta del mondo, e giudicate.
Guardate invece la nostra piccola Europa, e paragonatela a quella massa che è l’Asia, all’impenetrabile Africa, a quella doppia America che taglia in due il globo.
Chi è che comincia a dare al mondo l’esempio della libertà? Chi è la prima a fondare le sue repubbliche?
Quella impercettibile maraviglia che si chiama la Grecia.
Seguite i suoi contorni sul triplice mare che bagna i suoi capi, i suoi istmi, i suoi promontorii; guardate la moltiplicità delle sue curve, e de’ suoi angoli sì fortemente delineati; non si direbbe ch’essa s’agita, che scintilla sulla carta e che le sue isole sono altrettante Delo presso a staccarsi dal fondo del mare, e ad ondeggiare al vento della scienza e delle arti?
Così vedete com’essa si costituisce in istato di guerra contro l’Asia, l’assalisce nella spedizione degli Argonauti, la doma nella guerra di Troja, la respinge a Salamina, la soggioga con Alessandro, lotta contro la natura voluttuosa dell’Oriente, mette un’argine alla poligamia, fa della donna la compagna dell’uomo e le dà l’anima che le negano Zoroastro e Wisnù.
Ecco quel che ha fatto la Grecia, la terra dai mille frastagliamenti, bella fra le belle, divina ancora, eppure già umana, fiore di libertà schiuso sulle acque, terra di perfezioni, che niun’altra terra ha mai uguagliata, e che tutte sono state obbligate ad imitare quando han voluto avvicinarsi al Bello.
***
Dopo la Grecia viene l’Italia, una penisola; essa pure è bagnata da tre mari: il Tirreno, il Mediterraneo e l’Adriatico; essa pure caccia presto i suoi re, si costituisce in repubblica, e non riconosce i suoi imperatori se non quando s’avvicina alla sua decadenza, morale, se non materiale.
Essa fece più di quel che avea fatto la Grecia, sotto il punto di vista sociale. La Grecia si contentava di colonizzare; Roma, non solamente colonizza, ma adotta, attira a sé i popoli, s’assimila le nazioni, assorbisce il mondo. Tutto viene a fondersi in lei: la civiltà orientale e la barbarie dell’Occidente; essa apre un Panteon a tutte le divinità del mondo; poi, con un rovescio di mano, gitta a terra Panteon, altari, statue, per inginocchiarsi sul Calvario, ai piedi dell’albero della libertà tagliato in forma di croce.
Ed ora, all’ombra di questa croce, vedete, una dopo l’altra, nascere le repubbliche.
Prima di tutto:
Dove nascono?
Presso le spiaggie.
Già al tempo di Solone era stato osservato che la gente di mare era la più indipendente fra gli uomini: siccome il deserto, il mare è un rifugio contro la tirannia. Quegli che si trova continuamente fra il cielo e l’acqua, fra l’immensità e l’infinito, pena molto a riconoscere un altro padrone fuori dell’infinito.
Così Venezia, che non è neppure una terra, ma solamente una riunione di isole, va innanzi a tutti con la bandiera della libertà in mano. Che cosa è il suo popolo? Alcune poche famiglie d’Aquileia e di Padova che fuggono dinanzi ad Attila, cioè dinanzi ad un barbaro della massiccia Asia. Sul principio ogni isola s’amministra da sè sola e come le piace, poi nel 697 si riuniscono tutte e scelgono un capo comune. Essa riconosce ancora la supremazia dell’impero d’Oriente; ma, verso il principio del decimo secolo, rompe i suo lacci, e sottomette le città marittime dell’Istria e della Dalmazia.
Dopo la regina dell’Adriatico viene Pisa. Fin dall’888 essa si governa da sè, si costituisce in repubblica, diventa una delle prime potenze commerciali dell’Italia; conquista una parte della Sardegna sugli Arabi, il resto su i Genovesi, riceve a titolo di feudo la Corsica dal papa, sottomette Palermo, le Baleari e l’isola d’Elba, si fa dare un quartiere privilegiato a Costantinopoli, a Tiro, a Laodicea, a Tripoli ed a Tolemaide; e perchè Pisa diminuisca, perchè scenda, perché cada, bisogna che, mentendo alla sua origine, adotti la causa imperiale, e si faccia ghibellina; eppure per ispegnere quella potente rinnegata, bisognò che quattro città guelfe si collegassero contro di lei: Pistoia, Lucca, Siena e Firenze.
Da parte sua, Genova, distesa a piè delle sue aride montagne, che, simili ad una muraglia, la difendono dalla Lombardia, altiera di possedere uno de’ più bei porti d’Europa, già al decimo secolo popolata di vascelli, isolata per la sua posizione dalla sede dell’impero, si dette al commercio ed alla marina con tutto quell’ardore avventuriero che doveva, quattro secoli più tardi, far discoprire un nuovo mondo ad uno dei suoi figli.
Saccheggiata da’ Saraceni nel 936, meno d’un secolo dopo essa si collegava per andare a riportar loro in Sardegna il ferro ed il fuoco che eglino eran venuti a portar in Liguria, talmente che Caffaro, l’autore della prima cronica cominciata nel 1101 e terminata nel 1164 ci fa sapere che, nel momento in cui scriveva, Genova aveva già magistrati supremi, che quei magistrati portavano il titolo di consoli, governavano alternativamente in numero di quattro o di sei, e restavano in carica tre o quattro anni.
Ecco in quanto al littorale.
Le città del centro d’Italia erano rimaste in ritardo. Lo spirito di libertà che aveva soffiato sulle spiagge era ben passato su Firenze, Milano, Perugia ed Arezzo; ma là esse non avevano il mare, cioè l’immensità dinanzi a loro. Esse non potevano lanciare i loro vascelli sul piano che il vento sconvolge; e, come i leoni di marmo che tengono una palla sotto i loro artigli, l’impero tendeva il suo artiglio su loro.
Occupiamoci specialmente di Firenze, poiché a questa città si riferiscono gli avvenimenti che siamo per raccontare.
Allorché Silla, che conquistava l’Italia a profitto di Roma, giunse nell’Etruria, sola contrada che fosse fin allora sfuggita alle colonie ed alle leggi agrarie, sola contrada in cui gli agricoltori fossero rimasti liberi, egli si fermò nell’intervallo di due massacri, in una incantevole vallata inaffiata da un fiume dal dolce nome, e vi fondò una città alla quale dette il nome, quel nome misterioso di Roma che i patrizi soli avevano il diritto di pronunziare: FLORA.
Di là, Fiorenza, donde Firenze.
Due dei tre grandi poeti che formano la trinità letteraria del mondo, sono nati su questa terra feconda dell’Etruria:
Virgilio a Mantova.
Dante a Firenze.
Di questa provincia ha detto Macchiavelli: Pare nata a risuscitare le cose morte.
La città di Silla, la patria futura dei Medici, di Boccaccio, di Macchiavelli, di Guicciardini, d’Amerigo Vespucci, di Cimabue, di Brunelleschi, d’Andrea del Sarto e di Leon Decimo, fu presa e ripresa da Totila e Narsete, e ruinata da tutti e due.
Carlomagno la restaurò nel 781.
Infine, e per preparare la sua libertà, Goffredo di Lorena marchese di Toscana, e sua moglie Beatrice morivano, il primo nel 1070, l’altra nel 1076, lasciando la contessa Matilde, loro figlia, erede del più gran feudo che abbia mai esistito in Italia.
Maritata due volte, la prima con Goffredo il giovine, la seconda con Guelfo di Baviera, si separò successivamente dai suoi due mariti, e morì senza eredi lasciando tutti i suoi beni alla Cattedra di S. Pietro.
Subito Firenze imitò Venezia, Pisa e Genova, e si eresse in repubblica servendo, alla sua volta, d’esempio a Siena, a Pistoia e ad Arezzo.
Era il tempo in cui l’Italia era divisa in due grandi fazioni:
La fazione guelfa.
La fazione ghibellina.
Diciamo in due parole quali principii rappresentavano queste due fazioni.
Nel 1075 il monaco Ildebrando era stato eletto papa, ed era salito sul trono della santa sede imponendosi il nome di Gregorio VII.
L’imperatore Enrico IV regnava allora in Alemagna.
Gregorio VII era un uomo di genio, che rappresentava il vero spirito della Chiesa moderna, cioè la Conquista.
Volse uno sguardo all’Europa, e vide spuntare dappertutto il popolo come il grano in aprile. Egli capì che spettava a lui, successore di S. Pietro, il raccogliere questa messe di libertà seminata dalla parola di Cristo, e per emancipare i popoli di cui era il rappresentante, egli si determinò ad emancipare il pontificato.
Per conseguenza nel 1076 pubblicò una decretale che proibiva ai suoi successori di sottomettere la loro nomina al potere temporale.
Da quel giorno la cattedra pontificia fu collocata al medesimo livello del trono dell’imperatore, e, se la nobiltà ebbe il suo Cesare, il popolo pure ebbe il suo.
Mai il caso, la fatalità o la Provvidenza non avean posto in faccia un dell’altro due avversarii di più tenace volontà.
Enrico IV rispose alla decretale con un rescritto, ed un ambasciatore recossi da parte sua a Roma per ordinare al supremo pontefice di deporre la tiara, ed ai cardinali di andare alla sua corte per fare un altro papa.
La guerra era dichiarata fra il potere spirituale ed il potere temporale.
Gregorio VII rispose come il re dell’Olimpo: lanciò il fulmine.
Enrico IV si fè beffe della scomunica.
In fatti le forze de’ due lottatori parevano bene disuguali.
Enrico III avea lasciato a suo figlio un patrimonio immenso; l’onnipotenza feudale in quella terra della feudalità, l’Alemagna, e in Italia una influenza che si credeva irresistibile, e la pretensione di fare, e per conseguenza, di disfare il papa.
Gregorio VII non aveva nulla, neppure Roma, neppure la Chiesa ch’egli s’era inimicata tutta quanta, decretando il celibato de’ preti, e, se non mutilandoli egli, lasciando che altri mutilasse coloro che avesser voluto conservare le loro mogli o le loro concubine.
Ma là dove gli mancava il potere visibile, egli era sostenuto da un potere invisibile: il sentimento pubblico.
Cacciato dappertutto, egli fuggiva da trionfatore, ma, all’ora dell’agonia, il trionfatore non ebbe un pietra ove posare il capo, e morì pronunziando queste parole che rassomigliano agli ultimi detti di Bruto: HO AMATA LA GIUSTIZIA ED HO ODIATA L’INIQUITÀ, ECCO PERCHÈ MUOIO NELL’ESILIO. Dilexi justitiam, et oditi iniquitatem, propterea morior in exilio.
Ma la scomunica portò i suoi frutti.
I principi alemanni si riunirono a Treveri, e siccome nella sua violenza Enrico IV aveva oltrepassato i suoi diritti, che si estendevano all’investitura, ma si fermavano alla nomina, lo minacciarono di deporlo con quello stesso diritto col quale lo avevano eletto, se a contare dal giorno di questa deliberazione facesse passare un anno senza essersi riconciliato con la santa sede.
Bisognò ubbidire. L’imperatore apparve in forma di supplicante sulle cime degli Appennini senza guardie, senza bandiera, senza esercito, vestito coll’abito di pellegrino, con la corda ai fianchi e a piedi nudi. Asti, Milano, Pavia, Cremona e Lodi lo vedevan passare, e considerando da vicino qual debole creatura era un imperatore senza scettro e senza spada, si sciolsero dal giuramento che le legava a lui.
Enrico IV, quasi solo, in camicia, a piedi scalzi, restò per tre giorni sulla neve, nel cortile del castello di Canossa. In capo a tre giorni il papa condiscese a riceverlo.
L’indomani le due grandi potenze che si dividevano il mondo, il papa e l’imperatore, si comunicavano alla stessa tavola. Gregorio pregava il Signore che cambiasse il pane in veleno s’egli era colpevole.
Il vicario d’Iddio se ne appellava al giudizio d’Iddio.
L’imperatore ritornò in Alemagna. Là dimenticò la promessa che aveva fatta, il pane consacrato che aveva diviso col suo nemico. Egli creò un antipapa, Clemente III; battè i principi alemanni che avevano minacciato di deporlo; ripassò da vincitore, questa volta, le Alpi, e prese Roma.
Ma allora la maledizione del Signore, come se avesse voluto vendicare il suo pontefice, gli si attaccò addosso. Il figlio suo maggiore, Corrado, ch’egli avea fatto dichiarare re dei Romani, si ribellò contro suo padre.
Enrico IV lo fe’ deporre, e gli dette per successore il suo secondo figlio.
Ma lo spirito di ribellione era rimasto nella famiglia del vizioso Enrico. Il secondo figlio, che si chiamava anch’esso Enrico, si ribellò alla sua volta, e più fortunato, o più sfortunato di suo fratello, fe’ prigioniero suo padre.
Allora i vescovi rimasti puri di simonia strapparono al vegliardo corona, scettro e vesti reali; suo figlio stesso alzò la mano su lui, e gli strappò questo grido non meno commovente di quello di Cesare:
“Appena lo vidi commosso fino al fondo del cuore per dolore ed affezione figliale, mi gettai a suoi piedi supplicandolo e scongiurandolo, in nome del suo Dio e della sua fede, della salute dell’anima sua, quand’anche i mei peccati avessero meritato che fossi punito dalla mano del Signore, d’astenersi, egli almeno, di macchiare, in questa occasione, l’anima sua, il suo onore, e il suo nome: poichè giammai nessuna legge divina ha fatto i figli vendicatori delle colpe dei padri loro.”
Questa preghiera, che avrebbe piegato il più accanito nemico, fu senza effetto sul cuore di un figlio. Spogliato di tutto come delle sue vesti, in preda al freddo e alla fame, l’imperatore fuggitivo andò a Spira, picchiò alla porta della chiesa della Vergine ch’egli aveva fatta fabbricare, dimandando d’esservi nudrito come chierico, appoggiandosi a ciò, ch’egli sapeva leggere e poteva cantare al leggio.
Ma i monaci lo cacciarono, minacciandolo e se ne andò a morire di miseria a Liegi, ove fu ricusata la sepoltura al suo cadavere, ed ove restò per cinque anni insepolto in una cantina.
Così questi due rappresentanti della grande lotta che ha diviso per sì lungo tempo, e che ancora dividerà per lungo tempo il mondo, morivano esiliati, lungi dal trono che avevano occupato, uno a Liegi, l’altro a Salerno.
Ebbene, da questa querela fra la corona e la tiara nacquero le due grandi fazioni che desolarono l’Italia. Quelli che si dichiararono per il papa, cioè per il popolo, presero il nome di Guelfi da Enrico il superbo duca di Sassonia, nipote di Guelfo II duca di Baviera. Quelli che seguirono il partito di Enrico IV, cioè della nobiltà, presero il nome di GHIBELLINI da Corrado figlio di Federigo di Hohenstauffen, duca di Svevia, e signore di Wiblinga.
Firenze, come le altre città, si divise in due parti, e come dice Dante, sono le querele di questi due partiti che tinsero in rosso le acque dell’Arbia, e resero color di porpora il suo bianco giglio.
Ed ora un’ultima parola su questa Italia figlia della Grecia, madre della Francia, alla quale dobbiamo tutto ciò che sappiamo della guerra e di politica.
L’Italia, nel momento in cui tutti gli altri popoli avevano un’architettura religiosa, aveva già (osserviamo questo fatto, che è significante rispetto allo spirito italiano) un’architettura civile.
PONTIFEX, parola di cui noi abbiam fatto pontefice, significa, parola a parola, facitore di ponti.
La maggior parte dei monumenti dell’Italia, quasi tutti i monumenti etruschi erano ponti, acquidotti, mausolei, templii. I templii fino al quindicesimo secolo non hanno tenuto che il secondo posto in Italia. La più grande spesa dei Pisani non fu fatta nè per il battisteri, nè per il duomo, ma per il camposanto, cioè per il cimitero.
I cittadini erano meglio alloggiati nelle loro tombe che Iddio nella sua chiesa.
Quando Galeazzo Sforza volle chiudere la volta del suo duomo gli architetti italiani non seppero eseguire il lavoro, e bisognò farne venire uno da Strasburgo.
Altra cosa da notare nella formazione della società italiana; è che l’individualità vi è più potente di quello che in qualunque altro popolo.
L’italiano, che non si dà, senza condizioni, neppure a Dio, si da anche meno all’uomo. Per ben tre secoli l’Italia presenta l’immagine della feudalità: mai però non è la feudalità propriamente detta. Essa ha castelli fortificati, corsieri magnificamente coperti di ferro, ma non ha, come la Francia, l’infeudazione dell’uomo all’uomo. L’eroismo italiano mira più su, e’ si consacra ad un’idea, e, quando si è consacrato ad un’idea, muore per lei, e muore ammirabilmente. Che era Enrico IV, al quale si consacrarono i Ghibellini? Un’idea. Che era Gregorio VII al quale si consacrarono i Guelfi? Una idea. Solamente, come abbiamo già detto, una rappresentava l’aristocrazia, e l’altra la democrazia.
II genio italiano e appassionato, ma severo; esso non ammette come il francese, l’avventurosa ricerca d’inutili perigli. Il suo poema cavalleresco è, come quello di Cervantes, una satira della cavalleria. Vi ha pure Torquato Tasso, genio malinconico: ma Torquato Tasso, passò per pazzo, e domandate agli Italiani quale preferiscono, se Orlando furioso o la Gerusalemme liberata, e nove su dieci vi risponderanno: l’Orlando furioso.
La stessa osservazione dee farsi per l’architettura e per la pittura. Pochi paesaggi, come poca poesia descrittiva. Dappertutto, anche nella campagna, la vita artificiale della città: tanto l’antica città etrusca o romana vive ancora nell’Italia moderna. Le muraglia innalzatele intorno dalla natura, i limiti tracciatile intorno da fiumi non navigabili non bastano ancora all’Italiano del centro. S’egli lascia il suo palazzo di marmo non è per andare a cercare l’ombra degli alberi, i tappeti di verdura, il mormorio di un ruscello libero nel suo corso, è per cambiare quel palazzo di marmo con ville e giardini sontuosi dove le acque sono rinchiuse in vasche: vedete alle due estremità dell’Italia, l’Isola Bella e la Villa d’Este. È un avanzo del carattere ciclopico quello che si trova, non solamente nelle mura di Volterra, ma nelle oscure masse del Palazzo Strozzi e del Palazzo Pitti; e se passando dall’architettura alla pittura, voi cercate bene, voi troverete la linea severa dell’arte etrusca in Giotto, in Raffaello, e perfino in Michelangelo. Nella scuola fiorentina, e per conseguenza, nella scuola romana, la figura dell’uomo affetta sempre la severità, e quasi l’aridità architettonica, e ciò si comprende in paesi, ove l’aratro è ancora quello stesso che ha descritto Virgilio, ove il bestiame, come al tempo in cui il poeta di Mantova guardava i grandi bovi che ruminavano, è ancora nudrito non di erba, ma di fogliame, e sta nelle chiuse per timore che offenda le vigne e gli ulivi.
Al nord solamente il colorito veneziano e la grazia lombarda contendono a rendere l’uomo più umano.
Tutto è dotto e matematico in Italia. Prima che ottenga il diritto di cittadinanza, una parola è dibattuta per anni interi, all’Accademia della Crusca, molto più pedante e difficile della nostra. La sua letteratura moderna manca di linguaggio famigliare, perchè i dotti non hanno permesso a molte parole di far parte della lingua. Si dice ancora oggi: tirare a scaglia, invece di tirare a mitraglia.
Sopratutto nella tattica militare è visibile, questo spirito sistematico. Fra le mani de’ condottieri italiani la guerra è diventata una scienza, di cui Montecuccoli ha posti i principii. In Italia i pittori e gli architetti sono, naturalmente, ingegneri civili e militari.
Leonardo da Vinci inventa macchine d’irrigazione e di dinamica; Michelangelo si rinchiude in Firenze, e la difende contro gli Spagnuoli; i due più grandi capitani del mondo dell’antichità e de’ tempi moderni appartengono all’Italia:
Cesare e Napoleone.
Si dice, per ispiegare le disgrazie e la caduta d’Italia, l’Italia è cambiata. Ciò è in alcuni un errore: hannovi uomini che sono semplici, anche nella calunnia. Per altri è una menzogna. Nessun paese, al contrario, ha cambiato meno dell’Italia. Ogni provincia è rimasta fedele al suo antico genio. Abbiamo già detto che Firenze era rimasta etrusca; Napoli è sempre greca; i napoletani sempre clamorosi, sempre ciarlieri, sempre portati per la musica. Essi non hanno dimenticato che al tempo di Nerone vi erano combattimenti musicali a Napoli. Le ruine del teatro ove egli ha cantato, esistono ancora. L’improvvisatore del Molo ha sempre folla, si chiami egli Stazio o Sgricci. I filosofi di Venezia sono i letterati ad aria aperta dell’antichità; gli anelli e le collane delle donne di Roma sono gli anelli e le collane ritrovati a Pompei, e lo spadino d’oro che portano nei capelli, è lo stesso col quale Fulvia trapassò la lingua di Cicerone e Poppea punse gli occhi d’Ottavia.
E Roma si dirà che ha cambiato? Si dirà che il suo popolo, grave e pensieroso involto nei suoi cenci, non sembri disceso dalla colonna traiana, e non sia il civis romanus? Dove avete veduto mai un romano fare un’opera servile? La sua moglie stessa ricuserebbe di ricucire il suo mantello lacerato. Egli discute nel Foro, giudica nel campo di Marte. Chi accomoda le strade? L’uomo degli Abruzzi. Chi porta le cose pesanti? Il bergamasco, siccome altra volta; il romano mendica, per dir cosi, da padrone. Dite ch’egli è rimasto feroce, sia pure; ma non dite che è diventato debole. In nessun paese il coltello ama meno il fodero di quel che fa a Roma.
Il suo grido di festa era una volta: I Cristiani ai leoni. Il suo grido di carnevale è adesso; Morte al signor abate. Morte alla bella principessa!
Finiamola dunque, una volta per tutte, con queste ridicole declamazioni sulla mollezza degli Italiani. L’abbiamo già detto:l’Italiano non s’infeuderà mai agli uomini, ma alle idee.
Prendiamo il più calunniato di tutti i popoli italiani, il napolitano. Esso fugge con Ferdinando, fugge con Murat, fugge con Francesco, e Francesco dice a suo figlio, il quale è morto da poco, e che amava molto cambiare le assise dei soldati: vestiti di bianco, vestiti di rosso, fuggiranno sempre.
Sì, fuggiranno sempre se seguono Ferdinando a Roma, Murat a Tolentino, Francesco negli Abruzzi; fuggiranno, perchè seguono un uomo, perchè non sanno la ragione per cui lo seguono; perchè quest’uomo non rappresenta per loro un’idea, o se la rappresenta, ne rappresenta una contraria ed antipatica.
Ma allorché i Napoletani si battono per una idea, guardate come si battono.
Championnet rimane tre giorni senza poter entrare in Napoli. Chi difende Napoli? I lazzaroni. Quali sono le armi dei difensori di Napoli? I sassi ed il bastone.
E quando Championnet è stato obbligato di ritirarsi innanzi ad un esercito di Calabresi, guidati da un cardinale; quando il salario del carnefice non paga più in ragione delle teste ma al mese, — tante sono le teste che cadono — guardate come si muore a Napoli!
*
* *
Ma intanto ritorniamo a Firenze, dove ci aspettano i nostri lettori.
1
Sulla piazza di Santa Croce
Se, durante il terzo anno del pontificato di Alessandro Farnese, annoverato nella cronologia dei sovrani pontefici, fra Clemente VII e Giulio III, sotto il nome di Paolo, stati fossero già inventati i palloni, e che il nostro lettore, verso le 11 della sera, si fosse innalzato con noi al disopra della città di Firenze, ecco ciò ch’egli avrebbe potuto vedere la notte del 2 al 3 gennaio 1537.
Dapprima, una massa oscura, rischiarata in due o tre posti soltanto, estendersi da S. Maria della Pace alla porta S. Gallo, e dalla Zecca al baluardo della Serpe.
Al mezzo di questa massa, divisa in due parti da un largo nastro argenteo, che altro non era che l’Arno, egli avrebbe distinto, come due leviatani, nuotanti l’uno presso l’altro, in mezzo a un’onda di case, i due più giganteschi monumenti di Firenze, usciti amendue dalle mani di Arnolfo di Lapo: la cattedrale di S. Maria del Fiore ed il palazzo della Signoria, oggi conosciuto sotto il nome di Palazzo Vecchio.
Presso la piazza di Santa Trinità, al canto della via dei Legnaiuoli e della via delle Cipolle, simile ad un immensa tomba ed immerso nella più profonda oscurità, egli avrebbe, alla sua massiccia architettura, riconosciuto il palazzo Strozzi, coi suoi anelli di ferro, le sue porte di ferro, le sue braccia di ferro.
I tre punti rischiarati, erano:
Primo la piazza del Duomo, ove i soldati del duca Alessandro, accozzaglia di birri d’ogni paese, particolarmente Spagnuoli e Alemanni, mangiavano allegramente alle porte dei caffè, come è costume a Firenze, il denaro di una gratificazione che loro era stata distribuita il giorno stesso, in nome del duca Alessandro, dal loro capo Alessandro Vitelli, figlio di Paolo Vitelli, che era stato ucciso due anni prima in una sommossa popolare. E bevendo e cantando insultavano ai pochi abitanti, cui gli affari o i piaceri — gli affari piuttosto, giacché i piaceri eran rari in quell’epoca, — astringevano a traversare in un senso o in un altro la piazza di S. Maria del Fiore.
Poi, la piccola strada del Garofano, presso Santa Maria Novella ove il cardinal Cibo dava una serenata a Laura di Feltro, cortigiana assai rinomata a quell’epoca, e ch’egli aveva, a prezzo d’oro, rapita a Francesco Pazzi: generosità che, del resto, non alterava menomamente la sua fortuna particolare, venendo quest’oro, dicevasi, dal duca Alessandro, cui in assenza del marito il compiacente cardinale aveva venduto sua cognata, la marchesa Cibo.
Infine, il terzo punto luminoso, al mezzo della massa scura, era la porta S. Ambrogio, ove alcuni banditi bruciavano e saccheggiavano la casa di Rucellai, uno degli esuli più illustri di quel tempo.
Dovunque altrove regnava silenzio ed oscurità. Però, se durante uno dei brevi istanti in cui la luna scorreva fra due nuvole, gli sguardi del nostro aereo osservatore si fossero abbassati verso la piazza di Santa Croce, egli avrebbe riconosciuto, al raggio fuggitivo del pallido astro, dapprima il convento, vasto paralellogramma che si apriva sulla piazza; poi, al lato della via del Diluvio, un pozzo, con una di quelle magnifiche armadure ferree, che, a quell’epoca, facevano sovente degli Oggetti più volgari un’opera d’arte. Questo pozzo infatti era un capriccio di Sergio Caporano, ricco cittadino di Firenze, che l’aveva fatto scavare davanti alla sua porta col doppio scopo di abbellimento e di utilità.
Infine, alla cima d’un gran muro a merli che si estendea dalla via dei Cocchi alla via Torta, un uomo stava seduto, le gambe penzoloni con una scala di corda a portata della sua mano, e ascoso nell’ombra dei grandi alberi verdi che s’innalzavano maestosamente al disopra del muro.
La sola luce che si osservasse su tutta la piazza era la lampada accesa dinanzi la nicchia di una Madonna sita sull’angolo del convento sorgente sulla via del Pepe.
Mezzanotte suonò lentamente all’orologio del Palazzo Vecchio.
L’uomo assiso sull’alto del muro contò le vibrazioni risuonanti dell’oriuolo con tale attenzione che provava come poco lo distraesse la sua fazione, senza dubbio forzata; quando un altr’uomo, facendo rintronare le pietre sotto i ferrati talloni dei suoi stivali e lo stropiccio dei suoi speroni, sboccò per la via del Diluvio e si avanzò verso il convento.
Stava per battere alla porta, quando il fazionario, posto all’alto del muro, che l’aveva seguito degli occhi con grande attenzione, ma che probabilmente non l’aveva riconosciuto che al suo decidersi d’entrar nel convento, fe’ sentire un fischio modulato in tal guisa che non eravi a dubitare fosse un segnale.
Difatti l’uomo si volse, ed il fischio venendo ripetuto colle stesse modulazioni, egli lasciò ricadere il picchiotto senza strepito, e si avanzò verso il sito ove l’appello erasi fatto sentire.
Ma la luna uscita un istante dalle nuvole, vi era rientrata, e fu piuttosto al mover della scala di corda che alla vista del compagno, ch’egli si orizzontò e riconobbe con chi aveva a fare.
Allora a voce bassa, e avvicinandosi le mani alla bocca: — Sei tu, Unghero? chiese egli.
— Io stesso, rispose l’interrogato.
— E perchè sei tu annidato come un gufo all’alto di quel muro, invece di essere col duca al convento di S. Croce?
Il duca non è al convento di S. Croce, rispose l’uomo additato sotto il nome dell’Unghero: egli è dalla marchesa Cibo.
— E perchè dalla marchesa, invece di esser al convento? domandò l’ultimo venuto.
— Aspetta ch’io ti racconti gli affari di monsignore d’alto al basso d’un muro di quindici piedi!… Sali qui, e saprai ciò che desideri.
L’invito era fatto appena che, quegli cui era diretto s’aggrappava alla scala di corda, e con un’agilità indicante l’abitudine ch’egli avea a tal genere d’esercizio, giungeva all’altezza dell’Unghero.
— Che è dunque accaduto? chies’egli.
— Una cosa semplicissima. = La morte di una religiosa aveva messo tutta la comunità in iscompiglio. Fra Leonardo era là, talché la buona abbadessa ringraziando monsignore dell’onore che aveva avuto intenzione di farle, lo pregò a tornar un altro giorno, o piuttosto un’altra notte.
— E sua altezza se ne accontentò?
— Sua altezza volea far mettere alla porta e la defunta e il monaco che la vegliava; ma, da buon cattolico ch’io mi sono, gli susurrai all’orecchio che meglio era lasciar tranquille le religiose e far una sorpresa alla bella marchesa Cibo. — «Di fatto sta bene, mi rispose egli; me l’avea dimenticata quella povera marchesa… » E siccome non eravi che la piazza da attraversare, egli attraversò la piazza.
— Ma il duca non si dilettò a montare colla tua scala? — No, in fede mia! Il marchese è assente, quindi egli entrò bravamente per la porta. Lorenzino, amando meglio due sicurtà che una sola, m’ha posto qui, in caso d’accidente.
— A questo tratto lo riconosco, il nostro favorito… sempre prudente!…
— Zitto; Jacopo! disse l’Unghero.
Infatti, si sentiva un rumore di passi dal lato della via dei Malcontenti.
Non solo Jacopo tacque, ma si rimise la maschera.
Il rumore era cagionato da due uomini avviluppati in larghi mantelli che apparvero poco dopo al lato del convento, passarono senza arrestarsi dinanzi le vie del Pepe e della Fogna, e traversarono diagonalmente la piazza per entrare nella via Torta. — Suona con precauzione, disse all’altro uno dei due uomini, affinchè i vicini non ci sentano. — È inutile, disse l’altro, ho la chiave. — Allora sta bene, disse il primo che aveva parlato.
Ed ambedue, senza vedere nè Jacopo nè l’Unghero, entrarono nella via Torta, ove disparvero. — Che vuol dir ciò? disse l’Unghero. — Ciò vuol dire, rispose Jacopo, che quei due onesti borghesi rientrano alle loro case, e che uno di loro, uomo di precauzione, ha la chiave della sua.
— Sì ma quale ne è la casa? Scendi e guarda un po’ ove essi entrano. Ho un sospetto.
— Quale?
— Scendi tosto, ti dico, ed osserva.
Iacopo si lasciò sdrucciolare lungo la scala sparve per la via Torta, e dopo un istante tornò tutto sconvolto.
— Ehi! l’Unghero!… diss’egli a voce bassa.
— Ebbene?
— Non ti sei ingannato.
— In qual modo?
— Sono entrati per la prima porta a sinistra.
— Al palazzo Cibo, dunque?
— Giusto, al palazzo Cibo.
— Der Teufel! mormorò l’Unghero.
— Il duca è solo? chiese Jacopo.
— Eh no! Egli è con quel suo dannato cugino, te l’ho già detto.
— Eh! Ti ho rinnovato l’inchiesta perchè, essere con lui o solo è tutt’uno.
— T’inganni… è peggio.
— Se tu andassi a prevenirlo?
— Sì, e ch’io lo sturbi forse inutilmente, è vero?… Sarei il benvenuto!…
— È egli armato?
— Ha il suo giaco di maglia e la sua spada.
— Bene, allora! il duca suol dire che addobbato in tal guisa vale quattr’uomini, e se non erro, essi non sono che due.
— Due soltanto
— Sali qui ch’io ti dica una cosa.
Jacopo riprese il suo posto presso l’Unghero.
— Quale? chiest’egli.
L’Unghero si guardò attorno ascoltando colla più viva attenzione prima di rispondergli. Poi, a voce sì bassa che appena il compagno poteva intenderlo:
— Eh! se foss’egli che l’avesse denunziato?
— Lorenzino!… gridò Jacopo.
— Vuoi tu tacere, bestiaccia?
— Oh! ma egli è che tu di’ certe cose…
— Facciamo che io non abbia detto nulla
— No, al contrario… facciam che tu abbia parlato, ma spiegami le tue parole.
— Dunque…
L’Unghero s’interruppe ad un tratto, tendendo il collo verso la casa ove erano entrati i due notturni viandanti.
Il suo movimento fu tanto espressivo, che il suo compagno non pensò più a chiedere il seguito della frase, e tese il collo al pari di lui.
— All’erta, all’erta! gridò ad un tratto l’Unghero.
— Che c’è?…
— Si battono, si battono…
— Sì, sento il franger dei ferri.
— Assalgono monsignore… Tu, Jacopo, per la porta della via Torta… troverai una lima al basso della scala… Io da qui… State saldo, monsignore… state saldo… eccomi…
E mentre Jacopo scendeva, e armato della lima si slanciava nella via Torta, l’Unghero, traendo la spada, spariva nel giardino.
Al momento istesso un uomo mascherato appariva al sommo del muro, rasente i merli, dava tempo all’Unghero di allontanarsi, scendeva quindi rapidamente la scala, correva al pozzo di Sergio Caporano, sortiva dal suo mantello una cotta di maglia che gettava nel pozzo, e tornava appiè del muro ascoltando con ansietà.
Dopo qualche secondo, un grido come di persona ferita a morte si fe’ sentire… poi il frangere delle spade cessò, e tutto rientrò nel silenzio.
— L’uno dei due è morto, disse l’uomo mascherato; ma quale?…
L’incertezza fu di breve durata, chè, appena aveva egli pronunziato l’ultima parola, la testa, poi le spalle, poi il busto d’un uomo apparvero all’altro lato del muro. Quest’uomo tenea la spada fra i denti. Visto il suo compagno che lo attendeva appiè della scala, si fermò, tolse la spada dalla bocca, la scosse per farne gocciolare il sangue, poi incrociate le braccia sul petto:
— Per Dio! diss’egli con voce tanto calma che parea impossibile fosse quella d’uomo che avea corso pericolo di morte, sei un famoso compagno, Lorenzino!… Due uomini ne assalgono: non solo io debbo fare la mia bisogna, ma anche la tua…
— Oh! monsignore, io credeva che la fosse cosa convenuta fra noi, rispose Lorenzino, che io sarei il socio dei vostri piaceri, delle vostre feste, dei vostri amori; ma delle vostre pugne, no… dei vostri colpi di spada, no, no!… Che volete!… bisogna godermi quale io mi sono, o lasciarmi ad altri…
— Poltrone! disse il duca accavalciando il muro e cominciando a scendere la scala.
— Sì, poltrone, rispose Lorenzino, poltrone quanto vorrete… Ho almeno sui miei pari il merito di non nascondere la mia vigliaccheria. D’altra parte, soggiunse ridendo, ho io una cotta di maglia come la vostra, per darmi coraggio?
Il duca portò vivamente le mani al petto, e le rosse sue sopracciglia si aggrottarono.
— Mi fai ricordare, diss’egli, ch’io l’ho lasciata nella camera della marchesa.
E, ciò dicendo, fece un passo per risalire la scala; ma Lorenzino lo rattenne pel lembo del suo mantello.
— Invero, diss’egli, bisogna che vostra altezza abbia il diavolo in corpo!… Che! per una misera cotta di maglia vorreste esporvi?
— La ne vale la pena, disse il Duca cedendo tuttavia a Lorenzino; non ne troverò più una che mi si adatti al par di quella; la si era talmente assestata al mio corpo, ch’io non la sentiva più d’una giubba di seta o di zimbellino.
— La marchesa ve la rimanderà, o porterà ella stessa. Sapete ch’ella sarà assai bella, la vostra marchesa, cogli abiti di lutto?.. Quale dei due avete voi ucciso? Spero sarà il marchese…
— Credo averli uccisi entrambi.
— Anche il secondo?
Il duca guardò la sua spada rossa fino al mezzo della lama.
— O bisogna, continuò, ch’egli abbia l’anima incavicchiata nel corpo. — Ma aspetta… ecco l’Unghero che ce ne saprà dare notizia.
Di fatti, l’Unghero appariva a sua volta alla cresta del muro.
— Ebbene? chiese il duca.
— Ebbene, monsignore, uno è morto e l’altro val poco più… Vostra altezza vuole ch’io lo finisca?
— No… Il loro silenzio nell’assalirci mi dà qualche sospetto; son certo che l’uno è il marchese Cibo, ma credo aver conosciuto nell’altro Selvaggio Aldobrandini, l’esule di Firenze. Se fosse lui, questo ritorno non sarebbe più un accidente, ma potrebbe ben essere una cospirazione. Tu avvertirai il bargello di ciò che e accaduto, e gli ordinerai in nome mio di arrestare il ferito.
— Adesso, monsignore, disse Lorenzino, parmi potremmo riprendere la via Larga. Un uomo ucciso, l’altro ferito nell’istessa notte credo sia sufficiente.
— Tanto più, disse il duca, che non abbiam nulla di buono a far qui.
E il duca già si dirigeva alla via del Diluvio, quando il secondo sbirro che l’aveva raggiunto, lo arrestò.
— Non da questa parte, monsignore; sento il passo di molti uomini.
— Anch’io, disse l’Unghero.
E condusse il duca verso la via dei Cocchi.
— Oh! oh! disse il duca, anche tu hai paura, l’Unghero?
— Qualche volta, rispose lo sbirro. E voi, monsignore?
— Io? mai, rispose il duca Alessandro. E tu, Lorenzino?
— Io? sempre, rispose costui.
E i quattro uomini, il duca Alessandro alla testa, scomparvero nella via oscura che conduceva alla piazza del gran Duca.
2
Lo sbirro Michele del Tavolaccino
I due accoliti del duca Alessandro non si erano ingannati; tre uomini si avvicinavano infatti per la piazza di S. Croce: solo non venivano per la via del Diluvio, ma per quella della Fogna, che le era parallela.
Senza dubbio, questi tre uomini, avviluppati nei loro larghi mantelli, avevano motivi per non voler essere riconosciuti, giacché l’un di essi sporse il capo all’angolo della via, esaminò attentamente la piazza, e non v’entrò che allorquando fu ben sicuro che la era deserta.
Era il più attempato; camminava alla testa degli altri, che parevano uomini di condizione secondaria. Difatti, si fu con un tuono di superiorità ben distinta ch’egli disse, interrogando l’uomo che lo seguiva più da vicino:
— Parmi, Michele, che vi fosse gente sulla piazza.
— Ciò non mi sorprenderebbe, eccellenza, rispose quegli cui si era diretto: mezzanotte suonava appena quando noi entravamo per la porta S. Gallo, d’altra parte, il romore era forse cagionato da coloro cui vostra eccellenza avea dato convegno.
— Sì, ciò è possibile, rispose il vecchio. Fa il giro per la via Torta e ritorna per quella dei Cocchi, e osserva, passando, se vedi chiarore nel palazzo Cibo. Ti aspetterò nascosto nell’ombra di questo muro.
Michele si allontanò col silenzio e la prestezza dell’uomo abituato all’obbedienza passiva, e sparve al canto della via Torta.
Frattanto il vecchio, che parea dalla fisonomia un uomo ragguardevole, fece segno all’altro che lo seguiva, il quale obbedì colla rapidità del primo.
— Matteo, gli disse, recati a mia sorella in via degli Alfani; annunziale il mio ritorno, e sappi se mia figlia è sempre al suo fianco. Se, per qualsiasi motivo, ella avesse dovuto separarsene, ti dica ove trovasi sua nipote.
— La sorella di vostra eccellenza è una dama prudente, rispose il servo. Vorrà ella credermi e acconsentire a rispondermi senza una vostra parola?
— Hai ragione, disse il vecchio; aspetta.
E avvicinatosi alla nicchia della Madonna, davanti la quale era accesa una lampada, scrisse qualche parola a lapis sur una pagina del suo taccuino, la stracciò e consegnò a Matteo.
Se qualcuno fosse stato presente, avrebbe veduto che colui che scriveva era un uomo dai 60 ai 65 anni, robusto, di alta statura, mirabilmente conservato, cogli occhi neri pieni di fuoco, i capelli e la barba appena grigi.
Matteo prese la via del Pepe, il vecchio tornò a celarsi all’ombra del muro nella cui cupa verzura sparve interamente.
Poco dopo, un uomo che parea giovine e che sboccava dal Borgo dei Greci, traversò a sua volta diagonalmente la piazza, e andò a bussare tre colpi alla porta di una piccola casa situata fra la via del Diluvio e la via della Fogna; poi, dopo aver picchiati i tre colpi alla porta, battè tre volte colle sue mani.
A questo doppio segnale, una finestra si aprì: una testa di donna vi si affacciò pronunziando a voce bassa qualche parola, cui venne risposto egualmente sotto voce; poi fu aperta la porta colle stesse precauzioni, ed il giovine si slanciò in casa, richiudendo la porta.
Il vecchio avea seguita collo sguardo questa scena amorosa, ed i suoi occhi eran rimasti macchinalmente fissi alla porta, quando lo riscosse una voce che mormoravagli all’orecchio il suo nome.
Si volse rapidamente; l’uomo che lo avea desto dalla preoccupazione era Michele.
— Tardasti molto, gli disse: hai tu qualche notizia almeno?
— Una sola, ma terribile!
— Parla; sai che posso ascoltar tutto.
— Rientrando a casa con Selvaggio Aldobrandini, il marchese Cibo vi ha sorpreso il duca Alessandro. Il duca ha ucciso il marchese e gravemente ferito Selvaggio.
— Da chi lo hai saputo? chiese il vecchio.
— Poco lungi dalla porta del marchese vidi un uomo che si trascinava a fatica, appoggiandosi al muro, me gli avvicinai; allora egli si lasciò ricadere, dicendo: «Se siete un nemico finite di uccidermi: se amico, aiutatemi. Sono Selvaggio Aldobrandini»
— E tu?
— Gli dissi chi io mi fossi e a chi apparteneva; allora accettò il mio braccio per recarsi da messer Bernardo Corsi; là giunto, rimandommi a voi, perchè vi dicessi di fuggire.
— E perchè fuggire? chiese il vecchio. — Perchè ei non può più riceverci in sua casa, costretto com’è egli stesso a chiedere asilo ad un altro.
— Sta bene, Michele. Sonvi a Firenze, senza contarmi, trentanove Strozzi, quindi trentanove porte che mi si apriranno; e fossi anche costretto a ritirarmi nel mio proprio palazzo, egli è forte abbastanza per sostenervi un assedio contro tutte le truppe del duca Alessandro.
— Più la casa sarà umile, monsignore, più vi sarete al sicuro. Ricordate che il vostro nome è Filippo Strozzi, e che la vostra testa val dieci mila fiorini d’oro.
— Hai ragione, Michele.
— Dunque, vostra eccellenza resta?
— Sì; ma tu che non hai i miei motivi per rimanere, tu puoi partire. La sentinella che ci ha lasciati passare alla porta S. Gallo non dev’essere ancora rilevata, quindi ti è facile il ritirarti. Va dunque, Michele, io ti sciolgo dalla tua parola.
Ma quegli cui parlava Filippo Strozzi scosse la testa con aria tetra.
— Monsignore, diss’egli, io credeva esser meglio conosciuto da vostra eccellenza. Se voi avete delle ragioni per restare a Firenze, io ne ho per non lasciarla. Necessità è che la cosa per cui sono venuto si compia.
Poi con voce sorda, e come parlando a se stesso:
— D’altra parte, se volessi fuggire, seguitò egli stendendo la mano verso Santa Croce, uscirebbe da quel convento una voce che mi tratterrebbe, gridando che io sono un vile. Grazie dunque della vostra offerta, monsignore, ma se voi foste partito, io vi avrei chiesto di rimanere.
Filippo Strozzi, avesse o no inteso Michele, non rispose; parea immerso in profonde meditazioni.
Di fatti, la sua posizione doveva dargli a pensare. Filippo Strozzi, dopo aver accettata la nomina del duca Alessandro senza opposizione, si era più tardi, quando avea meglio conosciuto il protetto di Clemente VII e il genero di Carlo V, allontanato da lui. Poi, in esilio, grazie allo sue immense ricchezze e all’alta sua posizione, si era naturalmente trovato a capo dei proscritti. Avea fatto accordo col partito repubblicano, ed ora, per adempire alle sue convenzioni, ribellando tutti i guelfi rimasti a Firenze, era rientrato in città col marchese Cibo e Selvaggio Aldobrandini, i quali se ne erano espulsi volontariamente.
Ora, chiudendosi per lui le due case, in cui avea contato trovare asilo, ove recarsi? Un capo di parte non appartiene a sé solo. Cadendo egli nelle mani del duca, i repubblicani erano decapitati, giacché lo Strozzi non ne era solo il braccio, ma la testa.
Stava egli immerso nelle sue riflessioni, quando la porta del convento di Santa Croce s’aperse dando il passo ad un monaco dell’ordine di san Domenico, il quale, tornando dal suo convento di S. Marco, traversò la piazza e venne diritto all’angolo della via Torta, ove trovavansi Filippo Strozzi e Michele del Tavolaccino.
Al rumore della porta del convento e dei passi del monaco, Filippo Strozzi rialzò il capo.
— Chi è quel monaco? chiese a Michele.
— Un Domenicano, eccellenza.
— È necessario ch’io gli parli.
— Anch’io dovrei interrogarlo.
Come una statua di pietra, Strozzi si staccò dal muro e avanzossi verso il monaco, che, vedendo avvicinarsegli un uomo, si fermò.
— Perdono, padre mio, gli disse Filippo, ma, se non erro, voi siete del convento di S. Marco?
— Sì figlio, rispose il frate.
— Avete conosciuto Savonarola?
— Sono suo discepolo.
— Vi è cara la sua memoria?
— La venero come quella dei santi martiri.
— Padre, io son proscritto: l’asilo sul quale io fidava mi è interdetto: la mia testa vai diecimila fiorini d’oro; mi chiamo Filippo Strozzi. Padre, in nome di Savonarola, io vi chiedo ospitalità.
— Non ho che la mia cella, che è quella d’un vero monaco: fratello, è vostra.
— Padre, ricordatelo, io arreco con me la proscrizione senza dubbio, la morte forse.
— Saranno le benvenute, condotte dal dovere.
— Quindi, padre mio…
— Ve l’ho detto, la mia cella è la vostra. Quivi io vi precedo e vi attendo.
— Questa notte stessa sarò alla porta del convento.
— Chiederete fra Leonardo.
I due uomini si strinsero la mano.
Fra Leonardo stava per allontanarsi, quando Michele lo fermò a sua volta.
— Scusate, padre, gli disse.
— Che volete, figlio mio? chiese il monaco.
Michele esitò, passò la sua mano sulla fronte per asciugarne il sudore, poi facendo uno sforzo:
— Fra le religiose che abitano il convento, non ve n’è una che si chiama?…
— Avete dimenticato il suo nome? chiese il frate.
— Michele sorrise melanconicamente.
— Obblierei più facilmente il mio! diss’egli. Che si chiama… Nella?…
— Che eravate della povera fanciulla, figlio mio? domandò il monaco. Suo parente, suo amico, o soltanto uno straniero?
— Era…
Michele raccolse tutto il suo coraggio.
— Era suo fratello, diss’egli.
— Allora, figlio mio, soggiunse il frate con voce solenne e piena di dolcezza, pregate per vostra sorella, che è in cielo…
— Morta! gridò Michele con voce strozzata.
— Stamane, continuò fra Leonardo.
Michele chinò il capo, come se il colpo fosse stato di troppo superiore alle sue forze: poco dopo scuotendosi:
— Signore, Signore, esclamò, voi siete grande e misericordioso: dopo l’agitazione della terra, la tranquillità del cielo; dopo il dolore d’un giorno, la beatitudine eterna! — Potrò io veder Nella, padre mio?…
— Il suo corpo verrà portato stanotte al convento della Santissima Annunziata, ove ella ha chiesto di essere sepolta. Potrete vederla quando uscirà dal convento.
— E credete voi che ne sia vicino l’istante?
— Vedete, eccola.
— Grazie.
Michele strinse la mano del monaco, la baciò. Questi, vólto un ultimo sguardo a Strozzi, come per ripetergli che lo attendeva, si allontanò per la via Torta.
Come lo aveva detto fra Leonardo, le porte del convento di S. Croce si aprivano, e una lunga fila di penitenti portando le torcie appariva sotto le volte. Quattro di essi marciando per le due schiere sinistre e luminose sostenevano sulle loro spalle il corpo di una giovinetta da diciannove ai venti anni, coricata sur un catafalco seminato di fiori; la sua fronte era coronata di rose bianche, ed il suo viso scoperto indicava, malgrado il suo pallore, ch’ella era stata d’una suprema bellezza.
Al suo apparire, Michele trasse un gemito così profondo e così doloroso, che il corteggio si arrestò.
— Fratelli, disse Michele, una preghiera.
Successe un profondo silenzio, che indicava insieme l’interesse e lo stupore.
— Deponete qui un istante il corpo di quella fanciulla. O miei fratelli! egli racchiude il solo cuore che mi abbia amato mai; e vorrei, ora che ha cessato di battere, ringraziarlo un’ultima volta del suo amore.
I penitenti deposero la bara alla porta del convento e si scostarono, perchè Michele potesse avvicinarla.
Egli si avanzò e inginocchiossi religiosamente, poi curvandosi verso la defunta:
— Non è egli vero, povera fanciulla, che la tua agonia fu meno dolorosa della tua esistenza? Non è egli vero che la morte, tanto temuta dagli uni, non è per gli altri che una pallida e fredda amica, che come una buona madre ci culla fra le sue braccia, e ci posa dolcemente su quel letto eterno, che si chiama la tomba? Non è egli vero che, invece di piangerti, io devo ringraziare il Signore, che a sé ti richiama?… Addio dunque, Nella! Addio dunque per l’ultima volta. — Io ti amava, povera figlia della terra! ti amo sempre bell’angelo del cielo! — Addio Nella!… Viva o morta, io era venuto per vendicarti. Dormi in pace, non ti farò aspettare la mia vendetta!
Allora, curvandosi sempre più sul cadavere, Michele posò un bacio su quella fronte di ghiaccio; poi rialzandosi:
— Ed ora, fratelli, grazie; voi potete rendere questo bel giglio alla terra di dove è sbocciato. Tutto è finito, ed io rimetto il corpo e l’anima nelle mani del Signore.
E le braccia incrocicchiate sul petto, la testa bassa, Michele del Tavolaccino andò ad inginocchiarsi dinanzi la Madonna.
I penitenti ricaricarono sulle loro spalle il corpo della fanciulla, e il funebre corteggio si allontanò per la via del Diluvio, lasciando un’altra volta la piazza immersa nel silenzio e nell’oscurità, se non deserta.
Tre persone vi si trovavano ancora: Filippo Strozzi, appoggiato agli ornamenti ferrei del pozzo, Michele inginocchiato davanti la Madonna, e Matteo, che attirato da quello strano spettacolo, si era fermato alla porta del convento dimentico un istante della missione di cui il suo signore lo avea incaricato.
3
Filippo Strozzi
Anche Filippo Strozzi pareva avesse obbliata cotesta missione, tanto lo aveva commosso la scena accaduta.
Di fatto, quando Matteo, dopo aver collo sguardo scandagliate le tenebre, ebbe veduta una forma umana, che riconobbe per quella del suo padrone, e che gli si avvicinò, non fu di sua figlia che parlò dapprima Filippo Strozzi, no…
— Conosci tu quella monaca? richiese.
— Se la conosco?… Sì, eccellenza, rispose Matteo con un sospiro; è la figlia del mio compare, il vecchio Nicola Lapo, lo scardassiere di lana. Rammento che or fa un anno, corse voce a Firenze che il duca Alessandro l’avea fatta rapire, e che qualche giorno dopo la sua scomparsa ell’era entrata in un convento. Dopo d’allora, a ciò che dicevami ora uno dei frati, ella non cessò dal piangere e dal pregare, e stamane è morta come una santa.
— Ancora una vittima che griderà vendetta contro te al trono del Signore, duca Alessandro!… Faccia Dio che sia l’ultima!
Il vecchio fe’ il segno della croce, scosse il capo come
per allontanarne i pensieri, poi volgendosi verso Matteo con un accento più dolce e quasi sorridente :
— Ebbene, Matteo, diss’egli, hai tu veduto mia sorella?
— Sì, eccellenza.
— E che ti ha ella detto?… Andiamo, parla… mia figlia sta bene?…
— Essa lo spera almeno…
— Che! essa lo spera?
— Come vostra eccellenza avea dubitato, ella non ha potuto tener la signora Luisa al suo fianco: quando vi vedrà, ve ne dirà il motivo.
— Ma allora, Luisa?
— È nascosta in questa piazza stessa, in una piccola casa ch’ella abita colla vecchia Assunta, e dove vostra sorella non ha osato venirla a vedere da quindici giorni, per tema di essere spiata.
— E questa casa?… domandò Filippo Strozzi con inquietudine.
— È posta tra la via della Fogna e la via del Diluvio.
— Fra la via della Fogna e la via del Diluvio!… esclamò il vecchio, ricordando che appunto in quella casa era entrato mezz’ora prima un uomo. T’inganni, Matteo, non e quello l’indirizzo che mia sorella ti ha dato!…
— Perdono, monsignore… è proprio quello datomi dalla signora Capponi; per tema ch’io facessi errore, me lo ha dato anche per iscritto.
— E mia figlia abita là, sola? chiese il vecchio Strozzi asciugandosi il sudore della fronte.
— Sola colla vecchia Assunta.
— Senz’altra donna che quella?
— Nessuna.
— Oh! mio Dio!…
E sentendo piegarsi le gambe, il vecchio si aggrappò agli ornati ferrei del pozzo.
— Che avete, in nome di Dio!… Che avete signor Filippo?
Questa inchiesta richiamò a sè il vecchio.
— Nulla, diss’egli, nulla, Matteo… Va ad attendermi sulla piazza di S. Marco, di fronte al convento dei Domenicani; fra un quarto d’ora ti avrò raggiunto.
— Tuttavia, eccellenza… obbiettò il servo, che intendeva come qualche cosa di straordinario agitasse il suo signore.
— Va, Matteo, va!… ripetè Filippo con tuono tanto dolce e tanto triste, che Matteo si allontanò senza più opporsi.
Allora Filippo Strozzi si avanzò verso la casa d’un passo grave e silenzioso come quello d’un fantasma, deciso di atterrare la porta se la non si apriva; ma mentre egli stendeva la mano verso il martello, la porta si aprì come per incanto, ed un uomo mascherato apparve sulla soglia.
Prima che quest’uomo avesse avuto tempo d’indietreggiare, la mano di Filippo Strozzi lo avea stretto, e queste due interrogazioni s’incrociavano:
— Che vuoi tu? chiese l’uomo mascherato.
— Chi sei? domandò Filippo Strozzi.
— Che t’importa? rispose l’uomo mascherato tentando svincolarsi dalla mano del vecchio.
Ma questi, con uno sforzo violento, traendolo nella via:
— Ciò m’importa talmente, gridò, che voglio saperlo all’istante.
E d’un movimento tanto rapido che il suo avversario non potè né prevederlo, nè opporvisi, gli strappò la maschera.
Come per secondare il desiderio di quel padre oltraggiato, un raggio di luna filtrò fra due nuvole e rischiarò la piazza di S. Croce.
Il giovane ed il vecchio si riconobbero gettando ambedue un’esclamazione di sorpresa.
— Filippo Strozzi! gridò il giovane.
— Lorenzino! gridò il vecchio.
— Filippo Strozzi! ripetè il giovane con un accento di terrore, che non ebbe tempo a comprimere. Disgraziato! A che vieni in Firenze?… Ignori tu dunque che il tuo capo è messo al prezzo di diecimila fiorini?…
— Vengo per domandar conto al duca della libertà di Firenze, a te, dell’onore di mia figlia…
— Se tu non fossi venuto che per l’ultima cagione, sarebbe cosa facile l’accomodarla, caro zio, giacché l’onore di tua figlia è illeso come se sua madre gelosa l’avesse vegliata dal fondo del suo sepolcro.
— Lorenzino esce a due ore del mattino dalla casa di mia figlia, e Lorenzino dice che mia figlia è degna ancora di suo padre? Lorenzino mente.
— Povero vecchio, cui la sventura e l’esilio hanno affievolita la memoria! disse il giovine con un inesprimibile accento di tristezza e di motteggio. Ma hai tu dunque obliata una cosa, Strozzi?… La è che tu hai sposata Giulia Soderini, la sorella di mia madre; che Luisa ed io eravam destinati l’uno per l’altra; che tua moglie, quando la santa donna viveva, non faceva differenza alcuna fra me e i tuoi due figli Pietro e Tommaso. Come dunque ti sorprende che io abbia continuato ad amare Luisa, e che Luisa abbia seguitato ad amarmi, poiché il nostro amore era da te stesso approvato?
Strozzi si passò la mano sulla fronte.
— È vero, mormorò egli, io aveva obliato tutto ciò, ma facendo uno sforzo, mi ricorderò tutto… tutto, non temere. Ecco, la memoria mi ritorna… Ascolta… sì, tu sei mio nipote; sì, noi non facevamo differenza alcuna fra te e i due nostri figli. Ebbene, Lorenzino, il giorno promesso è giunto; tu hai venticinque anni, e Luisa ne ha sedici. Proscritto come io mi sono, isolata come ella è, abbisogna qualcuno che l’ami insieme di un amore di padre e di sposo… Il solo bene che non m’abbiano ancora rapito nè la tirannia nè l’esilio, e il solo angelo che preghi ancora per me sulla terra, è lei… Ebbene, il mio solo angelo, e la mia sola speranza, il mio solo bene, io ti do tutto ciò. Lorenzino, io povero proscritto… Sposa mia figlia, rendila felice, e qualunque sia il prezzo del tesoro ch’io ti avrò dato, non solo crederò che noi siamo pari, ma mi dirò anche tuo debitore…
Lorenzino aveva ascoltato con visibile emozione tutto ciò che il vecchio aveagli detto. Al sentir Filippo Strozzi offrirgli la mano di sua figlia, egli aveva indietreggiato d’un passo, e barcollante, s’era appoggiato a uno dei pilastri sostenenti il balcone. Infine, allorché il vecchio ebbe finito di parlare, egli stette un istante in silenzio, come se le parole ch’egli aveva a pronunziare non potessero uscirgli di gola; poi, con voce sorda, rispose:
— Ciò che mi proponi, Strozzi, lo sai ch’era possibile altra volta, lo sarà forse in avvenire, ma è impossibile quest’oggi.
— Oh! io sapeva anticipatamente la tua risposta, Lorenzino!… E perchè ciò non è possibile? di’… Dio mi dà la pazienza di ascoltarti… e ti ascolto…
— Come vuoi che io, il favorito del duca Alessandro, io, il confidente del duca Alessandro, io, l’amico del duca Alessandro, sposi appunto la figlia dell’uomo che, da tre anni, cospira apertamente contro di lui; che da sei anni quasi ch’egli è sul trono ha tentato due volte di farlo assassinare; e che, esule da Firenze, la testa messa a prezzo, vi rientra stasera per tentare, probabilmente, qualche follia dello stesso genere?… Giacché io chiamo follia, intendi bene, Filippo, qualunque tentativo di cospirazione che non riesce; riesci, e ciò ch’io chiamava follia, chiamerò saggezza… Sposare tua figlia! Sposar Luisa Strozzi!… Oh, ma bisognerebbe ch’io fossi insensato!…
— O mio Dio! mio Dio! gridò il vecchio, a che mi hai tu riserbato!.. E tuttavia andrò fino al fine, Lorenzino: or fa un istante tu hai invocata la mia memoria, e, lo vedesti, la mia memoria è stata fedele: lascia che a mia volta io invochi la tua.
— Strozzi, Strozzi, ti prevengo che ho obliate molte cose…
— Oh! gridò il vecchio, ve ne hanno di quelle che tu devi ricordare. Sono i consigli che, giovinetto, tu davi alla patria.
— Va, Filippo, ti risponderò fra poco.
— Lorenzino, continuò il vecchio, sei tu mutato in tal guisa, che non vi sia in te più nulla di ciò che eravi una volta? Che il presente abbia così presto dileguate le promesse del passato? È egli possibile che l’entusiasta di Savonarola sia divenuto l’adulatore, il cortigiano d’un bastardo dei Medici?
— Va, va, ripetè Lorenzino, io studio ognuna delle tue parole per rispondervi.
— E egli possibile, continuò Filippo, che colui che a diciannove anni facea una tragedia sul Bruto, cinque anni dopo reciti alla Corte di Nerone la parte di Narciso?
— O d’Ottone…
— No, ciò è impossibile, non è egli vero?
— No, no, Filippo, gridò il giovine con amarezza, tutto ciò è vero… Ma, poiché siamo a ricordare il passato, alla mia volta… — Chi ha oppresso Firenze? Clemente VII. Chi vi ha offerto due volte di assassinare Clemente VII, per quanto papa egli fosse, e per quanto mio protettore si dicesse? Io… Chi ha rifiutato, dicendomi: «Colpisci, ma noi lasciamo il delitto a tuo conto?» Voi!… Quando Firenze fu presa, quando Firenze fu assediata, quando Firenze si è arresa, quando fu riconosciuto che soltanto un Medici poteva regnare, chi vi ha detto: «Io son figlio di Pier Francesco dei Medici, due volte nipote di Lorenzo, fratello di Cosimo, figlio di Maria Soderini donna d’una saggezza esemplare e d’una prudenza riconosciuta, ed io ristabilirò la repubblica, lo giuro sul mio onore?… Io!… E, sul mio onore, l’avrei fatto. Ma… Voi avete preferito il figlio d’una mora, un bastardo del ramo primogenito, e quando dico ramo primogenito, voi non sapete — e sua madre nol sa più di voi — di chi è figlio… di.. Lorenzo duca d’Urbino, o di Clemente VII, o d’un mulattiere. Voi l’avete preferito, eletto, corteggiato, tu per il primo, o Strozzi! e avete abbandonato me, cui non avete rimprovero alcuno da fare!
Lorenzino fissò un istante con amarezza il suo sguardo su Filippo Strozzi, poi continuò!
— Perchè io aveva un corpo dilicato e femmineo, voi mi avete chiamato, gli uni Lorenzino, gli altri Lorenzaccio; voi diceste che io aveva avuto delle infami compiacenze pel papa Clemente; voi m’avete calunniato, non potendo misdire.
«Perchè vi separaste dal duca Alessandro, ci fu bisogno che il primo gonfaloniere Carducci, che Bernardo Castiglione e quattro altri magistrati, fossero decapitati; che il secondo gonfaloniere, Raffaele Carolami, fosse rinchiuso nella cittadella di Pisa e vi morisse avvelenato; che il predicatore Benedetto di Foiano fosse dato in potere di Clemente VII, fosse da lui rinchiuso in Castel Sant’Angelo, e vi morisse di fame; che fra Zaccaria, che avea trovato mezzo di fuggire travestito da contadino, morisse a Perugia, di qual morte non si sa, ma dopo essersi inginocchiato dinanzi al papa. Abbisognò che centocinquanta cittadini, e dei primi e i più degni della città, fossero esiliati. Bisognò che dodici cittadini, dei quali tu eri uno, fossero incaricati di riordinare lo Stato di Firenze, giacché della repubblica fiorentina non era più questione!… Bisognò che questo comitato dei Dodici sopprimesse il gonfaloniere di giustizia e la signoria, e interdicesse di mai ristabilire questa magistratura, che, durante cencinquant’anni, aveva amministrato con tanta gloria! Bisognò che il nuovo duca si circondasse di truppe straniere e nominasse Alessandro Vitelli, uno straniero, loro capo, e Guicciardini, un traditore, governatore di Bologna. Bisognò che avvelenasse a Itri, unitamente, al papa, il cardinale Ippolito dei Medici, suo primogenito. Bisognò che sposasse la figlia dell’imperatore, Margherita d’Austria, e che malgrado questo matrimonio, egli continuasse ne’ suoi stravizi insensati a disonorare i conventi più santi, e le famiglie più nobili di Firenze. Abbisognò tutto questo… E, quando vidi tutto questo, io, e che non si giungeva a qualche cosa che colla bassezza, col blandimento e colla corruzione; che ogni spirito grande, ogni cuor nobile era obliato o dispregiato, allora io son ritornato a Firenze, mi son fatto il cortigiano, l’amico, lo schiavo, il compagno di crapule del duca Alessandro, e non avendo potuto pervenire ad essere il primo in gloria, son divenuto il secondo nel disonore… Non è questo un bel calcolo? Dimmi, Filippo?
— Lorenzino! Lorenzino!… ciò che dice qualcuno a voce bassa, sarebbe egli vero? gridò Strozzi prendendo il braccio del giovine e tentando di leggere ne’ suoi occhi, malgrado l’oscurità.
— E che dice qualcuno?… domandò il giovine.
— Che pari a Bruto, tu fingi l’insensato, ma che tutte le sere, simile a lui, tu baci la nostra madre comune, la terra, supplicando il tuo paese di perdonarti l’apparenza in grazia della realtà… Ebbene, ascolta; se così è, Lorenzino, l’ora di gettar la maschera è giunta; l’ora di scambiar la veste del buffone col pugnale del repubblicano è giunta… Ci sono ancora corone per Armodio, palme per Aristogitone… Soltanto non v’è un istante da perdere: se vuoi essere a parte della grand’opera che si prepara, posdomani; domani, sarà forse troppo tardi. Lorenzino, tu hai molto a fare per ridivenire Lorenzo… Ebbene, io prendo su me tutto il tuo passato, te ne faccio un’aureola per l’avvenire: ti apro le nostre file, ti cedo il mio posto. Siamo trecento che abbiamo giurato morire per rendere la libertà a Firenze; marcia alla nostra testa, sii il nostro capo, ed io per il primo darò agli altri l’esempio dell’ubbidienza.
Lorenzo rise di quel riso stridulo e metallico che apparteneva a lui solo.
— Sai tu, Strozzi, rispose, che la è una magnifica idea la tua?… A me, Lorenzino, il re delle feste, a me, il principe dei giorni gioiosi e delle folli notti, tu offri d’essere il capo d’una cospirazione tortuosa, bene oscura, ben romana, misteriosamente tramata nelle tenebre, a guisa di quella di Catilina, coi giuramenti scambiati sur un pugnale, e il sangue bevuto in una coppa?… No, no, Filippo… Quando io sarò folle abbastanza per cospirare lo
farò in modo meno tristo e tenebroso, farò come Fiesco, per esempio, meno la corazza però… affine di non annegare, se cadessi nell’acqua. — E poi, sì, che ricompensa bene quelli che si sacrificano per essa la vostra Repubblica fiorentina!… È una madre assai tenera de’ suoi figliuoli, un’amante assai fedele ai suoi amatori!… Rivale d’Atene, ella fu gelosa di tutto, anche dell’ingratitudine del suo modello verso i suoi più illustri cittadini… Vediamo, contiamo, quelli che il suo baratro ha divorati, senza che, come il gorgo di Decio, ei si richiudesse su loro sacrificio… I Pazzi, da prima, che prevedendo l’avvenire, volevano troncare il male dalla radice, e che voi avete lasciati impiccare al balcone del Palazzo Vecchio; Savonarola, Licurgo cristiano, che voleva fare una repubblica, al cui confronto quella che Platone avea ideata non era che una scuola di corruzione, e che voi avete lasciato abbrucciare sulla Piazza del Palazzo della Signoria… Infine Dante di Castiglione, romano dell’epoca dei Gracchi, perduto in mezzo alla nostra era moderna, che voi avete lasciato avvelenare a Itri… Quindi, corda, rogo e veleno, ecco la ricompensa che Fiorenza la Magnifica regala a coloro che si sacrificano per essa!… Grazie!.. No, no. Filippo; meglio è non cospirare, credimi; ma quando tu cospirerai, ascolta ciò: bisogna cospirar solo, senza tenerne parola ad alcuno: bisogna cospirare senza amici, senza confidenti, e se tuttavia tu non pensi ad alta voce, avrai allora qualche speranza di veder riuscire la tua cospirazione. — Tu mi parli di prendere il tuo posto, Strozzi, di mettermi alla vostra testa, di raccorre io solo l’onore dell’intrapresa… Insensato!… vuoi tu ch’io ti dica come finirà la tua cospirazione? Prima di ventiquattr’ore voi sarete tutti prigioni… Siete appena giunti a Firenze non è egli vero? Ebbene, uno di voi è già ucciso, l’altro ferito, e gli ordini sono già dati perchè siate arrestati. O Strozzi, Strozzi, segui un buon consiglio… anche un pazzo ne dà qualche volta: riprendi la via che ti ha qui condotto, esci per la porta da cui sei entrato, ritorna alla fortezza in Montereggione, chiudi le tue porte, abbassa le tue saracinesche, alza i tuoi ponti levatoi e attendi…
— Che?… che vuoi tu ch’io attenda?…
— Che so io!… Forse un giorno, una sera, una notte, al momento in cui meno lo aspetterai, un’eco ti porterà queste parole! «Il duca Alessandro è morto.»
— Son disgraziato, Lorenzo, rispose Strozzi. Su tre domande che io contava di farti, eccone già due che tu mi rifiuti… spero vorrai accordarmi la terza…
— Se la è men folle delle due prime, con tutto il piacere, Strozzi.
— La è quella, disse il vecchio traendo la spada, di darmi ragione delle tue offese, de’ tuoi rifiuti e dei tuoi consigli.
— Oh! in fede mia, gridò Lorenzino, tu sei decisamente pazzo, mio povero amico!… Un duello a me?… A me, Lorenzino?… Forse che mi batto io?… Forse che non è convenuto, stabilito, riconosciuto, che io non ho la forza di alzar una spada?… Ma non sai dunque, ch’io sono una femminuccia, un vile?… Oh! in verità, credeva di esser meglio conosciuto dappoiché Firenze grida il mio panegirico a tutta l’Italia e l’Italia a tutta la terra!…
«Grazie, Strozzi! tu hai dubitato tra Firenze e me; grazie, tu solo potevi ancor farmi quest’onore.
— Si, hai ragione, gridò il vecchio; sì, Lorenzo, tu sei un miserabile… sì, Lorenzo, tu sei un vigliacco, e non meriti di morire per la mano d’un mio pari… Va, non ispero più che in Dio!… Va!…
— Finalmente, disse Lorenzino, col suo riso abituale, eccoti ridivenuto ragionevole… Addio, Strozzi.
— Addio.
E Lorenzino si allontanò per la via del Diluvio, e sparve ben tosto nell’oscurità.
Strozzi guardossi attorno vivamente come se cercasse qualcuno. Michele avea finita la sua preghiera, e si teneva in piedi dietro l’angolo della via della Fogna.
— Michele! Michele! gridò il vecchio.
Michele accorse.
— Eccomi, eccellenza.
— Vedi tu quell’uomo che si allontana… . là, là in fondo?… Lo vedi tu?…
— Sì… .
— Ebbene, se domani mattina quell’uomo non è morto, domani sera noi siamo perduti. Quell’uomo sa tutto… .
— E quell’uomo si chiama?…
— Lorenzino.
— Lorenzino!… gridò Michele: Lorenzino, il favorito del duca!.. Siate tranquillo, signor Filippo, egli morrà!
— Sta bene… Vanne, e che io non ti riveda che allorquando potrai dirmi: «Egli è morto!»
E della mano fe’ gesto allo sbirro di allontanarsi.
Michele obbedì.
Rimasto solo, Strozzi, la spada sempre ignuda, si avvicinò alla casa, posò la mano sul martello della porta semichiusa, come per entrarvi. Ma, ad un tratto, cambiando idea, invece di spinger la porta, la tirò a sè e la chiuse mormorando:
— No, questa sera… domani. Stasera, la ucciderei.
E a sua volta scomparve in quel dedalo di strade che s’incrocicchiano fra la piazza di Santa Croce e quella delle Dame.
4
Il Palazzo Riccardi
Adesso è mestieri che il nostro lettore scenda di dove l’abbiamo fatto salire, ci segua nella via Larga, ed entri con noi al palazzo di Cosimo l’antico, conosciuto a’ dì nostri sotto il nome di palazzo Riccardi.
Diciam parola di colui che lo aveva fatto fabbricare, e gettiamo uno sguardo su questa gran razza de’ Medici, divisa in due rami, ramo primogenito e ramo secondogenito, i quali non avean più che tre rappresentanti a Firenze.
Il duca Alessandro, figlio di quel Giuliano II, di cui Michelangiolo ha scolpito il busto conosciuto sotto il nome di Pensieroso, o di Clemente VII o di un mulattiere (abbiam detto che sua madre stessa, una cortigiana mora, ignorava qual fosse il vero padre d’Alessandro), il duca rappresentava il primogenito.
Il ramo secondogenito era rappresentato da Lorenzino, che abbiam posto in iscena nel capitolo precedente, e da Cosimo che fu poi il successore d’Alessandro, che la storia ha soprannominato il Tiberio fiorentino.
Travolgiamo l’ordine di primogenitura e cominciamo da Cosimo. Via innanzitutto parliamo del palazzo Riccardi, e di colui che l’avea fatto costrurre.
Era questi Cosimo l’antico. Firenze cominciò con iscacciarlo due volte, e finì per chiamarlo il Padre della Patria.
Cosimo era figlio di quel Giovanni de’ Medici, sul quale Machiavelli scrisse le linee seguenti:
«Fu Giovanni misericordioso, e non solamente dava elemosine a chi le domandava, ma molte volte al bisogno dei poveri, senza essere domandato, soccorreva. Amava ognuno, i buoni lodava, e de’ cattivi aveva compassione. Non domandò mai onori, ed ebbegli tutti. Non andò mai in Palagio se non chiamato. Amava la pace e fuggiva la guerra. Alle avversità degli uomini sovveniva, le prosperità aiutava. Era alieno dalle rapine pubbliche, e del bene comune augumentatore. Ne’ magistrati grazioso: non di molta eloquenza, ma di prudenza grandissima. Mostravasi nella presenza melanconico, ma era poi nella conversazione piacevole e faceto.»
Questo gran cittadino, padre di Cosimo e di Lorenzo l’antico, era stato eletto due volte priore, una volta gonfaloniere, una volta dei Dieci della guerra, ambasciatore presso Ladislao, re d’Ungheria presso papa Alessandro V, e presso la repubblica di Genova: avea menate a bene tutte le missioni di cui lo avevano incaricato, e maneggiati gli altri affari con tanta prudenza e tale lealtà, da aumentare la sua possanza presso i grandi e la sua popolarità coi piccoli.
Era morto verso il finire del mese di febbraio dell’anno 1428, e seppellito nella basilica di San Lorenzo, uno dei capolavori di Filippo Brunelleschi, il quale, trent’anni dopo, doveva immortalarsi col duomo di Firenze. Cosimo e Lorenzo spesero pei suoi funerali tremila fiorini d’oro, equivalenti a cento mila franchi dei nostri, e lo accompagnarono all’ultima dimora con ventotto dei loro parenti, e tutti gli ambasciatori dei vari potentati che si trovavano allora a Firenze.
Gli è da questi due figli — lo abbiamo già detto, ma lo ripetiamo a maggior intelligenza dei fatti a venire — che si opera nell’albero genealogico dei Medici questa gran divisione che prepara protettori alle arti e sovrani alla Toscana.
Il ramo primogenito, glorioso durante la Repubblica, seguiterà a salire con Cosimo l’antico, e darà Lorenzo il Magnifico ed il duca Alessandro.
Il ramo secondogenito si allontanerà dal primo, e glorioso in guerra se non nel principato, darà Giovanni delle bande Nere e Cosimo I.
Cosimo l’antico nacque in una di quelle epoche felici ove tutto in una nazione tende a rasserenarsi, e ove l’uomo di genio trova maggior facilità ad essere grande. Con essa si apriva l’era brillante della repubblica fiorentina; le arti rispondevano da tutte le parti; Brunelleschi costruiva le sue chiese, Donatello scolpiva le sue statue, Orgagna intagliava i suoi portici, Masaccio dipingeva le sue cappelle. Infine, la prosperità pubblica, marciando a pari passo col progresso delle arti, faceva della Toscana, posta fra la Lombardia gli Stati della Chiesa e la repubblica veneta, non solo il paese più possente, ma eziandio il più felice della terra.
Cosimo era nato con immense ricchezze, le quali aveva quasi raddoppiate, talché, senza essere più d’un cittadino, egli aveva acquistata una straordinaria influenza. Posto fuori del governo, né mai o irritava, nè mai o adulava; quando seguiva una buona via, Cosimo diceva: «Va bene;» quando se ne allontanava, Cosimo diceva: «Va male.» Ed il suo biasimo o la sua approvazione erano di suprema importanza. Da ciò risultava che Cosimo non era a capo del governo ma era già forse qual cosa di più: era il suo censore.
Quindi si comprende qual terribile bufera dovesse ammassarsi contro un simile uomo. Cosimo la vedeva apparire e la sentiva rumoreggiare; ma, tutto inteso ai grandi lavori che celavano i suoi vasti progetti, non volgeva il capo dal lato ove la procella si addensava. Tranquillo, invece, faceva ultimare la cappella di S. Lorenzo, iniziata da suo padre, faceva innalzare il monastero di S. Frediano, costruire la chiesa del convento dei Domenicani di S. Marco, e gettare le fondamenta di quel bel palazzo della via Larga, di che noi ci occupiamo al momento. Soltanto, quando i suoi nemici lo minacciavano apertamente, egli lasciava Firenze per recarsi nel Mugello, culla della sua famiglia; vi edificava, per non restar inerte, i conventi di Bosco e di San Francesco, rientrava in città col pretesto di dare un’occhiata alla sua cappella nel noviziato dei padri di Santa Croce e del convento degli Angeli dai Camaldoli; poi ne usciva di nuovo alla prima pietra scagliatagli contro, per far progredire i lavori delle sue ville di Careggi, di Cafaggiolo, di Fresotti e di Trebbio; fondava a Gerusalemme un ospizio per i pellegrini poveri, e ritornava per vedere a qual punto fosse giunto il suo bel palazzo della via Larga.
E tutte queste costruzioni occupavano un mondo d’operai, d’architetti, pei quali occorrevano cinquecento mila scudi; cioè sette od otto milioni della nostra presente moneta, senza che il fastoso cittadino paresse menomamente impoverito da questi dispendii.
Gli è che di fatto Cosimo era più ricco di molti re di quel tempo. Suo padre Giovanni gli avea lasciati, di sua parte, presso a poco quattro milioni in argento ed otto a dieci milioni in carta, che, col cambio, egli aveva più che quintuplicati. Contava nelle varie piazze dell’Europa, tanto a nome de’ suoi agenti che suo, sedici case bancarie in piena attività. A Firenze tutti gli dovevano, perchè la sua borsa era a tutti aperta.
Quindi, allorché venne per Cosimo l’ora della vera proscrizione; quando esiliato a Savona da Rinaldo degli Albizzi, nella notte del 3 ottobre 1433 egli lasciò, colla sua famiglia ed i suoi clienti, Firenze, parve alla capitale della Toscana che le venisse strappato il cuore. L’oro, questo sangue commerciale dei popoli, pareva essersi inaridito alla sua partenza; tutti gli immensi lavori da lui cominciati eran rimasti interrotti; villeggiature, palazzi, chiese, appena usciti di terra, a metà ultimati, o non ancora finiti, parevano altrettante rovine indicanti che una sventura terribile avea colpita la città.
Dinanzi le fabbriche interrotte, gli operai si adunavano chiedendo lavoro; ogni giorno i gruppi erano più numerosi, più affamati, più minaccevoli; ed egli frattanto, fedele al suo sistema di condur tutto con un fil d’oro, faceva richiedere ai suoi numerosi debitori, ma con dolcezza, piuttosto come un amico in bisogno, che come creditore esigente, le somme prestate, dicendo che l’esilio lo costringeva a far ciò che non avrebbe mai fatto se fosse rimasto a proseguire i suoi immensi lavori in Firenze. Molti non potevano pagarlo, altri lo facevano, ma con grave loro molestia; talché il malcontento, salendo dagli operai a’ cittadini, Cosimo fu richiamato dopo quindici mesi, per desiderio della democrazia ch’era salita al potere. Ma l’esule trionfatore era, per la sua fortuna e le sue ricchezze, troppo al disopra di coloro che lo innalzavano perchè ei li riguardasse lungo tempo, non che come eguali, come cittadini. Dal ritorno di Cosimo, Firenze, che aveva sempre appartenuto a se stessa, stava per divenire proprietà di una famiglia, che, tre volte scacciata, dovea ritornare tre volte recandole la prima volta catene d’oro, catene d’argento alla seconda, ed alla terza catene di ferro.
Cosimo rientrò in mezzo alle feste ed alle luminarie, e, il giorno stesso del suo ritorno, ritornò al suo commercio, alle sue costruzioni ed a’ suoi traffici, lasciando ai suoi partigiani la cura di proseguire le sue vendette. Le proscrizioni furono tante, i supplici così numerosi, senza che Cosimo paresse immischiarsene, che uno dei suoi amici il quale avea scoperta la mano che facea scrivere l’ostracismo e muovere la scure, recossi a lui un giorno per dirgli che, se continuava in tal guisa, egli finirebbe collo spopolare la città. Trovò Cosimo al suo scrittoio facendo un calcolo. Cosimo alzò il capo, e senza lasciare la penna, lo guardò con un impercettibile sorriso. — Amo meglio spopolarla, rispose, che perderla una seconda volta. — E l’inflessibile aritmetico si ridiede alle sue cifre.
Per tal modo egli invecchiò ricco, potente, onorato, ma colpito dalla mano di Dio nell’interno della sua famiglia.
Di molti figli che aveva avuti, uno solo gli era rimasto. Infievolito, debilitato, si faceva portare nelle immense sale del suo palazzo, affine di esaminare le sculture, le dorature, gli affreschi, e scrollava tristamente il capo dicendo:
— Oimè! oimè: ecco una casa ben grande per una famiglia ben piccola.
Di fatto egli lasciò a solo erede del suo nome, della sua possanza e delle sue ricchezze Pietro dei Medici, il quale, posto fra Cosimo il Padre della Patria, e Lorenzo il Magnifico, non ottenne altro soprannome che quello di Pietro il gottoso.
Rifugio dei dotti Greci scacciati da Costantinopoli, culla del rinascimento delle arti, sede oggi delle assemblee dell’Accademia della Crusca, il palazzo Riccardi era successivamente il soggiorno di Pietro il gottoso e di Lorenzo il Magnifico, che vi si ritirò dopo la congiura dei Pazzi, alla quale aveva così miracolosamente scampato, e lo legò colla sua immensa collezione di pietre preziose, di cammei antichi, d’armi splendide e di manoscritti originali a un altro Pietro, che non fu chiamato Pietro il gottoso, ma Pietro il codardo, Pietro lo sciocco, Pietro l’insensato.
Fu desso che aprì le porte di Firenze a Carlo VIII, che mise in suo potere le chiavi di Sarzana, di Pietrasanta, di Pisa, di Librafatta e di Livorno, e promise fargli pagare dalla repubblica la somma di duecentomila fiorini.
Infine, il tronco gigantesco aveva germogliato così potenti rami che il suo succhio cominciava ad inaridire. Di fatti, morto Lorenzo II, padre di Caterina dei Medici, non restò del sangue di Cosimo l’antico che Ippolito, bastardo di Giulio II, che fu cardinale e perì avvelenato a Itri; Giulio, bastardo di Giuliano l’antico, assassinato dai Pazzi nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, e che fu Clemente VII; infine Alessandro, bastardo di Giuliano, di Clemente VII, o di un mulattiere, che fu chiamato duca di Toscana, e che noi abbiam già veduto operare in una delle sue imprese famigliari, sulla piazza di Santa Croce.
Per qual modo era egli giunto al sovrano potere? Ecco ciò che stiamo per dire.
Una volta salito al trono pontificio, gli sguardi di Clemente VII si erano fissati sui due suoi nipoti Ippolito ed Alessandro, e ciò tanto più naturalmente, in quanto che quest’ultimo, conosciuto in apparenza pel figlio di Lorenzo II, stimavasi fosse quello di Clemente VII, del tempo in cui non era che cavaliere di Rodi.
Ogni suo potere fu dunque da principio impiegato a reggere i resti illegittimi del ramo primogenito nell’alta posizione che i Medici avean sempre occupata a Firenze.
Disgraziatamente Clemente VII s’era alleato alla Francia; questa alleanza avea portato il saccheggio di Roma per gli Spagnuoli, comandati dal contestabile di Borbone, e la carcerazione del papa. Ma Clemente VII era un uomo da ripieghi. Vendette sette cappelli rossi, mise in pegno cinque cardinali ed ottenne la somma necessaria al suo riscatto.
Mediante sì fatte guarentigie, fu lasciata un po’ più di liberta a Clemente VII, il quale ne trasse utile per fuggire da Roma cogli abiti di un paggio e si condusse ad Orvieto.
Ora i Fiorentini, che avevano per la terza volta scacciati i Medici, si credevano quieti, vedendo Carlo V vincitore ed il papa fuggiasco. Ma l’interesse può riavvicinare ciò che l’interesse ha disgiunto.
Carlo V, eletto imperatore nel 1519, non era ancora coronato dal papa; e questa solennità, all’epoca dello scisma di Lutero, di Zuinglio e di Enrico VIII, diveniva della più alta importanza per i progetti di sua maestà cattolica. Fu dunque pattuito fra la corona e la tiara che Clemente VII consacrerebbe l’imperatore, ma che l’imperatore prenderebbe Firenze, e, Firenze presa, la darebbe come a duca, al bastardo Alessandro, che sposerebbe la sua figlia bastarda, Margherita d’Austria. Degli interessi di sei milioni d’uomini non fu altrimenti quistione. Che valgono gl’interessi d’un popolo, quando trattasi del bastardo d’un papa e della bastarda d’un imperatore!
Tutto avvenne come era stato convenuto. Carlo V pigliò Firenze, vi intronizzò Alessandro, al quale diè in isposa sua figlia il 28 febbraio 1535, vecchio stile.
All’epoca cui siam giunti, il duca Alessandro regnava, abbiam veduto in qual modo, da cinque anni, in Firenze. Però il suo gran protettore, papa Clemente VII, era morto da due anni.
Abbiam detto che due membri del ramo secondogenito dei Medici vivevano al tempo stesso che il rappresentante del ramo primogenito. Questi due membri erano Lorenzino e Cosimo. Cosimo aveva diciassette anni, era figlio di Giovanni delle Bande Nere.
Una parola su questo Giovanni delle Bande Nere, uno dei più celebri condottieri d’Italia.
Era figlio di un altro Giovanni dei Medici e di Caterina, figlia di Galeazzo, duca di Milano. Suo padre era morto assai giovine, e sua madre, rimasta vedova, sul fiore dell’esser suo, mutò il nome del fanciullo, che era Luigi, in quello di Giovanni, affine di fare in lui rivivere, quanto le era possibile, il morto sposo. Ma ben presto v’ebbe tanto a temere per questo figlio sì caro, ch’ella lo vestì d’abiti femminili: e, come Teti aveva celato Achille alla corte di Deidamia, ella lo nascose nel monastero d’Annalena.
Ma nè la dea nè la donna riescirono ad ingannare il destino. I due fanciulli erano destinati a divenire eroi ed a morir giovani.
Quando il bambino ebbe 12 anni, fu necessità farlo uscire di convento. Ogni parola, ogni gesto svelava la menzogna dei suoi vestimenti. Egli tornò dunque alla casa materna e diè principio alle sue prime armi in Lombardia, ove conseguì di buon’ora il soprannome d’invincibile. In breve, grazie alla fama acquistata, venne eletto a capitano della repubblica; infine, tornava egli di Lombardia, come capo della Lega pel re di Francia, quando, appressandosi a Borgoforte, venne ferito al di sopra del ginocchio, da un colpo di falconetto, d’una ferita sì grave, che bisognò tagliargli la coscia. E siccome era notte, Giovanni non volle permettere che alcuno tenesse la fiaccola per far lume ai chirurghi; — e la tenne egli stesso finché durò l’amputazione, senza che un momento solo la sua mano tremasse pur tanto da far oscillare la fiamma. Ma, o che fosse mortale la ferita, o che l’operazione fosse stata mal fatta, il posdomani Giovanni dei Medici spirò in età di 29 anni.
I suoi soldati lo amavano così teneramente, che alla sua morte vestirono tutti il lutto, dichiarando che non avrebbero mai lasciato sì fatto colore. Da ciò il soprannome di Giovanni delle Bande Nere, col quale fu conosciuto dalla posterità.
Suo figlio Cosimo si era perseverantemente tenuto, non soltanto lungi dagli affari, ma anche lungi dalla città. Abitava il suo palazzo di Trebbio, ove tutte le cure di sua madre, che lo adorava, erano volte a far obliare ch’egli esistesse.
Inoltre viveva un primogenito in quel ramo: era questi Lorenzo, che noi abbiamo, dal principio del nostro racconto, presentato ai nostri lettori sotto il nome di Lorenzino.
Lorenzo era nato a Firenze il 23 marzo 1514, da Pier Francesco de’ Medici, due volte bisnipote di Lorenzo, fratello di Cosimo e di Maria Soderini, di cui abbiam già pronunciato il nome.
Avea egli nove anni appena, quando perdette il padre.
La sua prima educazione si fe’ dunque sotto la direzione di sua madre; ma, all’età di dodici anni, entrò in tutela di suo zio Filippo Strozzi.
Là, il suo carattere strano si era sviluppato: era una bizzarra mistura di motteggio, di dubbiezza, d’inquietudine, d’empietà, di desiderio, d’ambizione, d’umiltà e di alterigia. Di tanto in tanto scaturiva da questa unione di così opposti elementi un voto ardente di gloria, tanto più inaspettato, perchè partivasi da un corpo così gracile e femmineo. I suoi più famigliari non l’avean mai veduto né piangere, nè ridere, ma sempre bestemmiare e schernire. Allora il suo viso, più grazioso che bello, giacché era bruno e melanconico, prendeva un’espressione così terribile, che, per quanto passasse sul suo volto rapida come lampo, i più bravi ne erano impauriti. A quindici anni era stato straordinariamente prediletto da Clemente VII, che lo avea fatto venire a Roma; si fu allora ch’egli offerse ai repubblicani di Firenze d’assassinarlo, ciò che li avea tanto impauriti, per parte d’un fanciullo, ch’essi aveano risposto con un rifiuto.
Allora egli era tornato a Firenze, ove si era posto a corteggiare il duca Alessandro, con tanta scaltrezza ed umiltà, che era addivenuto, non uno dei suoi amici, ma il solo suo amico; e ciò spassandosi a fare cosa di cui lo burlavano spesso, una tragedia su Bruto, che fe’ recitare due volte.
Dal lato suo, il duca Alessandro riponeva in lui una strana fiducia; e la prova più certa che gliene dava, si era quella di farlo il mezzano dei suoi intrighi amorosi.
Qualunque si fosse il desiderio del duca, sia che salisse al più alto o scendesse al più basso, sia ch’ei perseguisse una beltà profana o penetrasse in qualche santo monastero, sia che avesse per iscopo l’amore d’una moglie adultera o d’una casta fanciulla, Lorenzo intraprendeva tutto, Lorenzo menava tutto a buon fine. Era l’uomo il più possente ed il più odiato di Firenze dopo il duca Alessandro.
Quindi, i nostri lettori, dopo averci seguiti nella nostra digressione storica, non saranno sorpresi, ora che li riconduciamo al palazzo del duca, di trovare nella stessa camera Alessandro de’ Medici e il suo favorito Lorenzino.
5
I sospetti dell’Unghero
Di fatto, il duca, che aveva lasciato Lorenzo il giorno innanzi poco prima di rientrare a palazzo, giunto appena il mattino, non potè star più a lungo lontano dal suo inseparabile, e mandò l’Unghero a chiamarlo. Lorenzo si affrettò di arrendersi agli ordini del duca, raccomandando a’ suoi di avvisarlo se si presentasse qualcuno dei commedianti ch’egli aveva fatto cercare.
Del resto, tanta era l’amicizia del duca per Lorenzino, ch’ei non aveva voluto permettergli di viver lungi da lui, e gli aveva fatto assestare una casa attinente alla sua, e che era situata ove sono oggi le scuderie del palazzo Riccardi. Alessandro era perfino giunto a voler far aprire una porta di comunicazione fra il suo appartamento e quello di Lorenzino, ma questi vi si era fermamente opposto, dicendo che, per tal modo, il duca sarebbe sempre da lui, e che in conseguenza, egli non gusterebbe mai un po’ di libertà. Alessandro lo disse ingrato, ma accondiscese al suo desiderio, come cedeva sempre ai suoi capricci.
Lorenzino trovò il duca occupato a tirar di scherma con un nuovo maestro d’armi che avea fatto venir da Napoli. Stava egli meravigliato della valentia del suo nuovo professore, e siccome Lorenzino, sin dal tempo in cui si chiamava Lorenzo, avea ottenuto una certa riputazione in tali esercizi, egli volea porgli in mano il suo fioretto; ma Lorenzino rifiutò positivamente, dicendo che gli esercizi da spadaccino lo affaticavano; e, sdraiatosi sur un canapè, si fe’ portar dei biscotti e una bottiglia di vino di Spagna, rosicchiando gli uni vuotando l’altra a piccoli sorsi, applaudiva o criticava i colpi, come uomo provetto nell’arte che più non eserciva.
La lezione finita, il duca licenziò il maestro, e venne a Lorenzino che si trastullava a forare degli zecchini di oro con un coltello da donna acuto e affilato, la cui tempra superiore gli permetteva di provare, su due o tre monete alla volta, la sua destrezza — diremmo anche la sua forza, se questa parola non fosse ridicola applicata ad una creatura esile e snervata come Lorenzo.
— Che diavolo fai tu là? chiese il duca dopo averlo osservato un istante.
— Lo vedete, altezza; mi esercito io pure alle armi.
— Come, alle armi?
— Senza dubbio, sono queste le mie armi: questo piccolo coltello è la mia spada: credete voi che il giorno in cui avrò a lagnarmi di qualcuno, andrò stoltamente a muovergli querela e affidarlo alla punta della mia spada, mentre io mi affiderò alla punta della sua?… Oh! non sono sì sciocco, altezza! quando si ha la disgrazia di essere il favorito del duca Alessandro, bisogna ritrarre da questa posizione tutto ciò ch’ella ha di benefico. — Aspetterò il mio uomo fra due porte, e gli immergerò il mio piccolo coltello nella gola… Guardatelo altezza, il mio piccolo coltello; non è egli vero che è grazioso?
Il duca lo prese, e ne esaminò il manico come conoscitore: — era di fatto un maraviglioso lavoro di cesello.
— Oh! non è il manico che dovete ammirare, disse Lorenzo, si è la lama… Vedete, puntuta come un ago e forte come la spada a due mani del nostro nemico il re Francesco I.
— E dove hai tu comprato questo capolavoro? chiese il duca.
— Comprato? rispose il Lorenzo; forse che si comprano sì fatte meraviglie? E mio cugino Cosimo delle Bande Nere che me ne ha fatto regalo. Figuratevi che il povero fanciullo si annoiava tanto nel suo castello di Trebbio, che studiava la chimica, ed ha inventato un modo di avvelenare i gatti e temprare l’acciaio. Col suo veleno i gatti muoiono in cinque secondi; col suo acciaio, si taglia il porfido. L’ultima volta che io fui a visitarlo, indovinate chi ho trovato da lui? Benvenuto Cellini, che rifiuta di lavorare per voi. Era là che si vantava, il terribile uomo, di avere tirato il colpo d’archibugio che ha ucciso il contestabile di Borbone. Arrecava questo coltello a Cosimo, il quale me lo ha donato. Ecco la ragione per cui non ve l’offro, altezza; ciò che vien regalato, si conserva… E poi ne ho bisogno… Ho qualcheduno da uccidere!
— Sei ben buono di darti questa briga tu stesso. Dimmi chi ti dà fastidio, e te ne sbrigherò.
— Oh! come siete delicato in materia di vendetta, monsignore! Voi me ne sbrigherete per mano di qualche birro, non è egli vero? Ma che! non contate per nulla il piacere di vendicarsi da se stessi? di sentire strisciare una piccola lama sottile e ben arrotata fra le due coste, e di lambire il cuore del proprio nemico con questa fina lingua d’acciaio? Così, per esempio, questa notte non avete avuto più piacere ad uccidere il marchese Cibo voi stesso con quel bel colpo di spada con cui gli avete, a quel che pare, destramente perforati i due polmoni, anzi che farlo assassinare da Jacopo, il quale gli avrebbe brutalmente tagliata la gola, o dall’Unghero, che gli avrebbe bestialmente fesso il ventre?
— Perdio! tu mi fai giusto pensare. Sai tu che l’altro non era morto?
— Come?
— No; fu seguita la traccia del suo sangue dalla casa Cibo alla casa di Bernardo Corsini, ove lo hanno arrestato, e con lui Corsini.
— E chi era egli?
— Selvaggio Aldobrandini. In verità che è un uomo assai valente quel Maurizio, il cancelliere degli Otto. Confessalo, carino!
— Sì; ma senza dubbio quest’abile uomo vi avrà detto ancora altra cosa?
— Non gli ho chiesto di più.
— Davvero ciò è grazioso! Come se un cancelliere di polizia non dovesse rispondere che a ciò che gli si domanda! Dunque egli pensa che il marchese Cibo e Selvaggio Aldobrandini siano rientrati soli a Firenze?
— Lo crede, sì…
— E non ha detto a vostra altezza la men che menoma parola di nessun’altro?
— No.
— Non vi ha, per caso, parlato di Filippo Strozzi?
— Sì; gli ho anzi chiesto ove fosse positivamente Strozzi.
— E vi ha risposto?
— Senza dubbio: un cancelliere di polizia risponde sempre.
— E dov’è il mio caro zio?
— Nella sua fortezza di Monte Reggione.
— Andiamo; vedo che mi era ingannato sul conto dell’amico Maurizio…
— In che?
— In quanto che lo giudicava per uno stolto, e vedo, che invece egli non è che un imbecille…
— E chi ti fa mutar d’avviso?
— Il modo con cui egli è informato.
— Come! Filippo Strozzi…
— Ha lasciato Monte Reggione ieri a tre ore dopo il mezzogiorno.
—Ed ora si trova?…
— A Firenze.
— Strozzi a Firenze?… gridò il duca. Impossibile!…
— Il fatto sta, continuò Lorenzino con quell’accento motteggiatore che gli era abituale, ch’egli è un personaggio tanto poco importante da lasciarlo andare e venire senza inquietarsene; non è che il capo dei malcontenti… Non ha che tentato due volte d’assassinare vostra altezza; una volta empiendo di polvere un forziere sul quale avevate abitudine d’assidervi perchè era prevenuto che vostra altezza portava una cotta di maglia… E, a proposito, la vostra cotta di maglia?…
— Ebbene?
— Si è ella ritrovata?
— Impossibile di rimettervi sopra la mano.
— Bisogna incaricare Maurizio di ricercarla; con lui nulla si perde, eccettuati i proscritti… Per fortuna che io li ritrovo, io…
— Che diavolo vai tu dicendomi?
— Dico, monsignore, che se voi non aveste il vostro povero Lorenzino per vegliare su voi succederebbero di belle cose!
— E io ti son tanto più grato del tuo vegliare su me, il mio prediletto, in quanto che se il trono rimanesse sgombro, toccherebbe a te il possederlo.
— Monsignore, io non ambirò un trono che allorquando si potrà, non assidervisi, ma coricarvisi.
— Prendi, Lorenzino, disse il duca rendendogli il piccolo coltello, col quale erasi sollazzato fin là, e che egli riprese con sollecitudine e si affrettò d’introdurre nel fodero; bisogna ch’io ti dica una cosa… Tu sei il mio solo amico, credo.
— Son felice di essere della vostra stessa opinione, monsignore, ripigliò Lorenzino.
— E se fossi uomo da fidarmi in qualcuno, gli è a te ch’io mi fiderei; ma, per questo, necessiterebbe che tu mi servissi in amore come in politica.
— E se io servirsi vostra altezza in amore come in politica?
— Allora saresti un uomo prezioso, incomparabile, inestimabile; un uomo che io non cambierei, dovesse egli darmi Napoli in cambio, col primo ministro di mio suocero l’imperatore Carlo V, per quanto ei pretenda avere i migliori ministri del mondo.
— Buono!.. Ecco ch’io servo male monsignore in amore?
— Ah! sì, vantati!… Da quasi un mese ti ho incaricato di scoprirmi la dimora di quella piccola Luisa, che mi è sfuggita non so come, e ch’io amo follemente, non so il perchè… e tu ne sei istrutto come il primo giorno; ma ti prevengo che ho slanciato il mio miglior levriere sulle sue orme.
— In verità, monsignore, bisogna ch’io convenga d’essere un gran baggeo…
— Tu?…
— Sì, io… Come! non vi ho date sue notizie?
— Non me ne hai detta parola, traditore!
— Non traditore, ma smemorato. Ecco tre giorni che io ho trovato le sue traccie.
— Lorenzino, non so, in fede mia, chi mi trattenga dallo strozzarti!
— Diamine! aspettate almeno ch’io vi abbia dato il suo indirizzo.
— Ove sta ella, carnefice?
— Sulla piazza di Santa Croce, fra la via del Diluvio e la via Fogna, a venti passi dalla marchesa; e, per Dio! questa notte avreste potuto, dopo sceso il muro dell’una, voltar la scala e salire il balcone dell’altra.
— Sta bene! stasera io la faccio rapire.
— Ah! monsignore, disse Lorenzino, come qui vi riconosco ai vostri modi moreschi!
— Lorenzino! gridò il duca con una subita espressione di minaccia.
— Scusate, monsignore, rispose Lorenzino mezzo umile, mezzo beffardo, ma gli è che in verità voi non avete che un peso ed una misura per tutti. Diavolo! vi sono distinzioni da fare fra le donne, e non bisogna attaccarle tutte all’istessa maniera: ve n’ha che acconsentono d’essere rapite… la marchesa fra queste; ma ve n’hanno altre pretendono d’esser trattate con dolcezza, ed è mestieri darsi la noia di sedurle.
— Buono!… Per far che?
— Ma perchè le non si gettino dalla finestra vedendovi entrar per la porta, coma ha fatto la figlia di quel povero tessitore, di cui non ricordo il nome… Gli è con questi modi che voi fate strillare, come indemoniati, i vostri Fiorentini, monsignore.
— Che gridino i tuoi Fiorentini: io li detesto.
— Ecco che ricadete nei soliti pregiudizi contro il vostro buon popolo.
— Dei miserabili mercanti di seta, dei poveri lanaiuoli, che si sono improvvisati dei blasoni colle insegne delle loro botteghe, e che s’immischiano a fare i diffìcili, e sofisticare sulla mia nascita.
— Come se si fosse arbitri di scegliersi un padre! disse Lorenzino alzando le spalle:
— Ti trovo anche grazioso di prendere le loro difese!
— Di fatto, son pagato per questo…
— Dei miserabili che m’insultano tutti i giorni, seguitò il duca.
— A me sì che mi risparmiano!
— Allora, perchè li sostieni?
— Affinchè non piatiscan di più contro noi, monsignore. Sono instancabili facitori di memoriali, i vostri Fiorentini, altezza! ne fanno a tutti, a Francesco I, al papa, all’imperatore; e siccome voi avete l’onore di essere il genero di quest’ultimo, se essi gliene inviassero uno sui vostri amori, potrebbe darsi ch’egli sposasse la causa di sua figlia, madama Margherita d’Austria, la quale comincia a dolersi d’essere così trascurata dopo dieci mesi di matrimonio.
— Eh!… fece il duca. Sai tu che, su tal rapporto, tu non manchi di ragione, figlio mio?
— Perdio! sono il solo ragionevole alla vostra corte, monsignore. Ecco perchè si dice ch’io mi son pazzo.
— Ah! disse il duca dopo un istante di riflessione, e come arrendendosi al consiglio di Lorenzino; così dunque, al mio posto, tu sedurresti Luisa?
— In fede mia, sì, monsignore, non foss’altro, per mutar metodo.
— Sai tu, disse il duca sbadigliando, che è assai lungo e noioso ciò che tu mi proponi?
— Che!… un affare di cinque o sei giorni.
— E come faresti tu, il gran seduttore. Vediamo!…
— Comincierei coll’aspettar di sapere ov’è nascosto Strozzi.
— Come, disgraziato! gridò il duca, non sai dunque?
— Oh! monsignore, voi siete di troppo esigente… Vi do l’indirizzo della figlia, accordatemi qualche giorno per saper quello del padre. Non si può far tutto in una volta.
— E quando tu avessi l’indirizzo del padre?
— Ebbene, lo farei arrestare, e gli farei fare il suo processo in tutte le regole.
— Ah! ma tu non m’avevi detto che discendevi dal console Fabio… Sei per l’indugi oggi!…
— Vediamo, avete voi qualche cosa di meglio a proporre, monsignore?
— Strozzi è proscritto. Strozzi rientra a Firenze. Strozzi è in contravvenzione alle leggi; la sua testa è messa al prezzo di diecimila fiorini; si porta la sua testa al mio tesoriere ed il mio tesoriere paga… ecco tutto. Non ho ad occuparmi d’altro, io.
— Ebbene, ecco proprio ciò ch’io temeva.
— E perchè?
— Ma perchè di tal modo voi guastate tutto. Come è possibile che Luisa appartenga mai all’uccisore di suo padre! seguendo invece la via ch’io vi propongo, voi fate arrestare Strozzi, lo fate condannare dagli Otto, ciò che vi dà un’apparenza di giustizia di cui non vi curate punto, lo so… Ma diavolo! una tenera figlia, qual si è Luisa, non lascia condannare suo padre quando con una sola parola ella può salvarlo… Tutto l’odioso della condanna ricade sui giudici; voi, al contrario, raggiante come il Giove antico incaricato di fare lo scioglimento, voi uscite dalla macchina… La prova è certa.
— Ma assai vecchia, carino!
— Ah! perdio! mettereste dell’immaginazione nella tirannia, adesso? Dopo Falaride, che avea inventato il famoso toro di rame, e Procuste, che avea inventati i letti quando troppo corti, quando troppo lunghi, non fuvvi che un uomo veramente di genio nel genere: si è il divino Nerone. Ebbene, io vel domando, in qual modo ne lo ha ricompensato la posterità? Sulla fede di Tacito, gli uni han preteso ch’ei si fosse un pazzo; e, sulla fede di Svetonio, gli altri han detto ch’ei si era una bestia feroce. Andate a farvi tiranno, dopo ciò!..
— Cinque o sei giorni!… ripigliò il duca.
— Vediamo, non v’impazientate. Conoscete la mia debolezza per voi; ebbene, durante questi sei giorni, io farò d’accomodare le vostre faccende con mia zia Caterina Ginori.
— A proposito!… .
— Ebbene, l’ho veduta ieri; si fu appunto per incontrarla ch’io v’ho lasciato ieri dopo la vostra impresa di Santa Croce.
— E ti ha ella promessa qualche cosa?
— Suo marito farà una piccola corsa, domani o posdomani, nelle vicinanze di Firenze, e…
— E che?…
— Si procurerà d’utilizzare l’assenza di quel buon marito..
— Lascio a te il condurre questo doppio affare. Ma mi abbisogna oggi stesso l’indirizzo di Strozzi.
— Chiedetelo al vostro cancelliere ser Maurizio… È affar suo non mio!
— Lorenzino, tu me l’hai promesso…
— Ve l’ho promesso? In tal caso l’avrete. Ma osservate, ecco là i nostri due servi che ci attendono: l’Unghero che vuol parlarvi, e Birbante che vuol dirmi una parola. Non indugiamo, monsignore: amendue vengono probabilmente per parte del demonio
— Andiamo, vieni, l’Unghero, disse il duca.
— Andiamo, entra, Birbante, disse Lorenzino.
I due birri parlarono un istante a voce bassa coi loro padroni.
— Giungi troppo tardi, l’Unghero, per averla ricompensa, disse il duca ridendo. Fra la via Fogna e la via del Diluvio… conosciuto!
— E chi dunque vi ha dato l’indirizzo, monsignore?
— Uno più scaltro di te, mio povero amico.
E gli additò Lorenzino.
— Ah! il demonio! mormorò l’Unghero; egli non sa che far torto alla povera gente!
— E per te, Lorenzino, che c’è?
— Una dama mascherata, la quale mi domanda, monsignore, e non vuol torsi la maschera che pel vostro servo.
— Felice furbo!
— Ah! sì… forse che viene per me la bella incognita!
Poi avvicinandosi al duca: — Non mi trattenete, monsignore, ciò mi sa della Ginori da una lega.
— Davvero?
— Zitto!…
— Ho ben voglia d’una cosa, carino…
— Dite.
— Si è di venir con te.
— La fareste bella! Perchè non vi andate anzi solo?
— Non chiedo di meglio.
— Allora, io me ne sto qui e non m’interesso più in nulla.
— Andiamo, va, poiché bisogna lasciarti fare a tuo modo
Poi, sotto voce:
— Falle ogni sorta di promesse, sai, a tua zia!
— Le prometterò che vi tingerete per essa la barba e i capelli.
— Perchè?
— Perch’ella mi ha confessato non piacerle che i Bruni.
— Balordo!
Il duca spinse per la spalla Lorenzino, il cui occhio fulminò d’uno sguardo d’odio e di minaccia che fe’ trasalire l’Unghero.
Di fatto, mentre Lorenzino scendeva a passi lenti ed effeminati la magnifica scala del palazzo; il birro s’appressò al suo signore, colla famigliarità che il duca permetteva agli agenti dei suoi delitti. — Monsignore, disse, la prima volta che quel dannato vostro cugino scenderà da un secondo piano con una corda, lasciate che io tagli la corda, lasciate!..
— E perchè ciò, bestiaccia?
— Perchè io ho fissa in capo l’idea che quell’uomo vi tradisca.
— Taglia la corda, l’Unghero, te ne lascio padrone.
— L’occhio del birro brillò di gioia.
— Soltanto, se lo fai, continuò il duca, ordina al boia di riannodare i due capi, e di metterti il collo nel nodo… Ti terrai per avvertito?
— Sì, monsignore, mormorò l’Unghero indietreggiando.
— Andiamo, fatti in qua, disse il duca.
L’Unghero si volse facendo una smorfia.
— Avevo promesso cento fiorini d’oro a chi mi darebbe pel primo l’indirizzo della Luisa.
— Lo so, monsignore, e io sperava d’averli guadagnati.
— Ma avevo aggiunto che ne darei cinquanta al secondo… Prendi, eccoli.
E il duca gittò una borsa allo sbirro, come avrebbe gittato un osso ad un cane.
— L’Unghero colse la borsa borbottando, la pesò nella sua mano per vedere se conteneva presso a poco la somma promessa, poi tornando ai suoi sospetti!
— È lo stesso, monsignore, diss’egli, più voi sarete buono per me, e più vi dirò: Diffidate di quell’uomo!
E si allontanò, lasciando il duca pensieroso, contro la sua abitudine.
6
La Colomba dell’arca
Mentre l’Unghero esponeva; inutilmente come s’è veduto, le sue paure al duca Alessandro, Lorenzino esciva dal palazzo Riccardi, e non potendo più essere osservato, superava a gran passi la distanza che lo disgiungeva dalla sua piccola casa, prodigio di gusto e d’eleganza, gabinetto degno d’Alcibiade e di Fiesco.
Chiusa la porta di strada, egli salì rapidamente le scale, e, assai prima del Birbante giunse nella stanza ove lo attendeva la persona annunziata, che non avea voluto farsi conoscere.
Ma, al rumore dei passi di Lorenzo, i quali senza dubbio le erano familiari, ella si tolse la maschera, ed alzandosi, si slanciò ad incontrarlo.
— Luisa!… gridò Lorenzo con sorpresa mista a terrore.
Luisa si gettò fra le braccia del suo fidanzato.
— Luisa! ripetè Lorenzino, guardandosi attorno con grande inquietudine, e facendo segno al Birbante di vegliare alla porta. Mio Dio! che ha dunque potuto farti commettere l’imprudenza di recarti così da me in pieno giorno?
— Lorenzo, gridò la fanciulla, il duca sa dove io abito…
— Non è che ciò? chiese ridendo Lorenzino.
— Giusto cielo! non ti par questa la maggiore delle disgrazie che potesse avvenirmi?
— Io l’avea preveduto, fanciulla mia, ed avea prese da prima le mie precauzioni. Ora, dimmi, giacche io devo tutto sapere, com’è accaduto?
— Stamane, uscendo dalla Santissima Annunziata, ove era andata ad udir la messa, fui seguita da un uomo.
Lorenzino fe’ un moto delle spalle.
— Ti avevo però raccomandato, ragazza, le diss’egli, di non escir mai senza maschera.
— E l’aveva, Lorenzino mio; ma ignorando che un uomo fosse là per ispiarmi, mi era un istante smascherata per fare il segno della croce coll’acqua benedetta: l’uomo era nascosto dietro la pila.
— Sicché fosti riconosciuta, e per conseguenza inseguita…
— Fino a casa…
— Bisognava entrare da qualche amica per ingannarlo, ed uscir per una porta di dietro.
— Che vuoi, Lorenzo! non vi ho pensato: vedendomi inseguita, ho smarrita la testa.
— E quest’uomo, era l’Unghero?
— Sì, l’ho fatto osservare all’Assunta, la quale lo ha riconosciuto.
— Io sapeva tutto ciò.
— Come!… tu sapevi tutto ciò?… e in qual modo?..
— Esco adesso dal duca.
— Ebbene?…
— Ebbene, non devi inquietarti, fanciulla del mio cuore.
— Non inquietarmi!..
— Hai almeno tre giorni e tre notti innanzi a te.
— Tre giorni e tre notti?
— In tre giorni e tre notti ponno accadere di molte cose, disse Lorenzo.
— Ma, raccomandandomi le precauzioni che potevano celare la mia dimora, non mi hai tu detto le mille volte che ameresti meglio morire anzi che vederla scoperta?
— Sì, perchè allora eravi un pericolo enorme.
— Adesso non ve n’è dunque più?..
— Minore, almeno.
— Così dunque, non ti spaventa che il duca sappia dove io abito?
— Gli avea palesato io stesso il tuo indirizzo prima che l’Unghero glielo desse.
La giovinetta restò un istante sbigottita.
— Lorenzo, diss’ella, ti guardo, ti ascolto… e non ti comprendo.
— Credi tu in me, Luisa?
— Oh! sì…
— Ebbene, allora qual bisogno hai tu di comprendermi?
— Vorrei pur leggere nel tuo cuore…
— Domanda tutto a Dio, ad eccezione di ciò, povera fanciulla!
— E perchè?
— Tanto varrebbe curvarti sur un abisso.
E ridendo del suo riso strano:
— Ciò che tu vedresti, continuò, ti darebbe la vertigine.
— Lorenzino!
— Anche tu?
— No, Lorenzino, mio amato Lorenzo!
— Non hai tu dunque che questa notizia ad apprendermi? Domandò Lorenzo guardandola fissamente.
— Sapresti già l’altra?
— Che tuo padre è a Firenze, non è egli vero?
— Mio Dio!
— Lo vedi, io lo so…
— Ma sai dunque tutto?… gridò spaventata la fanciulla.
— So che tu sei un angelo, mia Luisa, e che io ti amo, rispose Lorenzo.
— Sì, questa mattina un frate è venuto ad annunziarmi questa lieta e terribile novella, e mi ha parlato a lungo di te e del nostro amore.
— Tu non gli hai nulla confessato? domandò Lorenzino.
— Si, ma sotto il suggello della confessione.
— Luisa, Luisa!
— Non v’ha nulla a temere, egli è fra Leonardo, il discepolo di Savonarola.
— Luisa, Luisa, io temo di me stesso… E tu hai veduto tuo padre?
— No, il monaco mi ha detto che mio padre non voleva vedermi ancora.
— Ebbene, io fui più fortunato di te, giacché l’ho veduto, io.
— Quando?
— Jer sera.
— Qui, in casa tua?
— No, alla porta della tua, ove egli mi avea veduto entrare e da dove attendeva ch’io escissi.
— E gli hai parlato?
— Sì.
— Che ti ha egli detto, mio Dio?
— Mi ha proposto di essere tuo sposo…
— E tu?
— Io ho rifiutato, Luisa.
— Rifiutato, Lorenzo?
— Rifiutato.
— Tu dici però di amarmi?
— Gli è perchè ti amo, Luisa, che ho rifiutato.
— Mio Dio! ma tu sarai dunque per me un eterno mistero, Lorenzo! Hai rifiutato?
— Sì, perchè l’ora non è ancor giunta. Ascoltami, Luisa… Tu sai tutto ciò che si dice di me a Firenze?
— Oh! si, gridò vivamente la giovinetta; ma ti giuro che io non ne ho mai creduto nulla, Lorenzo.
— Non farti più forte di quel che non sei, Luisa; più d’una volta tu hai dubitato.
— Quando tu non eri là, si, è vero, Lorenzo; ma appena io ti scorgeva, appena udiva il suono della tua voce, appena vedeva i tuoi occhi fissi su i miei, come lo sono in questo momento, che io mi diceva: il mondo s’inganna, ma il mio Lorenzo non può ingannarmi!
— E tu avevi ragione, Luisa. Giudica quindi se io ho sofferto quando, vedendo offerirsi a me il tesoro di tutte le mie speranze; quando, non avendo che a far un segno del capo perchè ei fosse mio; quando, non avendo che a stender la mano per prenderlo, ho rifiutato, sì, rifiutato ciò che in un altro tempo avrei pagato della mia vita!… Ciò che ho sofferto, questa nette, Luisa… quante lagrime amare io ho divorate, quanti dolori incompresi io ho dissimulati, tu non lo sai, tu nol saprai giammai!… Povera fanciulla! Dio scacci dalla tua fronte benedetta l’ombra delle calamità, delle miserie e delle vergogne ch’egli ha accumulate sulla mia!…
E Lorenzino, con un sospiro, lasciò cadersi il capo fra le mani.
— Ma perchè hai tu rifiutato? domandò la giovinetta.
— Perchè, rispose Lorenzo prendendo con moto convulso le mani della fanciulla e stringendole fra le sue, perchè io ho la forza di sopportare l’umiliazione che pesa soltanto su me; ma ciò ch’io posso soffrire per me, io nol soffrirei mai per quella che amo. A colei che io amo abbisognava una fronte casta, pura, sorridente; questa castità virginea, questa purezza angelica, questa serenità inalterabile, io le ho trovate in te!
E trasse un sospiro.
— Ebbene, continuò egli, divenendo la moglie di Lorenzo, tu perderesti tutto ciò.
— Ma, chiese timidamente la giovinetta, un giorno verrà, non è egli vero, Lorenzo, un giorno in cui non vi saranno più per noi nè ostacoli nè misteri?… un giorno verrà, in cui, alla faccia dell’universo, noi potremo confessare il nostro amore?…
— Oh! si, gridò Lorenzo alzando un braccio al cielo, e coll’altro stringendola al suo seno, e, lo spero, questo giorno non sarà lontano!..
— Oh! sarà un bel giorno per me, amico mio! disse la fanciulla.
— E un gran giorno per Firenze! ripigliò Lorenzo, abbandonandosi, per la prima volta forse, al suo entusiasmo; Giammai duchessa salente ad un trono non avrà corteggio di gioia e di acclamazioni simile al tuo! Dio e il tuo amore non mi manchino, Luisa, ed i sogni di gioia, te lo giuro, saranno minori ancora della realtà!
— Così dunque, Lorenzo, se mio padre mi chiama…
— Vanne a lui arditamente; digli del tuo amore casto e puro, digli del mio, profondo ed eterno.
— E il duca?
— Non inquietartene, ciò mi concerne.
— Monsignore… disse un servo dalla porta.
— Chi è là chiese Lorenzo.
— Un commediante, il quale avendo saputo che volete far rappresentare una tragedia pei piaceri del duca Alessandro, domanda di essere ammesso nella vostra compagnia.
— Sta bene, disse Lorenzo, ch’egli aspetti. Sto lavorando; fra un istante aprirò la porta, ed ei potrà entrare.
Poi, volgendosi a Luisa:
— E tu, fanciulla mia, metti la tua maschera, affinchè niuno sappia che sei qui venuta. Esci per questo gabinetto; questa scala secreta condurrà nella corte.
— Addio, mio Lorenzo! quando ti rivedrò?
— Stanotte probabilmente. A proposito Luisa, ov’è tuo padre? Tu esiti?… Intendo, non è tuo il secreto; serbalo…
— Oh! no, niun secreto per te, mio Lorenzo! Esclamò Luisa gettandosi fra le braccia del suo amante. Mio padre è al convento di san Marco, nella cella di fra Leonardo. Addio.
E leggiera come colomba che spiega le sue ali, ella si slanciò nella scala, non voltandosi che per inviare con la mano e le labbra un ultimo bacio a Lorenzo.
Questi restò appoggiato alla balaustrata finché potè scorgerla; quando fu scomparsa, andò ad aprire la porta, poi sedette vicino ad una tavola, ove trovavasi a portata della sua mano una ricca pistola vaneggiata d’oro.
L’uomo che il servo aveva annunziato entrò.
7
Una scena di Bruto
Era egli un uomo dai trenta ai trentacinque anni, che, nella sua prima giovinezza, avea dovuto appartenere ad una di quelle grandi e severe bellezze del mezzogiorno d’Italia; ma senza dubbio l’abitudine del teatro avea dato alla sua barba ed ai suoi capelli un sì precoce riflesso d’argento, che era assai difficile il ritrovare il primo uomo sotto la maschera del commediante senza età vera che si presentava a Lorenzino.
Lorenzino lo guardò un minuto col suo occhio penetrante che pareva avesse il dono di leggere nel più profondo dei cuori; poi rompendo primo il silenzio, che l’attore serbava senza dubbio per rispetto:
— Sei tu che mi hai domandato? diss’egli.
— Sì, monsignore, rispose il commediante inoltrando di un qualche passo.
Ma Lorenzino lo arrestò con un gesto stendendo la mano verso di lui.
— Un istante, amico, diss’egli. Ho per sistema che persone, le quali non si conoscono più di quello che noi ci conosciamo, debbano sempre parlarsi ad una certa distanza.
— Prego monsignore a credere che io conosco troppo quella che da lui mi separa per oltrepassarla il primo.
— Come è astuto! disse Lorenzino mostrando con una specie di sorriso i suoi denti bianchi ed acuti come quelli della volpe: forse che ti avviseresti d’aver dello spirito?
— In fede mia, monsignore, rispose il commediante, me ne è passato tanto per la bocca, dacché ho recitato la vostra commedia dell’Aridosio, che non vi sarebbe nulla di strano me ne fosse rimasto alcun poco sulla cima della lingua.
— Oh! oh! dell’adulazione! Ti prevengo, mio caro, continuò Lorenzino, che la parte di adulatore è presa qui in doppio ed in triplo; quindi nel caso che tu avessi intenzione di esordire con quella, puoi tornartene donde sei venuto.
— Monsignore, siate tranquillo, continuò l’imperturbabile attore; so troppo ciò che devo ai miei confratelli, i cortigiani, per camminar così sulle loro pedate… No, io recito le prime parti e lascio i valletti a chi li vuole.
— Le prime parti tragiche o comiche? chiese Lorenzo.
— Tragiche e comiche.
— E quali sono quelle che tu hai rappresentate? Vediamo…
— Ho recitato alla Corte di quel buon papa Clemente VII, che aveva una così strana amicizia per voi, monsignore, la parte di Callimaco nella Mandragora, e Benvenuto Cellini, che trovavasi a quella recita, potrà darvi testimonianza dell’approvazione che ottenni; poi a Venezia ho rappresentato il personaggio di Menco Parabolano nella Cortigiana, e se l’illustre Michelangelo trova giammai tanto coraggio da rientrare in Firenze, vi dirà che poco mancò nol facessi morir dalle risa, talmente che fu tre giorni malato dal piacere; a Ferrara ho vestito nella tragedia Sofonisba il carattere di tiranno, e con tanta naturalezza, che il principe Ercole d’Este mi ha cacciato la sera stessa dai suoi Stati sotto pretesto che io aveva cercato un successo d’allusione, che si era trovato senza che io lo cercassi, in parola d’onore!
—Oh! a prestarti fede, disse Lorenzino che cominciava prendere interesse al cicalio del commediante, tu saresti un artista di prim’ordine!
— Mettetemi alla prova, monsignore; ma se volete vedermi veramente nel mio sommo, permettete che vi dica un frammento del vostro Bruto; superbo lavoro, in fede mia! ma che disgraziatamente è proibito in quasi tutti i paesi ove si parla la lingua in cui è scritto.
— E qual’è la parte che tu avresti scelto in quel superbo lavoro? domandò Lorenzo
— Per bacco! occorre domandarlo?… quella di Bruto.
— Oh! tu lo dici con un certo tuono che sa di repubblicano da una lega… Forse che per caso parteggeresti per Bruto?
— Io non tengo nè da Bruto nè da Cesare: sono uomo di teatro e nulla più. Evvivano le belle parti! Con vostra permissione, dunque, io mi farò udire da vostra eccellenza, se ella mi fa l’onore d’ascoltarmi, nella parte di Bruto.
— Ebbene, vediamo; che me ne dirai?
— La splendida scena dell’atto quinto; lo volete?
— Quella in cui Bruto ferisce Cesare? domandò Lorenzino con un impercettibile sorriso.
— Appunto.
— Vada per la grande scena
— Solo, disse il commediante, se vostra eccellenza vuole che io spieghi tutta la mia abilità, bisogna ch’ella mi faccia dir le risposte, o che sia tanto buono da dirmele ella stessa.
— Volentieri, disse Lorenzino, quantunque io abbia un po’ obliate le tragedie che ho fatte, pensando a quelle che sto per fare… Ah! gli è per questa, seguitò sospirando, che mi abbisognerebbe un attore!
— Ebbene, son qua io, disse il commediante. Ascoltatemi da prima e vedrete di che son capace.
— Ascolto
—A noi. Siamo dunque nell’atrio del Senato; ecco la statua di Pompeo; voi siete Cesare, io sono Bruto; voi venite dalla piazza, io vi attendo qui. La decorazione vi piace, monsignore?
— Perfettamente
— E adesso aspettate ch’io mi panneggi nella mia toga.
Il coscenzioso commediante s’avviluppò nel suo mantello, e facendo un passo verso Lorenzino cominciò;
L’attore
Salve, Cesare, un detto.
Lorenzino
Parla. Bruto.
L’attore
Ad aspettarti io venni sulla via
Lorenzino
Somma gloria è per me tanto cliente!
L’attore
No, Cesare, a te vengo supplicando.
Lorenzino
Tu, supplicante!
L’attore
Sai che ogni destino
Da un duplice principio dominato
Vede il bene ed il mal partir lor corso
E i tristi giorni avvicendarsi, ai lieti,
Come tu vedi con alterno moto
Seguir la notte il giorno e il giorno l’ombra.
Gli è che l’uomo, coll’invide sue piante.
Vuole, il varco passar fisso dai Numi
Ed oltre appena, qual che sia suo genio,
Quella fiaccola, in cui parve infinita
La luce, spira nel suo debil pugno,
E cieco il lascia del cammin sul margo;
Tal, che inciampando su quell’alta cima,
Al muover primo nell’abisso ei piomba. —
Cesare, per gli Dei! Cesare, m’odi!…
Chè l’uom tu se’ dalla morente fiamma!…
Lorenzino
Sì, Bruto, è ver; questa è universa legge.
Ma egual fortuna non dà a tutti il fato;
Secondo il core, fa ciascun sua sorte;
E ove s’adima l’un, l’altro grandeggia.
Il tutto sta nell’ascoltar la voce
Che dice all’angue: «Striscia!» e Vola» all’aquila.
Or, questo suon ripete a me: «Cammina,
Cesar, cammina! Il tuo edificio attende
Nuovo filar di pietre, e nulla hai fatto
Fin ch’altro ti riman, Cesare, a fare»
L’attore
E ch’altro vuole Cesare compire?…
Son vinti i Galli, i Bretoni sommessi;
Col bavaglio Cartago in ceppi rugge;
Sanguina Egitto sotto il fero dente
Della Lupa romana, e l’Eufrate
Più non è omai, senza poter sull’acque,
Che l’un dei fonti u’ bevon nostri armenti.
Nulla resiste: ed ogni ostacol fugge.
Chi ribelle fu ieri, oggi vuol grazia
E sia speranza od arte, amore o tema
Tutto piega a tue leggi, e tua vittrice
Aquila, dominando il nugol dove
Più rumoreggia il tuon, cogli occhi al sole
Sovra il mondo si libra. — E ch’altro aneli?
Che vuoi tu dunque alfine, o tu, che ancora
Vivo fra noi, già chiamano divino? —
E ciò non basta? — E dèi punir tu Roma
Che te creando più d’un uom creava?
Lorenzino
Roma, onde troppo difensor tu sorgi,
Bruto, ben sai ch’unqua parlò in tal guisa;
No, sol parla così la nobiltade
Cui mio nome abbarbaglia, e la mia gloria
Fere, dal giorno, alle sue mire infesto,
In che, avvinghiando il mio rival Titano,
Percossa in volto, sui Farsagli campi,
Io, con Pompeo la rovesciai d’un colpo. —
Oh! Bruto, il sai, che il popolo son io,
Lo decretar gli Dei.
L’attore
Cesare, taci!
Religione e requie alla gran vittima
Che tua vittoria ben un di potrebbe
Farsi delitto… Oh! d’insultar dimetti
Con ironico riso a quel fiaccato
Che schiaccia in sua caduta il vincitore:
Fantasma, che farà grande la storia
Onde col sangue suo lordi tua fama. —
Sta dubbia ancor la vostra causa in oggi:
Furon per te gli Dei, per lui Catone
Lorenzino
Sembra che Bruto, nel suo odio eterno,
Il loco prenda del tonante schiavo
Che siegue il carro trïonfale, e viene
Siccom’esso a gridar contro ad Augusto
In mezzo agli urli che scoppiar fa Roma:
Cesar, ricorda che sol uomo è Cesare.»
L’attore
No. Cesare è un Iddio, s’egli ai Romani
Rende intatto il deposito che in pugno
Ei gli ponean. Ma, se al consiglio è sordo,
Se è traditor di Roma; oh! allor più Dio
Cesar non è, che men d’un uomo è Cesare;
Solo un tiranno egli è…
(supplicandolo)
Ma quando a’ piedi
Io ti cadrò, quando m’udrai mandarti
Con suon finale di supremo grido:
«Oh! per Roma pietà, per te pietate!… »
Allor proposto cangerai… Ma oh! rabbia!
Nulla rispondi?…
Lorenzino
… Al tuo signor fa loco. —
L’attore
Ebben, tiranno, abbiti morte!
Pronunziando queste ultime parole, il commediante, che a poco a poco s’era avvicinato a Lorenzino, trasse un ferro dal petto, e scostando il suo mantello, colpì Lorenzino d’un colpo che senza dubbio sarebbe stato mortale, se la punta del pugnale non avesse incontrato, sotto l’abito dell’amico del duca, una cotta di maglia, la quale lo rintuzzò.
Tuttavia, il colpo fu sì violento, che il giovine barcollò.
— Ah! esclamò l’attore indietreggiando d’un passo, avea la corazza il demonio!…
Per la prima volta, forse, Lorenzino fe’ udire un franco scroscio di risa, e, slanciandosi d’un balzo alla gola del commediante, cominciò una lotta tanto più terribile perchè muta, e che era facile di scorgerlo, dovea esser mortale.
A prima vista, all’aspetto di quei due uomini, l’uno dalle membra robuste e muscolose, l’altro dal corpo gracile femmineo, non si sarebbe dubitato che la vittoria non fosse a colui che avea tutte le apparenze della forza. Ma in capo d’un minuto, si fu l’atleta che cominciò a piegare sulle reni, e che cadendo al suolo con un grido strozzato, si trovò in balìa del suo debole avversario.
Al momento stesso, brillò tra le mani di Lorenzino quel maraviglio pugnale, acuto come la lingua d’una vipera, col quale, un’ora prima, forava gli zecchini del duca.
Poi, con voce cupa e beffarda:
— Ah! ah! diss’egli accostando il ferro alla gola del commediante, pare che le parti siano cambiate e che Cesare stia per uccider Bruto…
— Duca Alessandro ringrazia Dio! mormorò il vinto con voce strozzata.
— Eh! disse Lorenzino scostando un po’ il pugnale un istante… Che hai tu detto?
— Nulla, rispose il falso attore con voce cupa.
— Sì, si, insistè Lorenzino. Tu hai detto certo qualche cosa.
— Dissi, ripigliò il birro, che il cielo non vuole che Firenze sia libera, giacché fa di te uno scudo al duca Alessandro.
— Ah! disse Lorenzino, tu volevi dunque uccidere il duca Alessandro?
— Aveva fatto giuramento ch’ei non morrebbe che di mia mano.
— Diavolo! ecco che le cose mutano totalmente d’aspetto, disse Lorenzino lasciando libero il suo avversario. Rialzati, siedi e racconta. Ti ascolto.
— Lo sbirro si rialzò su d’un ginocchio: poi con un accento in cui si confondevano l’odio e la disperazione:
— Lorenzino, diss’egli, non ti beffare di me. Ho voluto ucciderti, non sono riuscito: sei il più forte. Chiama i tuoi servi, mandami al patibolo e che tutto sia detto.
— Ti trovo assai piacevole di parlare come se tu fossi il padrone qui! disse Lorenzino con quel tuono motteggiatore che gli era abituale. E se io avessi il capriccio di lasciarti vivere, chi potrebbe impedirmelo, di’?
— Lasciarmi vivere! gridò lo sbirro tendendo le due mani verso il giovine. Tu potresti lasciami vivere?
— Forse, o Michele del Tavolaccino, disse Lorenzo, fermandosi sul nome di lui che avea tentato d’assassinarlo.
— Tu sai il mio nome? gridò il birro sorpreso.
— E fors’anche la tua storia, mio povero Scoronconcolo!
— Ebbene, allora, tu comprendi?
— Difatto, ho inteso laggermente parlare d’una certa istoria, giacche a quell’epoca io era a Roma. Su dunque, raccontami.
— Poiché mi hai riconosciuto, disse Michele, sai chi io mi fossi.
— Perdio! disse Lorenzino accomodandosi per ascoltare a suo bell’agio, tu eri il buffone del duca Alessandro.
— Hai tu amato mai, Lorenzino?
— Io disse il giovine con voce fredda ed acuta come l’acciaio. Giammai!…
— Ebbene, io amava: era abbastanza insensato per farlo.
— Oh! tu non sai ciò che è il trovarsi solo, infelice, dispregiato, vituperato, come un povero buffone cui il principe, quando ne è sazio, spinge ai suoi cortigiani perchè a lor volta se ne sollazzino! Tu non sai ciò che vuol dire cessare d’esser uomo per divenire una cosa che ride, che piange, che si contorce… una cosa sulla quale ognuno percuote per trarne il suono che più gli conviene, un fantoccio che tutti fanno muovere a lor voglia… Ecco ciò che era io!… Ebbene, in questo cupo avvilimento, in mezzo a questa notte oscura, io vidi brillare un giorno un raggio di sole; una giovinetta mi amò. Era una bella e soave fanciulla, pura e sorridente; il più casto giglio era men bianco della sua fronte, la foglia svelta dal mezzo d’una rosa è men vivace di quel che fosse la sua guancia. Ed ella mi amò!… Comprendete voi, monsignore? amò me povero buffone, povero cuore isolato, povero capo scarico!… Allora io ebbi tutte le speranze degli altri uomini, sognai l’ebbrezza dell’amore, divinai le gioie della famiglia. Mi condussi dal duca e gli chiesi il permesso di ammogliarmi. Egli scoppiò dalle risa. «Ammogliarti tu! esclamò egli, ammogliarti!… Ma diventi dunque realmente pazzo, mio povero buffone! Non sai tu ciò che è il matrimonio? Non ti sei addato che dopo il mio, egli è più difficile ch’io mi distragga? Appena saresti ammogliato, mio povero Scoronconcolo, e tu diverresti mesto, cupo e pensieroso; appena ammogliato, e non mi faresti più ridere. Andiamo, via, buffone, basti di ciò, o, la prima volta che me ne parlerai, ti farò dare venti colpi di verghe.» Il domani gliene riparlai, ed ei mantenne la sua parola… fui sferzato fino al sangue da Jacopo e dall’Unghero. Il posdomani gliene riparlai ancora: «Andiamo, diss’egli, ben m’accorgo che la malattia è radicata e che è mestieri di grandi mezzi per guarirti.» Allora, col tuono del padrone che s’interessa ai dolori del suo servo, mi chiese del nome di quella che io amava, del suo indirizzo, della sua famiglia. Credetti ch’egli aderisse, mi gettai ai suoi piedi, baciai le sue ginocchia, poi corsi dalla Nella, e passammo una giornata d’indicibile felicità. La sera vi fu orgia a palazzo, eravi il duca, eravi Francesco Guicciardini, eravi Alessandro Vitelli, eravi Andrea Salviati, e vi ero io infine; ero di tutte le feste, io. Quand’essi furono riscaldati dalle parole, dalla musica, dal vino, una porta si aprì, e venne gettata in mezzo ad essi una fanciulla… Questa vergine, questa martire, monsignore, era colei che io amava, per la quale avrei dato la mia vita, l’anima mia… Era Nella!… Oh! gridò il birro trascinandosi appiè di Lorenzino, lasciatemi vivere, monsignore, lasciate ch’io mi vendichi, e, sul mio onore, quand’io avrò strozzato quel tigre, verrò a coricarmi ai vostri piedi… vi accosterò la gola e dirò: Alla tua volta, Lorenzino, alla tua volta! Vendicati di me come io mi son vendicato di lui!
— Non è tutto, Michele, disse Lorenzino senza che un sol moto del suo viso lasciasse trapelare l’impressione fatta al suo cuore dal racconto che aveva udito.
— Che volete ch’io vi dica, e che importa il resto? riprese lo sbirro. Io mi salvai da quella Corte maledetta; corsi come un insensato finché avessi oltrepassate le frontiere della Toscana. A Bologna trovai Filippo Strozzi. Lo conosceva per uno dei più terribili nemici del duca; mi posi al suo servigio, alla sola condizione che quando rientreremmo a Firenze, sarei io che ucciderei il duca. Jer sera rientrammo; al momento in cui passavamo davanti il convento di Santa Croce, veniva trasportato il corpo della Nella, morta dall’onta, dal dolore dalla disperazione!… Oh! questa volta vi ho detto tutto!
— Si? E quanto al resto, quanto all’ordine che ti fu dato da Filippo Strozzi di assassinarmi perchè non ho voluto sposare sua figlia, quanto al suo tentativo fallito, quanto a ciò che è qui avvenuto, non vai la pena di parlarne, comprendo.
Lorenzino fermossi un istante; poi ripigliò:
Ebbene, rispondimi, Michele… Se invece di chiamar la mia gente e di farti impiccare, come poco fa me lo consigliavi tu stesso, io ti donassi la vita, ti rendessi la libertà, ma ad un sol patto?…
— Io l’accetto, monsignore, senza sapere quale ei si sia! Esclamò il birro; lo segno col mio sangue, lo garantisco sulla mia vita!
— Michele, disse Lorenzino con voce cupa, io pure ho a vendicarmi di qualcuno…
— Oh! gridò lo sbirro, la vi è facile la vendetta, a voi gran signori!
— Ecco ciò che t’inganna, Michele, giacché quest’uomo è uno dei più famigliari del duca, uno di coloro che si trovavano nell’orgia di Nella.
— Oh! io sono tutto tuo, Lorenzino, tutto tuo!… E se hai paura ch’io mi salvi, se temi ch’io ti sfugga, rinchiudimi in una segreta di cui tu solo avrai la chiave, non lasciarmene uscire che per ferire il tuo nemico. Ma poi, oh, poi serbami il duca!
— Sia; ma chi mi risponderà della tua fedeltà?
— Sulla eterna salute di Nella!… disse il birro stendendo la mano. — Ed ora, che mi ordini tu? Che deggio io fare?
— Nulla… o ciò che vorrai… Ritorna a Strozzi, che deve attenderti con impazienza; digli che ti fu impossibile di penetrar fino a me, che non mi hai ucciso oggi, ma che mi ucciderai domani.
— E dopo?…
— Dopo?… Passeggerai tutte le notti, dalle undici della sera ad un’ora del mattino, nella via Larga, e nulla più.
— Gli è tutto ciò che avete ad ordinarmi?
— Si, va. A proposito, hai tu forse bisogno di denaro?
E Lorenzino porse a Michele una borsa piena d’oro.
— Grazie, disse lo sbirro rifiutandola, ma voi potete farmi un regalo d’assai più prezioso.
— Volontieri.
— Permettete ch’io prenda una spada in quel trofeo?
— Scegli.
Michele esaminò ad una ad una le cinque o sei spade sospese al muro, e si fermò ad una lama di Brescia, montata alla spagnuola.
— Questa, monsignore, diss’egli.
— Prendila, disse Lorenzino.
Poi, fra se:
— Eh! il furbo se ne intende.
— Quindi? chiese Michele.
— Nella via Larga, dalle undici all’una del mattino.
— Questa notte?
— Questa notte e tutte le notti.
— È convenuto, monsignore, disse il birro, affibbiando la cintura alla sua spada; contate su me.
— Perdio! disse Lorenzino, ci conto assai.
Poi, quand’ei fu scomparso nell’anticamera:
— In verità, seguitò col suo sorriso abituale, credo di essere più fortunato di Diogene, e di aver trovato il mio uomo.
Allora restò immerso un istante nei suoi pensieri, e come cercando di rammentarsi qual cosa d’essenziale gli restasse a fare.
Ad un tratto battendosi la fronte:
— Ed io che dimenticava il più importante!
E, sedendosi ad una tavola, scrisse:
«Filippo Strozzi è al convento di San Marco nella cella di fra Leonardo.»
E con un fischio chiamò il Birbante.
— Al duca Alessandro, gli disse: e avverti, scendendo, ch’io non sono in casa per alcuno, tranne per monsignore il duca, pel quale ci son sempre.
8
La cella di fra Leonardo.
Il convento di San Marco ove Filippo Strozzi aveva trovato rifugio, è situato fra la via Larga e la via del Cocomero, le due più belle strade di Firenze. È ancora oggi un luogo di pellegrinaggio per i viaggiatori attirati da un ricordo d’arte e da un ricordo religioso per i quadri o piuttosto gli affreschi di beato Angelico, e pel martirio di Savonarola.
Gli è nella cella d’uno dei discepoli di questo uomo, la cui memoria è in tal venerazione a Firenze, che si raccontano i suoi ultimi momenti, si citano le sue ultime parole come se fossero di ieri, che tutti gli anni, in fine, il luogo del suo supplizio viene sparso di fiori, gli è in quella cella, diciamo, che Filippo Strozzi stava rinchiuso.
Il proscritto era più calmo. Al mattino avea mandato il suo ospite da Luisa. Fra Leonardo, latore dei paterni rimproveri, avea ricevuto la confessione della fanciulla, ed era tornato a Filippo Strozzi, dicendogli:
— Voi potete sempre benedire, amare, abbracciare vostra figlia, e perdonare a Lorenzino.
— Ma se vi dico ch’essa lo ama! esclamò il vecchio; vi dico che io l’ho veduto escire ad un’ora del mattino da casa di lei, vi dico che è un miserabile!
— Sì! insistè il monaco; sì essa lo ama, ma d’un amore puro e fraterno.
— L’amor d’un Lorenzino, amore puro e fraterno! E siete voi me lo dite, padre mio, voi, avvezzo a leggere nel più profondo del cuore umano! Siete voi che prendete la difesa di quell’infame!
Il monaco restò pensieroso, e posando la sua mano sulla spalla di Filippo Strozzi:
— Sì, figlio mio, ripigliò, sì, tu lo hai detto, sì, vi hanno poche anime che io non abbia scrutate; pochi di quegli oscuri abissi ove si agitano le umane passioni, di cui io non abbia misurata la profondità. Ebbene, te lo dirò io, Strozzi? Lorenzino è uno dei pochi, i cui pensieri mi siano sempre rimasti sconosciuti. Eppure, più di ogni altro, io l’ho seguito cogli occhi, perchè, tu lo sai, la speme dei repubblicani ha posato lungo tempo su lui. Ma, più mi son curvato sugli uomini, meno ho veduto chiaro nell’intime latèbre del suo cuore. Dopo il suo ritorno da Roma, e ciò data da un anno, egli è divenuto impenetrabile a tutti gli occhi, anche ai nostri; giacché dopo il suo ritorno, non una volta egli si è accostato al tribunale della penitenza… Oh! gridò il monaco con terrore! oh! colui che per la prima volta udrà la confessione di quell’uomo!…
— Sì, disse Filippo Strozzi, se pure egli non muore senza confessione!
Fra Leonardo scosse il capo.
— Non monta, diss’egli, non monta; tutto non è perduto per quell’uomo, poiché egli ama. L’amore è una credenza, ed il cuore, ove esiste un raggio d’amore, non è mai interamente rinegato da Dio!
— Sono io infelice abbastanza! gridò Strozzi: e bisognava, per infiacchire di più il mio cuore già così pieno di dubbi, che l’amore di un Lorenzino si fermasse su Luisa, e che Luisa glielo ricambiasse!
— Strozzi, Strozzi, disse il monaco, invece di accusare il cielo, ringrazialo di ciò che la povera fanciulla, abbandonata com’ella è, credendo obbedire all’affetto paterno, amando come una donna, è rimasta pura come un angelo.
— Oh!… se potessi crederlo!… mormorò Strozzi.
— Credi, poiché io lo affermo, rispose fra Leonardo.
— Ma allora, gridò il povero padre, perchè non viene ella stessa ad accertarmene? Parmi che, se foss’ella che me lo dicesse, io non dubiterei più.
— Non dubitare, perchè eccomi! gridò Luisa, la quale, condotta da fra Leonardo nella cella attigua, aveva tutto ascoltato e non attendeva che una parola affettuosa di suo padre per gettarsegli fra le braccia.
Mentre la fanciulla entrava da una porta, il frate che non voleva essere d’ostacolo alla loro effusione, esciva pe l’altra.
Fuvvi un istante in cui le parole ed i baci si confusero, ed in cui Dio solo potè udire i ringraziamenti che il padre e la figlia gli rivolgevano singhiozzando.
— Allora Strozzi cercò collo sguardo fra Leonardo, e lo vide chiudere la porta.
— Vi allontanate, padre mio? gli chiese.
— La gioia dilegua sì ratta, rispose il monaco, che quando un uomo è felice, sta bene sia a lui vicino un uomo che preghi.
E la porta si racchiuse su fra Leonardo.
Strozzi, più debole contro la felicità di quel che non era stato contro i dolori, cadde sur uno degli sgabelli che servivano di sedia all’austero domenicano.
Luisa sedette ai suoi piedi.
— Padre mio, diss’ella, quanto avete dovuta soffrire se è vero che abbiate dubitato di me!
— Oh! sì, esclamò Strozzi, oh! sì, io ho molto sofferto, giacché tu ignorerai sempre quanto io ti ami, Luisa! L’amore dei genitori è un segreto fra loro e Dio. Da tre anni ch’io ho lasciato Firenze, non ho potuto avere tue nuove che a lontani intervalli. Tu e Firenze siete i miei due soli amori, e, che Iddio mi perdoni, ma credo che fra voi due povere oppresse, ella mia madre, tu mia figlia, sii tu quella che io ami di più…
— I miei fratelli erano con voi, padre mio, ed io ero felice all’idea ch’essi vi consolavano.
— I tuoi fratelli sono uomini forti, fatti per lottare, fatti per soffrire. Quando un padre genera un figlio, egli sa di dover questo figlio alla patria; ma una figlia appartiene più strettamente a suo padre. Una figlia è l’angelo del cristiano focolare, e la statua dell’amore virgineo che ha surrogato gli antichi penati. Giudica dunque di ciò che io ho sofferto, fanciulla mia, pensando ai pericoli che ti minacciavano in questa disgraziata città, mentre sapeva di essere insufficiente a proteggerti; ma tu, figlia mia, che hai fatto in questo tempo?
— Questo tempo, padre mio, io l’ho trascorso fra la preghiera e l’amore. — Ho pregato per voi, ho amato Lorenzo.
— Dunque, tu l’ami? chiese Strozzi con un profondo sospiro.
— Tanto da non comprendere, s’io lo perdessi, come Dio stesso potrebbe supplirlo nel mio cuore.
— Ma, domandò esitando il vecchio, nessuno sa del vostro amore, non è egli vero?
— Nessuno, padre mio.
— Dove e come lo vedi?
— Fino al momento in cui egli mi ha detto di lasciarlo, io l’ho veduto in casa di mia zia, e, dopo d’allora, il vedo nella piccola casa della piazza Santa Croce; là, egli viene quando travestito in un modo, quando in un altro, ma sempre mascherato. Bisogna che vi sia nella sua vita un gran segreto che io ignoro. Qualche volta è gioioso e trionfante, altra volta cupo e smarrito; qualche volta ride come un fanciullo, tal altra piange come una donna.
— E tu?
— Io sono lieta o triste a seconda ch’egli è triste o lieto.
— E del matrimonio stabilito altra volta fra voi, te ne parla egli ancora?
— Oh! si, assai soventi, padre mio; ed allora egli si esalta, allora ei parla d’avvenire, di potenza, di corona, ed io nol comprendo più di quanto ei si tace, giacché tutto in lui è mistero.
— Figlia mia… figlia mia!
— Rincoratevi, non è Lorenzo che voi avete a temere.
— Si, è vero; tu mi rammenti che un altro pericolo ti minaccia… Ti ama dunque quello scellerato d’un duca?
— Nessuno me lo ha detto; ma varie volte, e stamane ancora, fui seguita da uomini mascherati, ed ho sentito ai battiti del mio cuore che io era in pericolo.
— Ignora egli dove tu abiti?
— Da qualche ora lo sa.
— O mio Dio!
— Fui assai spaventata da prima, ma poi Lorenzo mi ha detto ch’io non avea nulla a temere, e fui rassicurata.
— Lorenzo! tu l’hai dunque veduto?
— Stamane, padre mio.
— E ti ha egli detto che ier sera ci eravamo scontrati?
— Sì.
— Ti ha egli detto ch’io gli aveva offerto di farti sua sposa?
— Sì, padre mio.
— E ti ha detto d’aver rifiutato?
— Mi ha detto tutto.
— Che hai tu pensato allora?
— Io l’ho compianto.
— Lo hai compianto?
— Si, perchè so ch’egli ha dovuto soffrire.
— Ma dove l’hai tu veduto?
— In sua casa.
— Fosti da lui, in via Larga, nella sua infame dimora?
— Credeva imminente il pericolo.
— E tu per la prima gli hai parlato di me?
— No, egli primo mi ha parlato di voi.
— Ignora ove io mi sono, non e vero?
— Scusatemi, padre mio, egli lo sa.
— Chi glielo ha detto?
— Io.
— Disgraziata! tu mi perdi, e ti perdi con me!…
— O padre mio! come mai potete supporre?…
— E tu, come puoi esser credula e cieca a tal punto? A quest’ora, Luisa, il duca sa tutto. A quest’ora, io, tu, i miei amici, siamo in suo potere; egli è il tuo folle amore, si è la tua confidenza insensata che ci ha perduti! O disgraziata! che Iddio ti perdoni come io ti perdono! ma che hai tu fatto!…
E Strozzi, che si era alzato, si lasciò ricadere sullo sgabello torcendosi le braccia
In questo momento vari colpi rimbombarono violentemente alla porta del convento.
— Ascolta! disse Strozzi stendendo la mano dalla parte ove si udiva lo strepito.
— Ebbene? domandò Luisa trepidante.
— Odi? Guarda, e dubita ancora!
E, prendendo sua figlia pel braccio, Strozzi la trascinò fino alla finestra della cella, da dove ella vide scintillar delle armi a traverso la porta semi-chiusa.
— Degli sbirri!… dei soldati!.. il duca! gridò Luisa. Padre mio, padre mio uccidetemi!… Ma no, è impossibile! Oh! voi sarete stato tradito!
— Si, fui tradito: e ciò che v’ha di più terribile, si è che fui da mia figlia!
— Oh! aspettate, aspettate, padre mio, prima di condannarmi in tal guisa.
Non fu lungo l’attendere. Fra Leonardo apparve alla porta della cella. — Fratello, diss’egli rivolgendosi a Strozzi, siete presto pel martirio?
— Si, rispose freddamente il vecchio.
— Sta bene, continuò il monaco, dacché si avvicinano i carnefici.
Al momento stesso, si udiva la voce del duca Alessandro che diceva: — Custodite quella porta e non permettete ad alcuno d’uscire. Voi altri, seguitemi.
Ed apparve seguito da Jacopo e dall’Unghcro.
— Ah! ah! diss’egli ridendo, mi han dunque detto il vero, ed il lupo è preso all’agguato.
— Chi sei, e che vuoi? gridò fra Leonardo interponendosi fra il duca e Strozzi.
— Chi sono? disse il duca, dileggiando. Sono come tu vedi, mio degno padre, un pio pellegrino che visita la casa del Signore, per ricompensare o punire quegli che nel loro orgoglio si stimano al disopra delle ricompense e delle punizioni. Ciò che io voglio?
E scostando con violenza il monaco:
— Voglio che tu mi lasci libero il passo, perchè ho a parlare con quell’uomo.
Ma fra Leonardo si slanciò un’altra volta dinanzi a Strozzi esponendosi primo alla collera del duca.
— Quest’uomo è l’ospite del Signore, diss’egli; quest’uomo è sacro e niuno giungerà a lui che passandomi sul corpo.
— Sta bene, disse il duca il cui occhio fiammeggiò d’un lampo, vi si passera. Credi tu che colui, il quale per salire al trono ha calpestato il cadavere di una città, indietreggerebbe per tema di pigiar coi piedi quello d’un miserabile monaco?
— Andiamo, disse l’Unghero avvicinandosi e portando la mano al pugnale, devo?…
— No, non adesso, più tardi forse; sei sempre sollecito, tu!… Suvvia, disse Alessandro dirigendosi di nuovo a fra Leonardo, largo al tuo duca!
— Mio duca? rispose il domenicano; io non conosco questo nome. So ciò che è un gonfaloniere, so ciò che è un priore; ma non so ciò che sia un duca, non so ciò che sia un ducato.
— Allora, ripetè il duca Alessandro coi denti stretti per rabbia, largo al tuo padrone!
— Mio padrone! interruppe fra Leonardo colla stessa fermezza; mio padrone è Dio! Non ho altro signore che quello che è in cielo, e mentre la voce terrena mi dice: «Vanne!» io odo una voce di lassù che mi grida: «Resta!»
— Ebbene, attendi, ripetè l’Unghero.
Ma il duca battè violentemente col piede, slanciando al birro uno sguardo che lo fe’ indietreggiare.
— Aspetta dunque, diss’egli: quando per caso io sono paziente, siilo anche tu. Vedi pure ch’io non voglio spaventar quella fanciulla. Ebbene, monaco, continuò, giacché tu non conosci nè duca, nè signore, largo al più forte!
Ed ad un suo segno, l’Unghero e Jacopo allontanarono il monaco, che, scoprendo Strozzi, lo lasciò faccia a faccia col duca.
— Duca Alessandro, disse il vecchio proteggendo ancora colle braccia la figlia, mentre insultava il duca: credeva che ti bastassero il tuo cancelliere, il tuo bargello, le tue guardie, senza che tu stesso dovessi rappresentare la parte dello sbirro. M’ingannai.
Il duca scoppiò in risa. — E conti tu per nulla, ripres’egli, il piacere d’incontrare il proprio nemico faccia a faccia? Mi prendi forse per uno di quelli che camminano pian piano la notte in una città, che si celano il giorno in un antro, che aspettano pazientemente l’ora di protendere a tradimento il braccio nell’ombra e di colpir per di dietro? No, io cammino al chiarore del sole, e vengo a dirti in pieno meriggio: Strozzi, noi abbiam giuocato l’uno contro l’altro una partita terribile, la cui posta era la vita; tu hai perduto. Strozzi, paga!
— Sì, rispose Strozzi, e ammiro insieme la prudenza del giuocatore che viene a reclamare il suo debito così bene accompagnato.
— Credi tu che io avessi paura, forse? credi tu che io non mi sarei recato solo dovunque avessi avuto speranza d’incontrarti? Oh! tu sei in uno strano errore, o mi prendi per qualcun altro.
Allora, volgendosi ai due birri:
— Jacopo e l’Unghero, diss’egli; chiudete la porta, e, qualsiasi cosa vi giunga all’orecchio, non venite che quando vi chiamerò.
I due birri vollero opporsi, ma Alessandro battè il piede con violenza, ed amendue uscirono richiudendo la porta. Fra Leonardo si prostrò dinanzi un inginocchiatoio.
— Ebbene, disse il duca con suprema alterigia, eccomi solo, Strozzi, solo contro voi due. Ah! comprendo, io sono armato, e voi siete senz’armi. Aspettate. Vedi, Strozzi, io getto la mia spada.
E difatto, trasse la spada e la cacciò dietro a sè.
— Tieni, Strozzi, io t’offro il mio pugnale.
E stese il suo pugnale a Strozzi.
— Accorri, vecchio Romano… Non vi fu nell’antichità un Virginio che uccise la figlia, un Bruto che uccise il suo re? Scegli fra i due. Ferisci, fatti immortale com’essi!… Andiamo, ferisci, ma ferisci adunque! Che arrischi tu? Neppur la tua testa; sai bene ch’ella è del carnefice. E a te, monaco, che ti trattiene? alza da terra quella spada e vienmi a colpir per di dietro, se la tua mano trema nel fissarmi il volto.
— Il mio Dio proibisce ai suoi ministri di spargere il sangue, rispose fra Leonardo con voce calma ma ferma; se ciò non fosse duca Alessandro, io non avrei serbata la causa della patria ad altro braccio che al mio, e da lungo tempo tu saresti morto e Firenze sarebbe libera.
— Ebbene, Strozzi, chiese il duca, credi tu ancora ch’io abbia paura?
Fuvvi un istante di silenzio. Luisa ne profittò.
— No, monsignore, no, diss’ella con voce tremante, tutti sanno che voi siete prode. Ebbene siate buono quanto siete coraggioso.
— Silenzio, fanciulla: gridò Strozzi; credo che tu lo preghi!
— Padre mio, insistè Luisa mentre Alessandro rimetteva la spada nel fodero e il pugnale nella guaina, padre mio, lasciatemi dire. Dio darà forza alle mie parole. Monsignore!… continuò ella prosternandosi.
Ma fra Leonardo, slanciandosi dal suo inginocchiatoio:
— Alzati, fanciulla, rialzati! gridò. Nessun patto fra l’innocenza e il delitto! nessun patto fra l’angelo e il demonio! Rialzati.
— Hai torto! disse il duca, ridendo del suo riso più terribile ancora della sua collera; ella è tanto bella così, ch’io stava per obbliar la mia offesa, e non ricordarmi che dell’amore.
— Figlia mia! figlia mia! gridò Strozzi, afferrando
sua figlia, e avviluppandola colle sue braccia.
— O mio Dio! o mio Dio! gridò fra Leonardo scongiurando il cielo collo sguardo, se tu vedi simili cose senza tuonare, io dirò che la tua misericordia è più grande ancora della tua giustizia.
— Jacopo! l’Unghero! gridò il duca dopo aver atteso un istante, come per lasciar a Dio tempo di colpire.
I due birri entrarono.
— Ai vostri ordini, altezza, disse l’Unghero.
— Consegnate quei due uomini alle guardie, disse il duca indicando fra Leonardo, e Strozzi, e che sian condotti al bargello.
— Monsignore! monsignore! gridò Luisa, in nome del cielo non separate il padre dalla figlia; non istrappate il prete al suo Dio!
— Taci, e resta! gridò Strozzi. Non una parola di più, non un passo innanzi, o io ti maledico!
— Oh! mormorò Luisa cadendo infiacchita sui suoi ginocchi.
— Addio, figlia mia, le disse Strozzi; Iddio solo veglierà ora su te; ma non obbliare giammai che Lorenzino è quegli che mi uccide.
— Padre, padre mio! gridò Luisa stendendo le sue mani verso il vecchio.
Ma questi, senza pietà alle sue preghiere, le mandò un ultimo addio più ripieno forse di collera che di tenerezza, ed uscì.
— O monsignore! monsignore!… disse la fanciulla sempre in ginocchio e trascinandosi al duca; non posso dunque nulla per salvar mio padre?
Il duca, che stava già per uscire, tornò alla giovinetta:
— Sì, fanciulla, diss’egli, tu sola al contrario puoi salvarlo.
— E che deggio fare a tal uopo, monsignore?
— Lorenzino te lo dirà, rispose il duca.
Ed uscì.
9
Il Bargello
Il Bargello, vasto edificio costrutto da Arnolfo di Lapo per servir insieme di corte criminale e di prigione, e sui muri del quale fu ultimamente scoperto un ritratto di Dante, opera del Giotto, è ancora oggidì, col suo gigantesco scalone guardato da un leone, uno dei monumenti di Firenze che ricordano colla maggior grandezza ed originalità le epoche terribili di cui vide compiere gli avvenimenti.
Al Bargello erano stati condotti non solo Filippo Strozzi e fra Leonardo, ma anche Selvaggio Aldobrandino, quantunque ferito, Bernardo Corsini, che gli avea dato asilo, e gli altri patrioti, che il duca stimava facesser parte alla cospirazione, alla quale avean cooperato diceva egli, se non coll’opera almeno col cuore.
Erano stati tutti rinchiusi nella stessa camera, vasta sala dalle finestre grigliate e dai muri coperti di iscrizioni scolpite dai molti martiri della stessa causa che avean preceduto gli eroi di questo racconto.
Al momento che introduciamo il lettore in mezzo a queste nobili vittime della tirannia del granduca, fra Leonardo è appoggiato ad una delle colonne che sorreggono la volta: Strozzi è seduto; vicino a lui Selvaggio Aldobrandino, coricato sur un banco, la testa adagiata sul suo mantello avvoltolato: gli altri circondano Bernardo Corsini, il quale sta in piedi sur uno sgabello, intento a scrivere sul muro con un chiodo.
— Che fai tu là, Bernardo? chiese il monaco.
— Lo vedi, padre mio, rispos’egli, scrivo il mio indegno nome accanto a quello dei martiri che mi han preceduto quaggiù, e che mi attendono in cielo.
E passò il chiodo a Vittorio dei Pazzi.
— Alla mia volta, disse Vittorio. Per il Cristo nostro, ultimo principe eletto dalla nazione! questi muri saranno un giorno il libro d’oro di Firenze. Vedete, ecco il nome del vecchio Giacobbe dei Pazzi, mio avo; ecco quello di Gerolamo Savonarola: ecco quello di Nicolò Carducci, di Dante da Castiglione… Viva Dio! che bella guardia di nobili fantasmi deve avere colassù la libertà!
— Scrivi anche il mio, Pazzi, gridò Selvaggio, scrivi il mio fra il tuo e quello di Strozzi. Voglio che la posterità sappia ch’io ero con voi: e, se la muraglia è troppo dura, vieni a prendere del mio sangue e scrivi invece di scolpire… La mia ferita è ancor fresca e non te ne rifiuterà. Scrivi, scrivi: Selvaggio Aldobrandini, morto per la libertà.
— A te, Strozzi! disse Vittorio, dopo avere scolpito il nome di Selvaggio sotto il suo.
E gli porse quell’ignobile chiodo, addivenuto fra le mani di tanti illustri personaggi il bulino della storia.
Filippo Strozzi prese il chiodo, e, all’altezza della sua mano, scrisse:
Dagli amici salvimi Iddio
Che dai nemici mi salvo io.
Vittorio sorrise.
— La preghiera è buona, diss’egli ma dai muri d’una prigione ha il difetto di giungere un po’ tardi.
Gli altri seguitarono ad iscrivere i loro nomi.
In quel momento apparve un famiglio dell’inquisizione di Stato.
— Filippo Strozzi è di ritorno dall’interrogatorio? chies’egli.
— Sì, chi dimanda di lui? chiese Filippo Strozzi.
— Una giovanotta che ha facoltà di passare una mezz’ora con lui, rispose il famiglio.
— Una giovinetta! disse Strozzi con sorpresa. Se non è Luisa…
— È dessa, padre mio! gridò dalla porta la figlia di Strozzi.
— Vieni, figlia mia, disse Filippo aprendo le braccia. Ti ho perdonato, gli altri perdoneranno, spero.
Poi ad un tratto, tornando a tutta la sua tenerezza paterna e sorrandola al suo seno con terrore:
— Oh! fanciulla mia, esclamò, tu mi fai tremare… Da chi hai avuto il permesso di vedermi?
— Dal duca stesso, rispose Luisa.
— Come lo hai ottenuto?
— Fui a richiederlo.
— Dove?
— A palazzo.
— Al palazzo del duca?… gridò Strozzi. Ti recasti da quell’infame?… La figlia di Strozzi a casa di quel bastardo dei Medici?… Oh! mi saria stato men doloroso di non più rivederti, anzi che rivederti a tal condizione… Vanne, vanne!…
E respinse sua figlia.
— Strozzi, sii uomo… disse fra Leonardo accogliendo la giovinetta fra le sue braccia.
Ma il vecchio si alzò e mentre la povera fanciulla lo guardava sorpresa e impaurita:
— Ella fu in casa sua!… seguitò cacciandosi le mani nei capelli. Ella è entrata in quella caverna di depravazione, in quell’antro di lussuria!… E di quanti anni d’innocenza hai tu pagato la grazia di vedermi una mezz’ora?… Rispondi, Luisa, rispondi?…
— Padre mio, rispose la giovinetta con umile affetto, Dio sa che non merito ciò che mi avete detto. E poi io non era sola; Lorenzo era presso il duca, Lorenzo non ci ha lasciati.
— Così, Luisa, nessun patto infame?
— Nulla, padre mio, nulla, sull’onore della mia famiglia. Io mi son gettata a’ suoi piedi, ho chiesto di vedervi. Egli scambiò qualche parola a voce sommessa con Lorenzo, poi firmò una carta, me la consegnò ed io uscii senza avere ad arrossire d’altro che delle sue occhiate.
— Non monta, riprese Strozzi, scuotendo il capo, havvi sotto questa clemenza, Luisa, qualche mistero terribile. Ora, giacché mezz’ora ti fu conceduto, mettiamola a profitto. Questi istanti sono probabilmente gli ultimi che noi trascorriamo insieme.
— Padre mio!… esclamò Luisa.
— Dio ti ha dato la forza, figlia mia, disse il vecchio, e posso parlarti non come ad una fanciulla, ma come ad una donna.
— Oh! mio Dio! Voi mi fate tremare, padre mio! mormorò la giovinetta.
— Tu conosci l’uomo che vuole la mia testa, conosci il tribunale che mi giudica!…
— Sareste voi condannato, padre mio?..
— No… non ancora… ma posso esserlo… lo sarò certamente… Rispondimi dunque come se lo fossi di già. Pensa che si è la tranquillità delle mie ultime ore ch’io sto per domandarti. Pensa che al condannato non resta soltanto a morire, ma che è necessario ch’ei muoia da cristiano, vale a dire, senza maledizioni, senza bestemmie…
— Grazie a voi, mio Dio, mormorò fra Leonardo, a voi che avete qui condotto quest’angelo per rendergli la fede ch’egli avea quasi perduta.
— Che deggio fare, padre mio, per darvi la tranquillità? Ditemelo, e vi obbedirò all’istante.
— Luisa, disse Strozzi con voce solenne, quando tu vedrai rizzare il mio palco, quando saprai che io vado al supplizio, giurami che non farai un passo verso quell’uomo per salvarmi, dovesse la mia vita esserne il prezzo!… Giurami che non sarà mai alcun patto fra la tua innocenza e la sua infamia!… Giacché per l’anima di tua madre, per il mio amore infinito come se fosse divino, Luisa, io ti giuro che non mi salveresti… che io morrei disperato… e che dopo avermi perduto sulla terra, non ti rimarrebbe speranza di ritrovarmi in cielo!
A render più solenne la sua promessa, Luisa si lasciò cadere sui suoi ginocchi, e, poste le mani in quelle del vecchio:
— Padre mio, padre mio! ve lo giuro, diss’ella, E Iddio mi punisca se manco al mio giuramento!
— Non è tutto ancora, continuò Strozzi posando le sue mani sulla testa della fanciulla e guardandola con suprema tenerezza; il pericolo che ti perseguita durante la mia agonia può sopravvivere alla mia morte. Ciò che il duca non ha potuto ottenere dalla paura, ei può cercare d’ottenerlo colla violenza.
— Padre mio!… esclamò Luisa.
— Ei può tutto!… egli osa tutto!… proseguì vivamente il vecchio. È un infame!
— Mio Dio! mormorò la fanciulla celando colle mani il rossore del suo volto.
— Luisa, insistè Filippo, ami meglio morir giovane e pura, non è egli vero, anziché vivere nell’onta e nel disonore?…
— O sì… cento volte sì… mille volte sì… Dio ne è testimonio!
— Ebbene, disse Strozzi con voce che cominciava a tremare suo malgrado, se tu cadessi mai in potere di quell’uomo… se tu non vedessi altro scampo… se la misericordia stessa di Dio non ti offerisse via alcuna di speranza…
— Continuate… dite, dite, padre mio…
— Ebbene, un sol tesoro mi rimaneva, che io aveva sottratto agli occhi di tutti… un ultimo consolatore, un amico supremo che doveva accorciarmi la tortura ed esimermi dal patibolo. Si è questo veleno…
— Datemelo, padre mio! gridò Luisa, indovinando l’intenzione del vecchio.
— Bene, bene, Luisa! disse Filippo, grazie! Questo veleno e la libertà, è l’onore; prendilo, Luisa, io te lo do… rammenta che sei figlia di Strozzi!
— Sarà fatto come voi desiderate, padre mio, ve lo giuro!
E stese il braccio a confermar colla voce e col gesto il giuramento.
— Grazie, disse Filippo; ora morrò in pace. E tu, mio Dio, tu che odi un tal giuramento, non è egli vero, mio Dio, che non permetterai ch’ei si compia?
In quel momento la porta della prigione si aprì, ed il famigliare che aveva accompagnato Luisa riapparve: questa volta era seguito da un uomo mascherato.
L’uomo mascherato entrò con lui, ma si fermò alla porta.
— La mezz’ora è trascorsa, disse il famiglio rivolgendosi alla giovinetta, bisogna seguirmi.
— Oh! di già! di già! gridò la fanciulla.
— Va, figlia mia, e sii benedetta! disse Strozzi.
— Un istante ancora! ancora un secondo! insistè Luisa.
— No, va, va! Addio, figlia mia, nessuna grazia da questi uomini.
— Addio, padre mio!
— Ci rivedremo in cielo, disse fra Leonardo.
— Oh! mormorò Strozzi torcendosi le mani.
— Coraggio, coraggio, povero padre! disse fra Leonardo serrandolo al suo cuore.
Frattanto Luisa, trascinata dal famiglio, si allontanava.
Mentr’ella passava vicino all’uomo mascherato:
— Luisa!… disse questi a voce sommessa.
Al suono della voce, la fanciulla si scosse.
— Lorenzo!… diss’ella sospirando.
— Fidi sempre di me? chiese l’uomo mascherato.
— Più che mai.
— Ebbene, allora, a stasera.
— A questa sera, ripetè la fanciulla.
E, pieno il cuore di speranza e di gioia, ella uscì.
La porta si rinchiuse, e l’uomo mascherato restò solo coi prigionieri, gli sguardi dei quali si fissarono su lui con sorpresa mista a minaccia.
Solo è immerso nel suo dolore, Filippo Strozzi, nelle braccia di fra Leonardo, non se ne occupava.
Vittorio dei Pazzi, movendo un passo al suo incontro, fu il primo a volgergli la parola.
— Chi sei tu, che t’introduci mascherato fra noi? Chies’egli; qualche spia di Maurizio? qualche sbirro del duca?
— Sei tu il tortore? Siamo presto ai tormenti! disse Corsini.
— Sei tu il carnefice? continuò Selvaggio Aldobrandini facendo uno sforzo per reggersi in piedi. Siamo presti alla morte!
— Andiamo, parla, uccello del malaugurio! riprese Vittorio dei Pazzi. Qual nuova ci arrechi?
— Vi arreco la nuova, disse Lorenzino smacherandosi, che siete tutti condannati a morte, e che sarete tutti giustiziati domani mattina al primo albore!
— Lorenzino! esclamarono tutti i prigionieri.
— Che cerchi tu? chiesegli Vittorio.
— Che domandi? insistè Bernardo Corsini.
— Che importa a voi, rispose Lorenzino, a voi, cui altro più non resta che pregare e morire?..
Allora fra Leonardo s’innoltrò a sua volta.
— Lorenzo, diss’egli, scendi tu nelle catacombe per insultare ai martiri? A che vieni tu qui?
— Fra breve il saprai, monaco, perchè gli è a te che io deggio parlare.
— Che vuoi da me?
— Di’ a tutti quegli uomini di allontanarsi e di lasciarci soli quanto è possibile.
— A che?
— Perchè ho un secreto a rivelarti, e che siccome io pure sono in pericolo di morte, voglio che tu oda la mia confessione.
— La tua confessione! esclamò fra Leonardo indietreggiando di un passo.
— Sì.
— Io, udir la tua confessione? disse il monaco spaventato, e perchè io più di un altro?
— Perchè la tua vita è condannata, perchè la tua vita dipende dal mio secreto; perchè infine, di tutta Firenze, io non mi fido ad altro confessore che a te.
— Miei fratelli, indietro tutti! disse fra Leonardo, pallida la fronte, perchè, come lo avea detto a Strozzi, dubitava avere ad udire qualche cosa di ben terribile.
I prigionieri obbedirono. Fra Leonardo sedette appiè della colonna, e Lorenzino s’inginocchiò innanzi a lui.
— Padre mio, disse il giovine, gli è un anno ch’io son tornato a Firenze, maturando già nel mio cuore il progetto che sto oggi per compiere. Reduce appena nella mia città natia, siccome temeva di infondere negli altri i sentimenti che io stesso nutriva, percorsi i diversi quartieri della città; interrogai le case dei poveri e i palazzi dei ricchi. M’immischiai agli umili operai ed agli orgogliosi patrizi. Una sola voce simile ad un gemito immenso, s’innalzava da ogni parte accusando il duca Alessandro. L’uno gli ridomandava il suo onore, l’altro il suo denaro; questi un padre, quegli un figlio. Tutti piangevano, tutti si lagnavano, tutti accusavano; ed io dissi a me stesso: No, non è giusto che un popolo intero soffra in tal modo per la tirannia di un sol uomo.
— Ah! disse fra Leonardo, ciò che noi avevamo sperato era dunque vero?
— Allora, ripigliò Lorenzino, io mi guardai attorno. Vidi la vergogna su tutti i volti, il terrore in tutti gli spiriti, la corruzione in tutte le anime. Cercai chi potesse sorreggermi, e sentii tutto a piegar sotto le mie mani. La delazione era dovunque, all’interno e all’esterno; penetrava nel seno delle famiglie; correva e discuteva nel seno delle famiglie; sedeva al focolare conjugale e si rizzava ad ogni crocicchio! Allora io compresi che chiunque volesse cospirare a tai giorni non doveva eleggersi a confidente che il solo suo pensiero, a complice che il proprio suo braccio. Compresi che, simile al primo Bruto, ei doveva coprire il suo volto d’un velo tanto fitto da renderlo impenetrabile ad ogni sguardo. Lorenzo divenne Lorenzino.
— Seguita, figlio mio, seguita, disse fra Leonardo trepidante.
— Bisognava giungere al duca, continuò il giovane. Bisognava ch’ei difidasse di tutti, bisognava ch’egli fidasse in me solo. Mi feci il suo cortigiano, il suo servo, il suo buffone. Non solo obbedii ai suoi ordini, ma prevenni le sue volontà, precessi i suoi desiderii… Durante un anno, Firenze mi chiamò vile, traditore, infame! Durante un anno, il disprezzo dei miei concittadini pesò su me, più grave della pietra sepolcrale; durante un anno tutti i cuori dubitarono di me, ad eccezione d’un solo… Ma, alfine, ho riuscito: alfine, son giunto al termine del mio lungo e penoso cammino… Padre mio, questa notte io uccido il duca Alessandro.
— Parla piano, parla piano, mormorò fra Leonardo.
— Ma, riprese Lorenzo, il duca è scaltro, il duca è forte, il duca è bravo. Tentando di salvar Firenze, posso soccombere a mia volta. Mi abbisogna dunque l’assoluzione in articulo mortis. Datemela padre mio, datemela senza esitare ch’io abbastanza ho sofferto sulla terra perchè non mi mercanteggiate il cielo!
— Lorenzino, disse il frate, è un delitto l’assolverti, il so; ma questo delitto io lo prendo su me. E quando Dio ti chiamerà per chiederti conto del sangue che avrai versato, io mi presenterò al tuo posto dicendo: Signore, non cercate il colpevole… Signore, il colpevole vi sta dinanzi.
— Sta bene, tutto è detto, rispose Lorenzino. Ora egli, al par di voi, è condannato e non trattasi più che di tempo… Padre mio, domani, quando si verrà a cercarvi, gridate tutti: «Il duca Alessandro è morto! Il duca Alessandro fu ucciso da Lorenzino! Aprite la casa di Lorenzino e troverete il suo cadavere!… » Ed il carnefice stesso tremerà, o il popolo correrà alla mia casa in via Larga, e il popolo rinverrà il corpo; e invece di esser condotti al patibolo, sarete portati in trionfo.
— E tu?
— Io? Io aprirò al popolo la porta della stanza ove sarà il cadavere del duca. Ed ora che vi ho detto tutto ciò ch’io ho a dirvi, addio, padre mio!
Poi, avanzandosi verso gli altri prigionieri che aggruppati teneansi fermi alla porta:
— Largo, signori, diss’egli.
— E se noi non volessimo sgombrarti il passo? disse Vittorio dei Pazzi.
— E se ci prendesse desiderio di vendicarci prima di morire? disse Bernardo Corsini.
— Se avessimo deciso di soffocarti fra le nostre mani, di strangolarti colle nostre catene? disse Filippo Strozzi.
E tutti uniti, perfino Selvaggio Aldobrandini, che tentava trascinarsi presso a Lorenzino, gridarono:
— Ch’ei muoia, colui che ci ha tutti venduti! ch’ei muoia, il traditore! ch’ei muoia, l’infame!
— Lorenzino, aggrottando le sopracciglia, portò la mano alla spada; ma udì la voce di fra Leonardo che diceva piano al suo orecchio:
— Arresta, Lorenzo! è l’ultima sofferenza della tua passione, è l’ultima spina della tua corona!
Poi, ad alta voce e dirigendosi ai prigionieri:
— Fratelli, disse, lasciate passare quell’uomo; egli è il più grande di noi tutti!
E Lorenzino escì in mezzo allo stupore dei prigionieri, che obbedendo all’ordine di fra Leonardo, non fecero un moto per impedirglielo.
10
Gli apparecchi
Era in quella sera gran festa al Palazzo della via Larga; il duca Alessandro aveva riuniti i più intimi a festeggiare con lui il suo trionfo sui repubblicani: solo un posto era rimasto vacante alla sua tavola.
Era quello di Lorenzino.
Già varie volte eran corse domande sulla sua assenza, ma ad ogni interrogazione, il duca rispondeva sorridendo:
— Non vi preoccupate della lontananza di Lino, so dove egli è.
A mezzanotte Lorenzo entrò, s’assise vicino al duca, riempì di vino la sua coppia e l’alzò dicendo:
— Alla prosperità, alla gioia, ai piaceri dell’amato nostro duca!
Tutti fecero eco al brindisi, ed egli allora, inchinandosi all’orecchio del duca:
— Bevete due tazze anzi che una, monsignore, gli disse; fra un’ora Luisa sarà nella mia camera ad attendere vostra altezza.
— Hai fatto ciò, carino? chiese il duca a mezzo ubbriaco.
— Non vi aveva io dato la mia parola, monsignore?
— Fra un’ora? e chi verrà ad avvertirmi?
— Ascoltate, monsignore, io non ho alcuno cui fidarmi. Voi avete l’Unghero che vi è devoto, non è vero?
— Sono sicuro di lui come di me stesso.
— Prestatemelo per recarmi alla torre dalla nostra bella afflitta.
— Buono! disse il duca, ella conoscerà che mi appartiene, e non vorrà seguirlo.
— Con una maschera al viso e un biglietto di mio pugno?… Andiamo! D’altronde, la fanciulla sa ove si conduce.
— Allora, perchè tante precauzioni?
— Per salvar le apparenze, monsignore.
— Prendi dunque l’Unghero, io lo metto ai tuoi ordini.
— Chiamatelo, monsignore, e ditegli ch’ei deve obbedirmi in tutto.
Il duca chiamò il birro.
— Segui Lorenzino, gli disse, e, sul tuo capo! fa tutto ciò ch’egli ti ordinerà.
L’Unghero, avvezzo a tali raccomandazioni, si accontentò di rispondere con un cenno del capo.
Lorenzo si alzò.
— Vai via, carino? gli chiese il duca.
— Perdio! monsignore, bisogna bene ch’io assetti la vostra camera.
— Mi prometti che, appena giunta la bella, mi farai avvertito?
— L’Unghero stesso ve ne avviserà… . Trattasi di non farvi attendere, monsignore.
Lorenzino fe’ qualche passo per uscire: poi, ritornando al duca:
— Monsignore, la vostra parola che niuno dei vostri convitati saprà dove vi recate, nè perchè lasciate la tavola?
— In parola mia!
— La vostra parola che farete una finta onde deviare coloro che vi vedranno uscire?
— La ti do.
— Non ve ne dimenticherete?
— Carino! esclamò il duca.
— Bene, bene, disse Lorenzino; amo meglio due promesse che una sola. Sulla vostra fede di gentiluomo, monsignore?
— In fede di gentiluomo!
— Allora tutto sta bene
— Che hai, Lorenzino? chiese il duca.
— lo? disse il giovine.
— Sei pallido come un morto, e pure il sudore scorre dalla tua fronte.
— Credo bene! disse Lorenzo asciugandosi con un fazzoletto di batista ricamato, pari a quelli di cui si servivano le signore. Si soffoca qui… .
Ed usci frettolosamente.
Mezzanotte suonava all’orologio del Duomo, quando Lorenzo ponea il piede nella via Larga.
Era la notte del 5 al 6 gennaio… notte d’inverno scura e fredda; appena vedevasi a dieci passi di distanza.
Lorenzino s’avviava lentamente, guardandosi a dritta ed a manca, come uomo che cerca qualcuno.
Al canto della via delle Lancie, un uomo gli si presentò ad un tratto.
Lorenzino arretrò portando la mano al pugnale.
— Sono io, monsignore, disse l’uomo.
— Ah! sei tu Michele? chiese Lorenzino
— Non mi avevate detto d’attendere vostra eccellenza nella via Larga, dalle undici ad un ora del mattino?
— Sì; e son lieto di trovarti esatto all’appuntamento… . Sei tu pronto?
— Si.
— Seguimi, allora.
— State dunque per vendicarvi? chiese il birro.
— Fra un’ora spero che tutto sarà finito, Michele!
— Siete ben felice monsignore!
Lorenzino, senza rispondere, s’incamminò il primo, rientrò nella via Larga e aperse una piccola porta.
— Ah! ah! disse Michele, gli è in vostra casa che si farà il negozio?
— Appunto.
— Non temete che si odano da casa del duca le grida ed il fragor delle armi?
— Da un anno, disse Lorenzino, i vicini hanno udito in mia casa tante grida e tanto strepito di armi, che non vi abbaderanno punto; sta di buon animo.
Giunto al primo piano, Lorenzino aprì una porta, ove fe’ entrare Michele.
Stava per lasciarvelo solo, quando lo sbirro il trattenne pel braccio.
— Monsignore, diss’egli, io vi appartengo, ma voi pure mi avete fatto una promessa.
— Ricordamela.
— La è quella di lasciarmi arbitro di liberarmi dal duca, tosto ucciso il vostro nemico.
— Sei dunque sempre della stessa intenzione?
— Più che mai.
— E nè per oro, nè per denaro, nè per preghiere, nè per minacce, tu non rinunzierai al tuo disegno?
— Ho fatto giuramento di ucciderlo senza pietà, senza misericordia!
— Gli è dunque vero ciò che m’hai raccontato?
— Vi ho detto la pura verità.
— Ma è impossibile a credersi.
— Perchè dunque?
— Perchè non esiste uomo capace di simil crudeltà.
— Il duca Alessandro non è un uomo!
— Ell’era dunque bella, quella fanciulla?
— Oh! bella come un angelo!
— Ho obliato il suo nome; si chiamava, mi hai detto?
— Nella.
— E a quanti anni è morta?
— A diciott’anni.
— Assai giovane!
— Oh! ma si è già troppo vecchi, quando da due anni il dolore e la vergogna sono entrati nella vita!
— E tu di’ che dopo averti dato speranza di farti suo sposo, il duca Alessandro… ?
— Oh! tacete, tacete, monsignore!… disse il birro soggiacendo ai ricordi che gli richiamava così crudelmente Lorenzino. Tacete! Voi mi rendereste insensato! Non si tratta di me, trattasi di voi, non è egli vero? Voi mi avete fatto venire per aiutarvi ad uccider qualcuno. Ebbene, qual è l’uomo tanto rinnegato dal cielo, da costringermi a mercanteggiare col prezzo del suo sangue la mia vendetta?… Ditemi il suo nome, ed io sono presto.
— Non ho bisogno di nominarlo, lo vedrai.
— Lo conosco dunque?
— Hai ben poca memoria. Michele, tu mi hai nominati quattro uomini che erano nella camera verde in quella notte fatale, ed io ti ho detto che quegli di cui dovea vendicarmi era uno di essi.
— E vero, monsignore; ciò basta.
— Andiamo dunque!… Io ti lascio in questa stanza; tienti pronto… pensa al duca… sogna la tua vendetta… e quando verrò a cercarti, fa ch’io ti trovi la spada alla mano.
— Siate tranquillo, monsignore.
Lorenzo chiuse la porta dietro Michele ed entrò nella camera preparata pel duca.
Il fuoco ardeva nel camino; era la sola luce che rischiarasse la stanza.
Appena il giovine vi fu entrato, udì sulla scala dei passi.
Ascoltò: erano i passi di un uomo e di una donna.
Udivasi il fruscio di un abito di seta.
Egli si celò nel corridoio e non ebbe che il tempo di aprire una porta e richiuderla dietro a se.
Cinque secondi di poi, Luisa, avendo a guida l’Unghero sempre mascherato, passava dinanzi la porta ed entrava nella camera.
Quella stanza era sconosciuta a Luisa, giacché quella in cui era entrata il mattino stava all’altro lato dell’appartamento.
Ma ella aveva ricevuto il biglietto di Lorenzino, riconosciuta la sua scrittura, ed era tutto ciò che le abbisognava.
— Siamo giunti, ed è qui che dovete attendere, disse l’Unghero.
— Grazie, rispose Luisa sedendosi.
— Desiderate qualche cosa, signora? chiese lo sbirro.
— No, soggiunse la fanciulla; dite soltanto a quegli che vi ha mandato a me, che io sono giunta e che lo attendo.
— Sta bene, signora.
E richiudendo la porta, egli uscì.
— Non avea fatti ancor due passi nel corridoio, quando Lorenzo lo fermò.
— Ella è là? chies’egli sottovoce.
— Sì, monsignore.
— Ebbene, va a dire al duca che noi l’aspettiamo; ma ch’ei ricordi di con lasciarsi scorgere da alcuno, altri che te.
L’Unghero s’inchinò e volle rendergli la chiave della casa.
Ma Lorenzino rifiutò di prenderla.
— E il duca? gli disse, come vuoi tu ch’egli entri?
— È giusto, disse l’Unghero.
Ed uscì portando seco la chiave.
Il duca aveva bene impiegato il tempo, e quando l’Unghero entrò nella sala, trovò il suo signore a mezzo briaco.
Gli fe’ un segno; il duca si alzò e venne a lui.
— Ebbene? chiese allo sbirro.
— Ebbene, monsignore, ella vi aspetta, disse l’Unghero.
— Davvero, continuò il duca, Lorenzino è un uomo prezioso! Credo che se io gli chiedessi la Madonna, riuscirebbe a procacciarmela.
Poi, passando al suo gabinetto di toletta, indossò un lungo abito di raso foderato in zibellino.
— Metterò i miei guanti da guerra, o quelli profumati da far all’amore? chies’egli all’Unghero.
— Mettete quelli per l’amore, eccellenza, rispose l’Unghero.
Di fatto eranvi sul tavolo guanti di maglia, e guanti profumati.
Il duca prese e mise i secondi. Poi aprendo la porta della sala:
— Buona sera e buona notte, signori, diss’egli; potete restare a tavola quanto vi piacerà. V’hanno dei vini nelle cantine e dei letti negli appartamenti. Non venite a corteggiarmi prima del mezzogiorno: dormirò fino a tardi.
— Aspettate, disse uno dei convitati; vengo con voi, monsignore.
— No, no, restate Giustiniano, disse il duca, non ho bisogno d’alcuno.
Ma coll’ostinazione dell’ebbrezza, Giustiniano da Cesena, che era capitano del duca, insistè.
— Ebbene, vieni dunque, beone! disse il duca.
Poi sotto voce a Jacopo.
— Alla piazza San Marco, diss’egli lo rimenerai per amore o per forza: l’Unghero mi basta.
E tutti quattro uscirono dal palazzo. Ma per isviare i sospetti come lo avea promesso a Lorenzino, il duca voltò per la via dei Calderai, prese quella dei Ginori, seguì un istante la strada San Gallo, voltò per quella degli Arazzieri, spinse Giustiniano sulla piazza San Marco, e, seguito dall’Unghero, riprese la via Larga.
Frattanto,Lorenzino era entrato nella camera ove attendevalo Luisa.
In vendendolo, la fanciulla si alzò vivamente e si slanciò fra le sue braccia.
— Tu non hai dubitato di me, le disse Lorenzino; grazie.
— Il giorno in cui dubiterò di te, rispose la fanciulla, sarà il giorno della mia morte!
— Attendi, che io chiuda questa porta, disse Lorenzino.
Ed andò a serrarla; poi tornando a Luisa:
— Avesti fidanza fino al fine, mia amata Luisa; ora ascoltami.
— Come si ascolta la voce di Dio; ma innanzi tutto, mio padre?
— Ti ho detto che tuo padre sarebbe salvo, e lo sarà. Ma ciò non basta; pensando a lui, io ho pensato a noi tutti, fanciulla mia; fra un’ora noi lasciamo Firenze.
— E dove andiamo?
— A Venezia… Ho qui (Lorenzino battè sulla sua tasca) un permesso datomi dal vescovo di Marzi per prendere dei cavalli da posta; una volta libero, tuo padre ne raggiungerà.
— Allora partiamo, amico mio.
— No, non ancora: prima della nostra partenza, un grande avvenimento dee compiersi, Luisa?
— Dove?
— Qui.
— Come, qui?
— Qui in questa camera.
— Ed io… io?
— Tu, Luisa, tu starai là in quel gabinetto; qualunque cosa tu oda, qualunque chiasso si faccia, qualunque cosa si compia, tu non farai un moto, non muoverai un passo, non fiaterai sillaba… Quando tutto sarà ultimato, io ti aprirò, Luisa… tu chiuderai gli occhi attraversando questa camera… e partiremo.
— Lorenzo! Lorenzo! esclamò Luisa, tu mi fai tremare!… Che sta dunque per accadere? Oh! non son mica una bambina… Mio padre stesso me lo ha detto, sono una donna!
— Zitto! disse Lorenzino; non hai tu udito?..
— Parvemi che la porta della strada si richiudesse.
— Così è. Entra in quel gabinetto, Luisa… . È il momento supremo… . Chiama in tuo ajuto tutto il tuo coraggio, e, vedessi tu entrare la morte istessa, taci.
— Santa Madre degli Angioli, che succederà dunque?..
Lorenzino spinse la fanciulla nella camera attigua; chiuse la porta mettendone in tasca la chiave, si lanciò fuor della stanza, ed entrò nel gabinetto ove erasi già celato mentre l’Unghero passava.
L’Unghero passò una seconda volta, ma questa volta accompagnato dal duca.
Il duca entrò gravemente nella camera e sedette sul letto.
— Ebbene, richiese, ov’è ella dunque?
— Chi? domandò l’Unghero.
— Questa bella Luisa che Lorenzino mi ha promessa, e che tu sei andato a chiamare con una parola di lui.
— La ho lasciata qui, monsignore; senza dubbio ella sta per approssimarsi.
— Va bene… va bene, disse il duca. Me ne rimetto a Lorenzino… Tu resta… . attendimi di fronte al palazzo Sostegni fino al giorno. Se al giorno non sarò ancora rientrato, ciò che è probabile, ti recherai ad aspettarmi al palazzo.
— Monsignore rimane solo?
— Eh! no, non resto solo, imbecille! disse il duca ridendo, poiché Lorenzino sta per condurmi la sua fidanzata… . Andiamo, vattene:
L’Unghero escì dalla camera.
Lorenzino, come la prima volta lo attendeva nel corridoio.
— La chiave? gli chies’egli.
— Eccola, disse l’Unghero.
— Il duca ti ha detto d’aspettarlo?
— Sì, fino a giorno… . se al giorno egli non è uscito, posso rientrare al palazzo.
— E puoi rientrarvi anche adesso, disse ridendo Lorenzino. Io ti do congedo.
— Voi mi garentite che monsignore non escirà innanzi giorno?
— Te ne accerto sulla mia fede di gentiluomo, disse Lorenzino mettendo la sua mano sulla spada del birro. Vanne dunque tranquillamente a dormire.
— Ah! in fede mia, disse l’Unghero, e ciò che vado a fare.
— E farai molto bene… Va, amico, va…
L’Unghero scese le scale… Lorenzino, inchinandosi sulla balaustrata, spiò il rumore dei suoi passi, poi udì la porta della strada aprirsi e rinchiudersi.
Allora soltanto respirò.
E, passando le mani alla fronte, entrò nella camera ove trovavasi il duca.
— Ebbene, chiese questi, ove stassi adunque la bella afflitta? Perchè non mi attendeva ella qui!
— Qui?… Voi eravate a cena, monsignore, sapeva io, al numero della coppe che vi ho veduto vuotare, in quale stato vi sareste qui condotto?… Non voleva aveste ad impaurirla. Che diavolo!
— Oh! quante precauzioni, disse il duca sfibbiando il cinturone della sua spada. Andiamo, fatti ad avvertirla.
— All’istante, monsignore.
E, prese la sua spada e la cintura dalle mani del duca, passò due volte la cintura nell’elsa della spada, tanto che se il duca tentasse sguainarla, non potesse riuscirvi.
Dopo ciò, posò la spada sul capezzale del letto.
— Serbate questa veste da camera? chiese Lorenzino al duca.
— Meglio è che no; fa troppo caldo qui.
— Datemela e sdraiatevi sul letto, monsignore; fra un istante quella che attendete sarà qui.
E, dopo aver posto l’abito da camera sur una sedia, egli uscì.
La porta si chiuse dietro di lui.
11
L’omicidio
Lorenzo corse allora alla camera ove stava Michele.
— Fratello, gli disse, l’ora è giunta; tengo chiuso nella mia stanza il nemico di cui ti ho parlato… Sei tu sempre nell’intenzione di ajutarmi a spacciarmene?
— Andiamo! fu la sola risposta del birro.
Ed amendue soffocando quanto fosse possibile il rumore dei loro passi, tenendo ciascuno la spada snudata sotto il mantello, s’incamminarono alla camera ove era rimasto il duca.
Lorenzo aprì la porta ed entrò il primo.
Il duca non era più seduto, ma coricato sul letto. Avea il viso rivolto al muro ed era forse già assopito
Lorenzo inoltrò fino a lui senza ch’ei facesse un sol movimento.
— Signore, gli chiese, dormite voi?
E, al tempo stesso ch’ei parlava, gli vibrò un colpo tanto terribile colla corta e fina spada che teneva alla mano, che la punta entrata da una parte al disopra della spalla, esci per l’altra al disotto del seno.
Il duca gettò un grido di dolore.
Ma siccome egli era potentemente forte, si slanciò d’un balzo al mezzo della camera, e stava per raggiungerla porta, quando, sulla porta, ei trovò Michele, il quale riconoscendo il duca Alessandro gettò un grido di gioia, e al tempo stesso, con un colpo di tagliente, gli aperse le tempia ed abbattè quasi per intiero la guancia sinistra.
Il duca indietreggiò di due passi cercando qualche altro mezzo di scampo; Lorenzino lo avvinghiò a mezzo il corpo, lo respinse sul letto e lo rinversò all’indietro, pesandogli sopra con tutto il suo corpo.
Allora il duca Alessandro, che, simile ad una bestia feroce presa all’agguato, non avea ancor detto sillaba, chiamò per la prima volta il soccorso. Ma Lorenzino gli posò violentemente la mano alla bocca, tanto che il pollice e una metà dell’indice vi entrarono. Per un moto istantaneo, il duca serrò i denti con tanta forza che le infrante ossa scricchiolarono, e il dolore sentito da Lorenzino fu tale, che a sua volta ei si gettò all’indietro mettendo un grido d’angoscia simile ad un ruggito.
Tosto, quantunque versasse sangue da due ferite, quantunque il vomitasse dalla bocca, Alessandro si scaglio sul suo avversario, e, piegandolo sotto di sè come fosse una canna, tentò soffocarlo fra le sue mani.
Lorenzino si senti perduto. In questa lotta corpo a corpo la sua spada gli era inutile. Pensò dunque a quel piccolo coltello, dalla lama acuta, che forava gli zecchino d’oro. Lo cercò in petto trovollo e lo immerse per due volte nelle viscere del duca. Ma nè l’una nè l’altra di queste due ferite gli fecero lasciar la preda. Michele voleva invano venir in soccorso di Lorenzino; i due lottatori si tenevano talmente avvinghiati, che a malgrado il suo desiderio di prender parte alla morte del duca, ei non osava colpir l’uno, per tema di uccidere o ferire l’altro. In ultimo fe’ come Lorenzino, gettò via la spada, prese la daga, e si mischiò al gruppo informe combattendo alla fioca luce che spandeva nella camera il fuoco del camino. Trovò la gola del duca, vi piantò la sua daga, e siccome il duca non cadeva ancora, egli andò tanto succhiellinando, dice lo storico Varchi, che lo scannò.
Il duca cadde gettando un ultimo rantolo e trascinando nella sua caduta Lorenzino e Michele. Ma ambedue si rialzarono tosto, fecero ognuno dal suo lato un passo addietro, poi si sogguardarono l’un l’altro spaventati essi stessi dal sangue che grondava dai loro abiti e dal pallore cbe copriva i loro volti.
— Alfine, disse primo il birro, credo ch’ei sia morto!
E sicome Lorenzino scuoteva il capo in segno di dubbio, Michele andò a raccorre la spada e tornò a colpirne lentamente il duca, che non fe’ moto.
Non era più che un cadavere.
Allora Lorenzino pensò a Luisa, al terrore ch’ella doveva provare. Egli aveva udito due o tre volte durante il combattimento, che avea durato più di dieci minuti, dei sospiri soffocati uscire dalla vicina camera. Le aperse e chiamò Luisa, ma nessuno rispose.
Solo, al pallido chiarore che penetrava da una stanza nell’altra, gli parve discernere il corpo della giovinetta steso sul tappeto.
Si slanciò al suo incontro, la prese nelle sue braccia, e, credendola semplicemente svenuta, la portò nella camera rischiarata dalla luce del fuoco, la depose in faccia al cammino, colla testa appoggiata sul suo ginocchio, e chiamandola con accenti d’angoscia impossibili a descriversi.
Luisa riaperse gli occhi; Lorenzino gettò un grido di gioia.
Credette che la fanciulla tornasse in sè.
Ma ella, con voce spenta:
— Perdonami, mio amato Lorenzo, gli disse; ho dubitato di te, e ti aveva detto che l’istante in cui dubiterei di te sarebbe quello della mia morte.
— Ebbene? ebbene? domandò Lorenzo. Parla, parla!…
— Ebbene, mio padre mi aveva dato pel caso ch’io cadessi in potere del duca, questa boccetta di veleno… Ho creduto non solo di esservi, ma che tu stesso me gli avessi abbandonata…
— E poi?… e poi? gridò Lorenzino.
— Osserva… disse Luisa.
— La boccetta vuota, urlò il giovane.
E, pazzo di dolore, senza ricordarsi la ferita della sua mano, egli si slanciò per la scala trasportando il corpo di Luisa e lasciando nella stanza il cadavere del duca.
Più tranquillo di lui, Michele escì alla sua volta, chiudendo accuratamente la porta della camera e quella della strada.
Poi, senza travagliarsi di ciò ch’era addivenuto di Lorenzo, egli andò ad inginocchiarsi dinanzi la Madonna sita al canto della piazza della Santissima Annunziata, ringraziando, nella sua superstizione, la Vergine di tutte misericordie che gli aveva permesso di menare a buon fine questo orrendo omicidio.
La mattina appresso di buon mattino il segretario non avendo veduto il Duca Alessandro, e udito romoreggiare qualche parola confusa dell’accaduto in quella notte, pensò avvisare il Cardinale Cibo, col quale poi si fece introdurre nella camera del Duca.
Aperta che fu la finestra non trovarono che un cadavere.
12
Conclusione
Si sa qual fu per Firenze lo scioglimento del terribile dramma di cui abbiamo accennate le principali peripezie.
Venne data al mondo una nuova prova di questa gran verità, che quasi sempre il pugnale miete, ma non raccoglie.
Come, dopo la morte del vincitore di Pompeo, Roma era passata da Cesare ad Ottavio, dopo la morte del duca, Firenze passò da Alessandro a quel giovane Cosimo I di cui abbiam tenuto parola al principio di questa storia, ed a cui la popolarità del padre Giovanni dalle Bande Nere, la giovinezza, la beltà e l’abitudine già presa dai Fiorentini alla schiavitù spianarono il cammino del trono.
Ei vi salì mediante il giuramento che fece al cardinal Cibo di serbar religiosamente quattro promesse:
La prima di rendere egual giustizia ai poveri ed ai ricchi.
La seconda di non acconsentire giammai a ristabilire in Firenze l’autorità dell’imperatore.
La terza di vendicar la morte del duca Alessandro.
La quarta di trattar bene il signor Giulio e la signora Giulia suoi figli naturali.
Cosimo giurò e prese per divisa questo emistichio di Virgilio;
Primo avulso, non deficit alter.
Ma avvenne di Cosimo ciò che accade di ogni uomo cui una inattesa rivoluzione porta al potere.
Al primo scaleo del trono, egli riceve le condizioni; all’ultimo, ne impone.
Le sole ch’ei fedelmente attenne furon quelle che avevano affinità colla vendetta.
Il domane dell’assassinio, al momento in cui il cardinal Cibo s’avvide della morte del duca Alessandro, egli comprese di qual imbarazzo sarebbegli la presenza di Strozzi e dei suoi compagni nella città… Morto il duca non si poteva farli giustiziare.
Si andò dunque a prenderli al Bargello; lor si disse che il duca gli aveva graziati, e furono condotti fino alla frontiera, lasciando loro in libertà di recarsi ove meglio volessero.
Essi si ritirarono a Venezia.
Là soltanto Strozzi apprese, dallo stesso Lorenzino, l’assassinio del duca e la morte di Luisa.
I primi momenti furono sacri al dolore.
Ma quando essi videro Firenze nelle mani di Cosimo I, quand’essi poterono apprezzare il cupo e inumano genio del nuovo duca, essi raccolsero a sè d’attorno quanti repubblicani rimanevano in Toscana, e risolsero di tentare apertamente gli eventi della guerra.
Furon sconfitti e si ritirarono nella cittadella di Montemurlo, ove Alessandro Vitelli gli assediò.
Dopo un sanguinoso combattimento, che durò più di due ore, gli assalitori, che erano condottieri italiani e spagnuoli, penetrarono nel castello, ove i repubblicani furono parte uccisi, parte imprigionati.
Filippo Strozzi si arrese allo stesso Vitelli.
Cosimo fece venire i prigionieri a Firenze, dopo averli riscattati dai soldati che gli avevan presi, e li fe’ condannare dal tribunale degli Otto.
Durante quattro giorni, quattro repubblicani, ebbero ad ogni mattino tronco il capo sulla piazza della Signoria.
Ma il popolo non potè sopportare tale spettacolo. Egli sentiva che il sangue più puro di Firenze stillava in tal modo dalla scure del carnefice.
I clamori del popolo impaurirono il duca.
Egli mandò quanti prigionieri gli rimanevano, fra i quali trovavasi Nicolò Macchiavelli, il figlio dello storico, nelle prigioni di Pisa, di Livorno e di Volterra.
Vi perirono tutti in meno di un mese.
Cinque furono conservati fra i più illustri:
Bartolomeo Valori; Filippo Valori suo figlio; un altro Filippo Valori suo nipote; Antonio Francesco degli Albizzi, ed Alessandro Rondinella.
Tutti cinque erano destinati ad un grande esempio.
Dovevano perire il 20 agosto, cioè a dire l’anniversario del giorno in cui, sette anni innanzi questo stesso Bartolomeo Valori, dapprima partigiano d’Alessandro dei Medici, aveva adunato il Parlamento, violata la capitolazione di Firenze, e sommessa la sua patria a quegli stessi Medici che lo ricompensavano come sogliono ricompensare i tiranni.
Furono tutti cinque sottoposti alla tortura e condotti, il giorno fissato, al patibolo.
Costoro perirono come traditori della repubblica.
Rimaneva Filippo Strozzi: siccome ei s’era arreso ad Alessandro Vitelli, a lui solo egli apparteneva. Alessandro Vitelli l’aveva rinchiuso nella cittadella di cui era signore, e ve lo tratteneva con tutti i riguardi, rifiutando di consegnarlo a Cosimo dei Medici.
Ma la era una bisogna di denaro e di tempo. Cosimo comprò il prigioniero, e Carlo V autorizzò Vitelli a venderlo.
Ma, sfortunatamente per la vendetta di Cosimo, il giorno in cui giunse l’autorizzazione di rimettere il prigioniero, Filippo Strozzi, fattone avvertito, si tagliò la gola con un temperino, dopo avere scritto colle prime stille del suo sangue questo verso profetico di Virgilio:
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor.
Quanto a Lorenzino, fu rinvenuto assassinato in una via di Venezia nel 1547, il giorno anniversario di quello in cui, dieci anni prima, Cosimo I avea fatto giuramento di vendicar la morte del duca Alessandro.
FINE
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